Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32964 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. I, 13/12/2019, (ud. 14/11/2019, dep. 13/12/2019), n.32964

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27906/2018 proposto da:

E.E., rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIA

PAOLINELLI e domiciliato presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 136/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 07/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 5.3.2016 il Questore di Ancona negava a E.E. il rinnovo del permesso di soggiorno, già concessogli per motivi umanitari. Il Tribunale di Ancona, con ordinanza del 21.9.2016, rigettava il ricorso proposto dall’ E. avverso il predetto decreto. Interponeva appello l’odierno ricorrente e la Corte di Appello di Ancona, con la sentenza oggi impugnata, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto E.E. affidandosi a due motivi.

Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte di Appello avrebbe ritenuto decisiva, ai fini del rigetto del gravame, la circostanza – non vera e comunque non dimostrata dal Ministero resistente – che il richiedente fosse stato destinatario di una condanna penale in altro Paese dell’Unione Europea.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, art. 3 della Convenzione E.D.U., art. 10 Cost. e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente indagato la situazione interna del Paese di provenienza, caratterizzata da grave instabilità, violenza generalizzata ed estrema povertà.

Le due censure, che possono essere trattate congiuntamente, sono infondate.

Come riportato a pag. 2 della sentenza qui impugnata, il Tribunale “… ha rilevato che il soggetto richiedente protezione (resosi irreperibile) era destinatario di un provvedimento restrittivo della libertà personale emesso dalla Autorità danese e da quella svizzera per spaccio di sostanze stupefacenti (cocaina); ha considerato che nello Stato di provenienza della Nigeria non era in atto una situazione di conflitto armato ed ha, peraltro, osservato che non era sussistente una condizione di vulnerabilità del soggetto, di giovane età, dotato di buone capacità di lavoro e in buona salute; ha infine rilevato che non sussistono motivazioni di carattere familiare e di tutela del nucleo familiare”.

La Corte di merito ha ritenuto (cfr. pag. 3 della sentenza) che l’appellante non avesse proposto specifiche censure rispetto a tale impianto motivo della decisione di prime cure, non avesse dedotto sopravvenienze di gravi malattie o di altre situazioni di vulnerabilità soggettiva, ed anzi avesse dimostrato, con la sua condotta, di potersi muovere liberamente tra gli Stati dell’Unione Europea, rendendosi anche irreperibile. Fatto, quest’ultimo, ritenuto dalla Corte territoriale assai poco compatibile con una condizione di vulnerabilità soggettiva.

Inoltre, la Corte marchigiana ha dato atto che nella zona di provenienza dell’ E. (Anambra State) non si erano registrate violenze tra il gruppo eversivo (OMISSIS) e la polizia governativa nigeriana.

I motivi di ricorso non attingono in modo sufficientemente specifico i punti salienti della motivazione resa dalla Corte di merito.

In particolare, il ricorrente non indica alcun elemento puntuale a dimostrazione della non rilevanza, o non esistenza, del precedente penale richiamato dalla Corte anconetana, limitandosi piuttosto a censurare il fatto che il giudice di seconde cure abbia inteso come “precedente” quella che in effetti sarebbe una semplice segnalazione pervenuta dal servizio per la cooperazione internazionale delle forze di Polizia, omettendo di fornire qualsiasi motivazione sul punto.

Sul punto, è opportuno chiarire che, a prescindere dal fatto – in sè poco rilevante – che l’ E. sia stato destinatario di un precedente in senso stretto, ovvero di una mera segnalazione, l’autorità amministrativa che procede prima all’istruttoria della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari e poi all’adozione del provvedimento conclusivo del relativo procedimento è incaricata di svolgere una valutazione di opportunità che si fonda anche sulla verifica dell’inesistenza di determinate condanne penali e, più in generale, sulla pericolosità del richiedente. Infatti ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 4, “Il rinnovo del permesso di soggiorno… è sottoposto alla verifica delle condizioni previste per il suo rilascio e delle diverse condizioni previste dal presente testo unico”; e tra i predetti requisiti vi è anche, a norma di quanto previsto dall’art. 4, comma 3, del già citato testo unico, il fatto che il richiedente non deve aver riportato condanne, anche con sentenza non definitiva, per reati connessi agli stupefacenti e non deve costituire una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

Da quanto precede discende che l’esistenza anche di una semplice segnalazione dell’ E., da ritenere qualificata perchè proveniente dalle forze di polizia di un altro Stato membro dell’Unione Europea, in forza della quale il soggetto sarebbe stato condannato in Danimarca per spaccio di cocaina, costituisce elemento sufficiente a giustificare il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno rilasciato in Italia.

In ogni caso, va esclusa la configurabilità del vizio di omesso esame del fatto decisivo che il ricorrente deduce con il primo motivo, posto che – al contrario di quanto ritenuto dall’ E. – la Corte territoriale ha considerato l’esistenza del precedente, ritenendola – appunto – ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Per quanto invece attiene alla seconda censura, incentrata sulla valutazione delle condizioni del Paese di provenienza, basterà qui ribadire che il principio del cd. non refoulmant opera soltanto a condizione che si verifichi l’esistenza, nel Paese di origine del richiedente la protezione, di una situazione di grave instabilità politica che assurga tale gravità da costituire un rischio generalizzato per la collettività dei cittadini. Come argomentato dalla Corte di Appello, in Nigeria non si registra una condizione di conflitto armato interno, e la situazione dell’Anambra State (area di provenienza dell’ E.) non evidenzia l’attività del gruppo terroristico (OMISSIS), attivo invece in altre zone del Paese. Il ricorso non attinge in modo specifico questa statuizione: il secondo motivo, in particolare, contiene una serie di informazioni sulla Nigeria tratte da fonti internazionali, che tuttavia da un lato concernono condizioni soggettive diverse da quella del ricorrente (persone lesbiche, gay, transessuali, persone soggette a detenzione, ecc.) e dall’altro lato confermano l’esistenza di un quadro di instabilità e pericolo generalizzato potenzialmente rilevante ai fini della concessione della tutela sussidiaria soltanto nelle aree di Borno, Yobe e Adamawa, diverse da quella dalla quale il richiedente ha dichiarato di provenire (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata).

Nè appare condivisibile l’approccio proposto dal ricorrente (cfr. pag. 17 del ricorso), secondo cui non sarebbe possibile un approccio settoriale nella valutazione del pericolo: in sostanza, una volta verificato che nel Paese di provenienza esistono aree soggette ad instabilità politica e fenomeni di violenza la prospettiva dovrebbe essere rovesciata e dovrebbe quindi sempre riconoscersi la protezione umanitaria a colui che proviene da quel Paese, a meno che non si dimostri che quella persona può recarsi legalmente e senza pericolo, ed all’occorrenza stabilirsi, nella zona del Paese ritenuta sicura. Questa Corte ha infatti affermato che “In tema di protezione internazionale dello straniero, nell’ordinamento italiano la valutazione della settorialità della situazione di rischio di danno grave deve essere intesa, alla stregua della disciplina di cui al D.Lgs. n. 25 del 2007, nel senso che il riconoscimento del diritto ad ottenere lo “status” di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d’origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, mentre non vale il contrario, sicchè il richiedente non può accedere alla protezione se proveniente da una regione o area interna del Paese d’origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre regioni o aree invece insicure” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13088 del 15/05/2019, Rv. 653884; cfr. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 18540 del 10/07/2019, Rv. 654660).

Nè rileva, infine, la circostanza che la Nigeria sia uno dei Paesi più poveri al mondo, poichè la valutazione comparativa che dev’essere compiuta tra le condizioni di vita in Italia del richiedente la protezione e quelle che il medesimo incontrerebbe nel Paese di origine in caso di rimpatrio deve comunque avere attinenza con i diritti fondamentali della persona e non può tradursi nel puro e semplice confronto tra due differenti stili di vita. Questa Corte ha affermato, in proposito, che “Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. (cfr. Cass. n. 420/2012, n. 359/2013, n. 15756/2013)” (cfr. in motivazione – pagg. 9 e s. – Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298).

Diversamente argomentando, ovverosia laddove si desse rilievo non tanto alla storia personale del richiedente, ma alla condizione del Paese di origine in termini generali ed astratti si finirebbe per tradire il senso della legge, riducendo la valutazione sulla vulnerabilità personale del soggetto, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ad una sorta di “doppione” dell’apprezzamento che il giudice di merito è chiamato a condurre sulla situazione interna del Paese di provenienza ai diversi fini della concessione della tutela sussidiaria. Occorre quindi ribadire che “La valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700).

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Nulla per le spese, in difetto di attività difensiva svolta dal Ministero dell’Interno intimato nel presente giudizio di legittimità.

Poichè il ricorrente è stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, non sussistono presupposti processuali per dichiarare, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, l’obbligo di versamento da parte del ricorrente medesimo dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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