Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32942 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. I, 13/12/2019, (ud. 12/11/2019, dep. 13/12/2019), n.32942

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34850/2018 proposto da:

I.S., elettivamente domiciliato in Roma Via Torino 7 presso

lo studio dell’avvocato Barberio Laura che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Vitale Gianluca

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 758/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 23/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2019 dal Cons. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 23 aprile 2018, ha rigettato l’appello avverso il decreto con cui il Tribunale di Torino aveva rigettato la domanda proposta da I.S., cittadino del Bangladesh, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente della protezione sussidiaria non esistendo, nè essendo stato palesato alcun rischio o timore di subire minacce o grave danno come definiti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. In particolare, costui, di professione commerciante, aveva riferito di aver versato, di tanto in tanto, delle somme di denaro richieste estorsivamente da un gruppo di ragazzi che si recava presso il suo negozio, e di fronte ad un suo successivo rifiuto di consegna di una grossa somma, questi ragazzi lo avevano picchiato con bastoni, distruggendogli il negozio. Successivamente, essendo rimasto disoccupato, la propria madre gli aveva consigliato di andare a lavorare all’estero, procurandogli i soldi per il viaggio.

Il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari per carenza di una condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione I.S. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), artt. 5 e 14 e 15 direttiva 2011/95/UE. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e 4.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello, nel negare la protezione sussidiaria, ha evidenziato che il richiedente neppure aveva fatto ricorso alla protezione interna non considerando, tuttavia, la copiosa documentazione allegata al ricorso e reiterata con l’atto di citazione in appello attestante la concreta impossibilità di accesso da parte dei cittadini alla protezione della autorità bengalesi. Ne consegue che la Corte d’Appello era venuta meno al dovere di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione del paese e sulla concreta possibilità per il sig. I. di avvalersi della protezione alle autorità locali.

2. Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi.

Va osservato che da un attento esame della sentenza impugnata emerge che la Corte d’Appello, nel negare la protezione sussidiaria sul rilievo che non era stato palesato dal richiedente alcun rischio o timore di subire minacce o altro “grave danno”, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in caso di rientro in patria, aveva con evidenza valorizzato quella parte del racconto dello stesso richiedente in cui costui aveva dichiarato che dopo la distruzione del suo negozio, essendo rimasto disoccupato, aveva deciso di lasciare il proprio paese d’origine, su suggerimento della madre, per andare a cercare un lavoro all’estero.

Dunque, dalle stesse dichiarazioni del richiedente riportate nella sentenza impugnata – e non smentite nel ricorso – la sua decisione di abbandonare il proprio paese era maturata in conseguenza del suo stato di disoccupazione, e non per sfuggire a minacce che neppure il ricorrente ha riferito di aver continuato a subire dopo la distruzione del suo negozio. Non a caso, il ricorrente, interrogato dall’esaminatore in ordine ai suoi timori per il rientro nel paese, non ha dichiarato di non voler far ritorno in Bangladesh per il timore di subire un “grave danno” da coloro che gli avevano distrutto il negozio, essendosi limitato a dire:”Sono molto povero, voglio stare in Italia per lavorare e mantenere la mia famiglia”.

Dunque, l’espressione della Corte d’Appello “oltre al fatto che l’appellante non ha neppure fatto ricorso alla protezione interna” costituisce una considerazione ad abundantiam non legata in alcun modo, secondo l’impostazione dello stesso giudice di secondo grado, nè alle ragioni per cui aveva deciso di lasciare il Bangladesh, nè a quelle per cui non intendeva farvi ritorno.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19.

Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha omesso il giudizio comparativo tra le prospettive del ricorrente in Italia ed in Bangladesh.

4. Il motivo presenta profili di infondatezza ed inammissibilità.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6 (in questi termini Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente ha svolto, in primo luogo, allegazioni assai generiche in ordine alla grave e diffusa violazione dei diritti fondamentali nel paese d’origine, rimaste allo stadio della mera asserzione, senza che sia stata neppure riportata alcuna fonte internazionale. In ordine alle proprie condizioni personali, la censura con cui è stato dedotto il rischio, in caso di ritorno nel paese d’origine, di ulteriori vessazioni da parte del gruppo criminale responsabile delle estorsioni e della distruzione del negozio si configura come di merito, essendo finalizzata a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte di Appello, che, come già anticipato, aveva evidenziato che lo stesso ricorrente non aveva palesato rischi per la sua incolumità in caso rientro in patria.

Infine, comunque inconferente è il livello di integrazione eventualmente raggiunto dall’odierno ricorrente nel paese d’accoglienza – peraltro, neppure il ricorrente medesimo ha allegato di aver trovato un lavoro, ma solo di aver svolto attività di volontariato e partecipato a corsi di formazione – elemento che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 2 e la violazione dei criteri di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Contesta il ricorrente di aver posto un comportamento anche solo astrattamente riconducibile alle ipotesi di dolo e colpa grave.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che questa Corte ha più volte affermato che la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, adottata con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 della stesso D.P.R.. Si deve quindi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanto adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 del D.P.R. citato. (Cass. 29228/2017; conf. Cass. n. 30282018 e n. 32028/2018).

Ne consegue che il ricorrente avrebbe dovuto promuovere tempestivamente lo speciale procedimento di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170 e non attendere la proposizione del ricorso per cassazione.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite, non essendosi il Ministero intimato costituito in giudizio.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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