Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32944 del 20/12/2018

Cassazione civile sez. III, 20/12/2018, (ud. 28/09/2018, dep. 20/12/2018), n.32944

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 667-2015 proposto da:

T.A., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE CAMERA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende per legge;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1637/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 18/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/09/2018 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che, con sentenza resa in data 18/11/2013, la Corte d’appello di Catanzaro, in accoglimento dell’appello proposto da T.A., e in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato il Ministero della Salute al risarcimento dei danni subiti dal T. a seguito del contagio del virus HCV contratto a seguito di una trasfusione di sangue infetto in ambito ospedaliero;

che, a sostegno della decisione assunta, la corte territoriale, escluso il decorso del termine di prescrizione del diritto azionato dal T. (in dissenso, sul punto, dalla decisione del giudice di primo grado), ha accertato il nesso di causalità tra le trasfusioni di sangue eseguiti sulla persona del T. e i danni alla salute dallo stesso contratti, detraendo, dalle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno, gli importi eventualmente percepiti dal T. a titolo di indennizzo, ai sensi della L. n. 210 del 1992;

che, avverso la sentenza d’appello, T.A. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione, illustrati dal deposito di successive memorie;

che il Ministero della Salute, non proponendo controricorso, ha presentato istanza di partecipazione alla discussione della causa;

che, all’adunanza in camera di consiglio del 18/10/2017, sul presupposto dell’avvenuta rimessione alle Sezioni Unite della Corte di cassazione della risoluzione di questioni connesse con l’oggetto dell’odierno giudizio, questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. n. 28442 del 18/10-28/11/2017, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo;

che, a seguito delle decisioni delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U -, Sentenze nn. 12564, 12565, 12566 e 12567 del 13/2-22/5/2018), il ricorso è stato nuovamente condotto in decisione all’odierna camera di consiglio;

considerato che, con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione della L. n. 210 del 1992, artt. 1 e 2 e dell’art. 2043 c.c., nonchè per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulla cumulabilità del risarcimento del danno con l’indennizzo ex L. n. 210 del 1992, avendo la corte territoriale erroneamente detratto, dalle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno, l’importo riconosciuto in favore del T. a titolo di indennizzo, disconoscendo il diritto dello stesso ricorrente al cumulo dei due importi;

che il motivo è fondato;

che, al riguardo, varrà preliminarmente rilevare come la corte territoriale, nel disporre la detrazione, dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, dell’indennizzo già riconosciuto in favore del T. ai sensi della L. n. 210 del 1992, si è correttamente allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, ha natura diversa rispetto all’attribuzione indennitaria regolata dalla L. n. 210 del 1992; tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della Salute per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Sez. U, Sentenza n. 584 del 11/01/2008, Rv. 600919 01; Sez. 3, Sentenza n. 6573 del 14/03/2013, Rv. 625543 – 01);

che tale principio deve ritenersi confermato pure all’esito delle richiamate decisione emesse dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U -, Sentenze nn. 12564, 12565, 12566 e 12567 del 13/222/5/2018), le quali hanno confermato come, pur restando “fuori dal quesito rivolto alle Sezioni Unite le ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria”, in tali “ipotesi vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa”;

che, infatti, la compensatio deve ritenersi operante “in tutti i casi in cui sussiste una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni”;

che a tale conclusione – già in precedenza affermata, proprio nella materia de qua, da questa Corte, anche a Sezioni Unite (cfr. le richiamate decisioni di Cass., Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass., Sez. 3, 14 marzo 2013, n. 6573) – è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato (nell’espressione nomofilattica dell’Adunanza Plenaria) con la sentenza n. 1 del 2018, in cui si è enunciato il principio di diritto secondo cui “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”;

che, tuttavia, ferma l’astratta applicabilità della compensatio nel caso di specie, varrà rilevare come questa Corte abbia altresì affermato il concorrente principio (che il Collegio condivide e fa proprio al fine di assicurarne continuità) in forza del quale l’ammissione della compensazione dell’indennizzo eventualmente già corrisposto impone l’allegazione e la prova, di cui è normalmente onerato chi adduce un fatto (parzialmente) estintivo (in materia di compensatio lucri cum damno, v. Cass. 9 maggio 1966, n. 1189; Cass. 8 gennaio 2003, n. 77; Cass., ord. 6 giugno 2012, n. 9132), dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo stesso, oltre che della sua esatta entità;

che, in particolare, deve ritenersi inammissibile la rimessione alla fase di esecuzione dell’attività di determinazione del ridetto indennizzo, così come il richiamo a formule di eventualità, avendo la parte attrice diritto a un titolo esecutivo riferito a un credito certo e liquido, e spettando al giudice di pronunciare una condanna che tenga conto di tutti gli elementi allo stesso offerti dalle parti (o che le stesse avrebbero avuto l’onere di offrirgli), senza possibilità di sopperire alle eventuali lacune attraverso una c.d. eterointegrazione del titolo stesso in un momento successivo;

che, infatti, mentre appare possibile colmare lacune nella formulazione del titolo derivanti dalla mancata riproduzione in esso delle soluzioni alle questioni già legittimamente affrontate nel corso del giudizio (v. il principio di cui a Cass. Sez. Un. 2 luglio 2012, n. 11066), deve escludersi la possibilità di introdurre successivamente, nel titolo, l’allegazione e la prova di fatti non allegati e tanto meno provati dalla parte onerata, in violazione delle barriere preclusive processuali consacrate nel giudicato;

che, d’altra parte, l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un limite minimo e massimo a seconda della patologia riconosciuta non equivale all’effettiva sua corresponsione e non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare del credito per indennizzo, con la conseguenza che il carattere predeterminato della tabella di quest’ultimo non consente di individuare, in mancanza di dati specifici di cui è onerato colui che eccepisce il lucrum, il preciso importo della somma da portare in decurtazione del risarcimento;

che, pertanto, essendo onere del Ministero – che opponeva la (pure pienamente ammissibile) compensatio – fornire la prova dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo e della sua entità, spettava al giudice a quo, prima di procedere all’invocata decurtazione del risarcimento, di verificare l’avvenuta dimostrazione dell’effettiva corresponsione di detto indennizzo e della relativa entità;

che tanto non risultando dalla motivazione della sentenza impugnata, dev’essere disposta la cassazione di detta sentenza in relazione al punto indicato;

che, con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione in relazione all’entità della liquidazione del danno, essendosi la corte territoriale erroneamente allineata alle considerazioni esposte nella consulenza tecnica d’ufficio eseguita nel corso del giudizio, senza tener conto della rivendicazione delle diverse voci di danno analiticamente indicati in ricorso;

che il motivo è fondato;

che, al riguardo, varrà in questa sede ribadire come, in tema di risarcimento dei danni, sul piano del diritto positivo l’ordinamento riconosca e disciplini le (sole) fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.);

che, secondo l’insegnamento consolidatosi nella giurisprudenza costituzionale e in quella delle sezioni unite di questa Corte (Corte Cost. sentenza n. 233 del 30/6-11/7/2003; Cass., Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), il danno non patrimoniale chiede d’essere necessariamente considerato e interpretato in termini unitari e onnicomprensivi, dovendo, da un lato, procedersi all’organica considerazione di qualsiasi lesione di interessi o valori della persona (di per sè insuscettibili di valutazione economica) cui sia riconosciuta positiva rilevanza sul piano costituzionale e, dall’altro, al necessario apprezzamento, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (peggiorative della preesistente condizione del danneggiato) che siano derivate dall’evento di danno;

che, nella conduzione di tale apprezzamento complessivo, il giudice è chiamato a tener conto di tutte le circostanze che siano valse a incidere sulle prerogative della persona non economicamente valutabili, evitando duplicazioni risarcitorie (attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici) e procedendo, attraverso un’istruttoria compiuta ed esaustiva, a un accertamento concreto (e non astrattamente generalizzato) della situazione sottoposta al proprio esame, valorizzando tutti i mezzi di prova a tal fine disponibili, ivi comprese le attitudini rappresentative del fatto notorio, delle massime di esperienza, o delle presunzioni che siano utilmente ricavabili dai frammenti della concreta esperienza esistenziale condotta in giudizio;

che, alla luce del più recente insegnamento della Corte costituzionale (Corte Cost. sentenza n. 235 del 6/10/2014, punto 10.1 e ss.) e dell’ancor più prossimo intervento del legislatore (artt. 138 e 139 del c.d. codice delle assicurazioni private, come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 2 agosto 2017), il giudice del merito, nel procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, è chiamato a estendere la propria valutazione (nei termini della doverosa scansione analitica di un medesimo quadro unitariamente considerato) alla concreta e reale fenomenologia della lesione non patrimoniale condotta al suo esame, e ciò, tanto sotto l’aspetto interiore del danno sofferto (il c.d. danno morale), quanto nella prospettiva del pregiudizio inferto alla dimensione dinamico-relazionale della vita della persona (danno alla vita di relazione, o danno esistenziale);

che, nell’apprezzamento del danno alla salute (non diversamente da quello condotto in relazione a tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto), il giudice, al di là della terminologia definitoria da tempo adottata dal legislatore (danno c.d. biologico), dovrà procedere alla valutazione, tanto delle conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (destinate a collocarsi nella dimensione “riflessiva” del rapporto del singolo con se stesso), quanto di quelle che incidono sulla dimensione dinamico-relazionale della sua vita (ossia della vita che si esplica nel vivo dei rapporti che la persona istituisce con la realtà esterna, o con tutto ciò che, in altri termini, costituisce altro da sè);

che, conseguentemente, deve ritenersi erronea (siccome espressione di un’indebita duplicazione risarcitoria) la congiunta attribuzione, in favore del danneggiato, del danno biologico (inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come il danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico-relazionali) e del danno c.d. esistenziale, atteso che entrambi tali ‘categoriè di danno appartengono alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.), là dove una differente e autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore riflessivamente patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute;

che, fuori dal territorio delle lesioni alla salute, ogni altro vulnus arrecato a valori o interessi di rilievo costituzionale andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di una compiuta istruttoria, sotto il medesimo, duplice aspetto, della sofferenza morale e della modificazione peggiorativa delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato;

che, in ciascuno di tali casi, andrà evitato qualsiasi automatismo, non potendo escludersi (al di là della pratica infrequenza) il ricorso di ipotesi in cui l’accertamento giudiziale si arresti al rilievo della sola sofferenza morale o del solo piano della modificazione peggiorativa degli aspetti dinamico-relazionali della vita;

che una simile liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro destinata a tener conto del pregiudizio complessivamente subito, tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto il profilo della modificazione peggiorativa della vita di relazione, in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche;

che, in particolare, la valutazione del giudice dovrà rifuggire dall’automatica traduzione, in termini monetari, di standard lesivi rilevati secondo formulazioni generali e astratte, senza aver preliminarmente provveduto – dandone puntuale riscontro in motivazione all’opportuna approssimazione dell’indagine alla singolarità del caso in concreto, sotto ciascuno dei profili (sofferenza morale indotta; modificazione peggiorativa delle attività dinamico-relazionali) in precedenza indicati;

che, in breve, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (cfr. Sez. 3 -, Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125 – 02; Sez. 3 -, Sentenza n. 11754 del 15/05/2018, Rv. 648794 – 01);

che, nel caso di specie, la sentenza impugnata risulta palesemente incorsa nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 sul piano della compiuta articolazione del discorso motivazionale;

che, in particolare, avendo il giudice a quo omesso di procedere a una specifica e analitica valutazione (in ipotesi anche negativa) di tutti i profili di danno partitamente considerabili in chiave non patrimoniale (nella duplice prospettiva della sofferenza interiore e della proiezione dinamico-relazionale) eventualmente subiti dal T. per effetto dell’illecito dedotto in giudizio, la sentenza impugnata dev’essere cassata sul punto, spettando al giudice del rinvio il compito di provvedere alla rinnovazione dell’esame di ciascuno degli aspetti indicati, attraverso la valutazione di tutte le prospettive della fattispecie concreta e di ciascuna delle proiezioni dannose dell’illecito dell’amministrazione sanitaria convenuta sulla sfera morale del T., o di quelle incidenti sul terreno dinamico-relazionale della sua vita, in misure e forme eventualmente non coincidenti (tanto per l’uno, quanto per l’altro profilo) con le ordinarie formulazioni standardizzate dei meccanismi tabellari in uso;

che, con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per erronea e contraddittoria motivazione sul punto concernente la liquidazione delle spese del giudizio, avendo la corte territoriale erroneamente ripetuto per due volte la dicitura “primo grado di giudizio”, dovendo invece, per una delle due liquidazioni operate, specificare l’imputazione al “secondo grado di giudizio”;

che la censura deve ritenersi assorbita dall’accoglimento dei primi due motivi;

che, sulla base delle considerazioni esposte, rilevata la fondatezza dei primi due motivi d’impugnazione, assorbito il terzo, dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i primi due motivi; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2018

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