Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3296 del 08/02/2017

Cassazione civile, sez. VI, 08/02/2017, (ud. 09/12/2016, dep.08/02/2017),  n. 3296

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1113-2016 proposto da:

C.L.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA

SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell’avvocato LORETO ANTONELLO

CHIOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato DONATO MASIELLO giusta

mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1050/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI del

12/06/2015, depositata il 09/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/12/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCO ANTONIO GENOVESE;

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 20 luglio 2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.:

“Con sentenza in data 9 luglio 2015, la Corte d’Appello di Bari, decidendo, a seguito di cassazione con rinvio, della statuizione divorzile relativa al mantenimento del coniuge, signora G.P., ha modificato la pronuncia di appello che, al pari di quella di primo grado, aveva escluso l’assegno di mantenimento, stabilendo che a carico del signor C. gravasse invece un contributo mensile pari a 400,00 mensile.

Avverso la sentenza del Giudice distrettuale ha proposto ricorso per cassazione il C., con atto notificato il 20 dicembre 2015, sulla base di un unico mezzo, con il quale lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 383, 384 e 294 c.p.c..

La G. non ha svolto difese.

Il ricorso appare manifestamente infondato giacchè:

a) Il dictum della Corte di cassazione è stato fedelmente osservato dalla Corte territoriale, laddove essa ha tenuto conto che il mandato conferitole era quello di dare peso al principio secondo cui “l’assegno per il coniuge deve tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante da convivenza matrimoniale (…) indice di tale tenore di vita può essere l’attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi”;

b) Pertanto, la Corte distrettuale ha correttamente considerato la disparità di condizione economica dei coniugi quale indice per comprovare il tenore di vita dei due litiganti;

c) che le restanti doglianze circa il mancato esame di ulteriori, e neppure concretamente indicati elementi, si concreta in inammissibili censure motivazionali che s’infrangono sul nuovo diverso tenore della previsione processuale (ossia, l’art. 360 c.p.c., n. 5), ormai così chiarita dalle SU civili (nella Sentenza n. 8053 del 2014): “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (anomalie, le uniche ammissibili nel vigente giudizio di cassazione, che non sono riscontrabili nelle ipotesi lamentate dalla ricorrente, in quanto, esse si sostanziano in una contestazione della fondatezza delle argomentazioni avversarie e nel loro parziale accoglimento da parte del giudice di merito).”.

In conclusione, si deve disporre il giudizio camerale ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c., e art. 375 c.p.c., n. 5″.

Considerato che con atto depositato in data 6 dicembre 2016, il ricorrente, e per esso il suo difensore, ha dichiarato di voler rinunciare al ricorso;

che, in ragione della detta rinuncia, il processo deve essere dichiarato estinto, anche in mancanza di atto di accettazione del contro ricorrente, ed in sede camerale, equivalendo la sua declaratoria ad una ipotesi assimilabile all’improcedibilità (sopravvenuta) del ricorso, cui si estende il rito camerale di cui all’art. 375 c.p.c., n. 1, (infatti ” Sebbene l’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1, anche nel testo modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, non preveda espressamente tra i casi di applicabilità del procedimento decisorio in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c., l’ipotesi di improcedibilità del ricorso, essa vi si deve ritenere egualmente compresa.” (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21563 del 2011));

che, infatti, questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui “La rinuncia al ricorso per cassazione produce l’estinzione del processo anche in assenza di accettazione, in quanto tale atto non ha carattere “accettizio” (non richiede, cioè, l’accettazione della controparte per essere produttivo di effetti processuali), e, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, comporta il venir meno dell’interesse a contrastare l’impugnazione, rimanendo, comunque, salva la condanna del rinunciante alle spese del giudizio.” (Sez. 6 – L, Sentenza n. 3971 del 2015); che, perciò, il processo deve essere dichiarato estinto;

che, non v’è ragione di provvedere sulle spese di lite non avendo l’intimata svolto attività difensiva in questa fase, senza che sussista titolo per il raddoppio del contributo unificato (In tema di impugnazioni, il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non trova applicazione in caso di rinuncia al ricorso per cassazione in quanto tale misura si applica ai soli casi – tipici – del rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità e, trattandosi di misura eccezionale, “lato sensu” sanzionatoria, è di stretta interpretazione e non suscettibile, pertanto, di interpretazione estensiva o analogica (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 23175 del 2015)).

PQM

La Corte;

Dichiara estinto il processo per rinuncia.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-la sezione civile della Corte di cassazione, il 9 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2017

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