Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32946 del 20/12/2018

Cassazione civile sez. III, 20/12/2018, (ud. 08/11/2018, dep. 20/12/2018), n.32946

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12986-2016 proposto da:

P.M., P.A., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA MONTE SANTO, 10/A, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO

ORSINI, rappresentati e difesi dagli avvocati ARMANDO CROCE,

ALESSANDRA CROCE giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, C.SO TRIESTE

199, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO TALLARICO,

rappresentata e difesa dall’avvocato CLAUDIO RUSSO giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4116/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 23/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/11/2018 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza dell’11 giugno 2012 il Tribunale di Napoli, sezione specializzata agraria, per quanto qui interessa, rigettava la domanda proposta da P.A. e P.M. di condanna della convenuta A.A. al pagamento di indennità per miglioria di un fondo che gli attori avevano condotto in affitto in forza di un contratto in cui ella rivestiva la parte di concedente, e rigettava pure la subordinata domanda di arricchimento senza causa. P.A. e P.M. proponevano appello, cui controparte resisteva e che la Corte d’appello di Napoli, sezione specializzata agraria, respingeva con sentenza del 23 novembre 2015.

P.A. e P.M. hanno proposto ricorso, articolato in tre motivi e illustrato anche con memoria; si è difesa con controricorso A.A..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 101 c.p.c., comma 2.

Il giudice d’appello ha escluso che vi fosse extrapetizione nell’avere il primo giudice applicato l’art. 10 del contratto escludente l’indennità suddetta, negando che avvalersi di tale clausola costituisse eccezione stricto sensu. Secondo i ricorrenti si tratta di diritti disponibili per cui il criterio da tenere in conto è rappresentato dalla volontà delle parti di avvalersi di determinate accezioni: e la resistente non avrebbe opposto l’art. 10 del contratto, per cui la corte territoriale stessa sarebbe incorsa in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Sarebbe stato parimenti violato l’art. 101 c.p.c., comma 2, perchè si sarebbe dovuto suscitare contraddittorio su tale questione, evitando così di pronunciare la c.d. sentenza a sorpresa.

1.2 Il motivo è manifestamente infondato.

Il giudice d’appello aveva fronteggiato la stessa questione che costituiva il primo dei tre motivi di gravame: gli appellanti avevano addotto che il giudice di prime cure aveva errato rigettando la domanda attorea in base a “eccezioni ed argomentazioni difensive mai proposte dalla resistente e comunque non rilevabili d’ufficio, tenuto conto che quest’ultima non aveva invocato la clausola di cui all’art. 10) del contratto di affittanza escludente l’indennizzo ai miglioramenti, bensì aveva richiamato il prodotto contratto di affitto agrario, al solo fine di sostenere che il fondo locato era già destinato a frutteto e vigneto, già all’inizio della locazione, onde alcuna miglioria poteva esservi stata apportata dagli affittuari” (così ben riassume la censura la corte territoriale a pagina 2 della sentenza). Il motivo nella sentenza impugnata è confutato come segue: “…non è ravvisabile alcun vizio di extrapetizione…, tenuto conto che correttamente il primo giudicante ha sulla scorta della clausola di cui all’art. 10 del contratto di affittanza agraria… rilevato prioritariamente che convenzionalmente era stata pattuita l’esclusione del diritto dell’affittuario alla indennità per i miglioramenti apportati al fondo, avendone le parti già tenuto conto in sede di quantificazione dell’estaglio”; e “che il contratto di affitto del fondo rustico in questione sia stato prodotto dalla resistente…al solo fine di sostenere che sin dall’inizio del rapporto locativo il fondo locato era già destinato a frutteto e vigneto, onde alcuna miglioria con la asserita trasformazione da bosco ceduo a frutteto poteva esservi stata apportata dagli affittuari, non precludeva al primo giudicante di esaminare e vagliare nella sua integrità, in linea con il principio di acquisizione processuale, il contratto”; di qui l’affermazione che l’art. 10 “assurge a rilievo quale circostanza impeditiva all’insorgenza del diritto all’indennità, integrando un’eccezione in senso lato in quanto tale rilevabile anche d’ufficio e non già una eccezione in senso stretto…posto che nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità d’ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale specifica normativa”; d’altronde “occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione”, il secondo competendo alla parte soltanto “quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impediti o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito” (motivazione, pagine 3-4).

La motivazione così sintetizzata dell’impugnata sentenza è pienamente condivisibile, e del tutto inadeguata è la sua confutazione, con la quale, a ben guardare, i ricorrenti tentano di riproporre, nel primo motivo del ricorso, quel che, come si è appena visto, costituiva il contenuto del primo motivo di appello.

La prospettazione della loro censura, infatti, conduce all’insostenibile asserto che, in una causa fondata su un contratto, che è stato acquisito agli atti, il giudice non potrebbe avvalersi del contenuto del contratto se non limitatamente alle clausole indicategli dalle parti stesse. Nè, d’altronde, le argomentazioni del motivo in esame possono fronteggiare il principio, espressamente richiamato dalla corte territoriale, per cui l’eccezione in senso stretto deve essere prevista – in quanto limite della fondamentale regola del processo da mihi factum dabo tibi jus – da specifica norma od essere inscindibilmente avvinta alla volontà di parte, id est essendo collocata nell’ambito di un suo diritto potestativo, e quindi processualmente nell’assoluto potere dispositivo (tra gli arresti recenti, Cass. sez. 3, 5 agosto n. 18602 rimarca che “nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva dí un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte (da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale”; su questa linea cfr. pure Cass. sez. 2, 31 luglio 2014 n. 17474; Cass. sez. 1, 21 novembre 2014 n. 24866; Cass. sez. 1, 15 dicembre 2014 n. 26277; Cass. sez. 3, 30 giugno 2015 n. 13335; Cass. sez. 2, 21 novembre 2016 n. 23667), preservandosi in tal modo il necessario equilibrio funzionale del processo, non deformabile mediante quella protezione dal suo abuso che è pur rappresentata dalla struttura preclusiva (S.U. ord. 7 maggio 2013 n. 10531 evidenzia che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato sulla base dei fatti che risultino documentati ex actis manifesta un regime delle eccezioni configurato “in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto”).

Non ha poi alcun pregio l’asserto di violazione da parte del giudice d’appello dell’art. 101 c.p.c., comma 2.

A prescindere dal fatto che il ricorso di primo grado fu iscritto a ruolo il 13 febbraio 2009, per cui prima della L. n. 69 del 2009 che introdusse alll’art. 101 c.p.c., il comma 2 (dato invero non dirimente, essendo stata notoriamente tale novità normativa il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale nomofilattica), si tratta comunque di una inammissibile questione nuova, perchè, se mai vi fosse stata una (concreta) lesione al diritto al contraddittorio nell’applicazione dell’art. 10 del contratto d’affitto, si sarebbe dovuto denunciarla già in grado d’appello, in quanto sarebbe stato il Tribunale a effettuare la “sorpresa”. La pretesa assenza di uno specifico contraddittorio integrerebbe inoltre un preteso vizio di rito, per cui, come si è appena accennato, occorrerebbe – e qui ictu oculi manca – l’indicazione da parte dei ricorrenti della concreta lesione del diritto di difesa subita (da ultimo cfr., p. es., Cass. sez. 3, 26 settembre 2017 n. 22341) in rapporto al contenuto della decisione impugnata.

Sotto ogni profilo, quindi, il motivo risulta infondato.

2. Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c. e art. 157 c.p.c., comma 2.

La corte territoriale avrebbe “avallato” il capo della pronuncia di primo grado che aveva dichiarato inammissibili le prove testimoniali addotte dagli attuali ricorrenti per genericità. Si argomenta per dimostrare che in realtà la capitolazione avrebbe fornito una prova testimoniale specifica, aggiungendo poi che la nullità delle prove non sarebbe stata rilevabile d’ufficio.

Si tratta, ictu oculi, di una censura eccentrica: il giudice d’appello, fondandosi sul contenuto dell’art. 10 di quello che pacificamente era il contratto governante il rapporto tra le parti clausola escludente in via generale l’indennizzo per la miglioria all’affittuario – ha assorbito, in tale suo ragionamento, ogni ulteriore profilo, e quindi non ha dovuto spingersi a vagliare la formulazione delle prove testimoniali attinenti alla natura e all’epoca di realizzazione delle opere asseritamente migliorative, prove disattese dal primo giudicante per genericità e che erano state riproposte come secondo motivo d’appello (cfr. pagina 2 della sentenza impugnata).

3. Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 2042 c.c.: avrebbe errato la corte territoriale nel ritenere inammissibile l’azione per arricchimento senza causa.

Questo motivo è palesemente infondato, come emerge dalla motivazione della corte territoriale, ancora una volta del tutto condivisibile.

Osserva infatti la corte territoriale che, in forza della sussidiarietà che connota l’azione di ingiustificato arricchimento, questa è proponibile in subordine rispetto all’azione contrattuale proposta in tesi “soltanto qualora quest’ultima sia rigettata per carenza ab origine del titolo posto a suo fondamento”; e d’altronde l’esistenza dell’art. 10 come clausola dirimente nel contratto d’affitto “preclude ad un tempo in radice l’azionabilità” della pretesa in esame, “non potendosi accordare tutela giudiziaria in ordine ad un diritto di credito insussistente, giammai insorto alla stregua delle pattuizioni intercorse tra le parti nell’esercizio ed espressione della propria autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ.” (motivazione, pagine 5-6). E’ logico, prima ancora che giuridicamente corretto, invero, ritenere che, se le parti inseriscono nel regolamento negoziale da esse conformato una determinata clausola che espressamente esclude un indennizzo esprimendo che tale prestazione era già stata tenuta in conto in un altro elemento favorevole alla parte che l’ha posta in essere presente nel regolamento (nel caso in esame, “sulla determinazione dell’estaglio”, come recita l’art. 10), esse concordemente determinano, appunto in forza della loro autonomia negoziale – e quindi senza incorrere in alcuna invalidità -, che la prestazione da cui deriverebbe, se si potesse applicare l’art. 2041 c.c., arricchimento di una parte in realtà arricchimento non le apporta, proprio perchè per la suddetta prestazione è stata già pattuito, espressamente, un controbilanciamento contrattuale. Non si tratta, quindi, nè di un arricchimento per una parte,nè di un pregiudizio per l’altra, bensì di un elemento negozialmente governato mediante un contratto valido. E’ ovvio, d’altronde, che l’azione ex art. 2041 c.c. non può essere utilizzata per realizzare una sorta di recesso unilaterale da un accordo che effettui una parte ai danni di quella che nell’accordo è stata la sua controparte, così scardinando, anche solo parzialmente, il concordato sinallagma negoziale.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna – in solido per il comune interesse processuale – dei ricorrenti alla rifusione alla controricorrente delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Non sussistono, trattandosi di causa agraria, i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, e quindi per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 8200, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2018

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