Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3294 del 03/02/2022
Cassazione civile sez. III, 03/02/2022, (ud. 09/11/2021, dep. 03/02/2022), n.3294
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24925-2018 proposto da:
G.R., rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONINO LO
PINTO, con domicilio in Roma presso la Cancelleria della Corte di
Cassazione;
– ricorrente –
contro
A.R., A.P., A.G., tutti rappresentati e
difesi dall’avvocato ANTONELLA FUNDARO’, elettivamente domiciliati
presso l’indirizzo antonellafund.legalmail.it;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1631/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,
depositata il 21/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del
09/11/2021 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.
Fatto
FATTI DI CAUSA
A.R., assumendo di aver ricevuto in eredità dallo zio G.P. un appartamento sito in (OMISSIS), esponeva di aver trovato sulla porta dello stesso i sigilli fatti apporre dalla nipote G.R., esclusa dalla successione testamentaria, e chiedeva, con citazione notificata il 7.11.2017, che il Tribunale di Palermo, previo accertamento dell’inesistenza della successione legittima a favore di soggetti diversi da quelli indicati nel testamento olografo, reso pubblico il 3 febbraio 2006, la dichiarasse unica erede dell’immobile per cui è causa, con la conseguente esclusione di alcun diritto di G.R. su quanto in esso contenuto, e che condannasse G.R. al risarcimento dei danni subiti per i provvedimenti di volontaria giurisdizione resisi necessari per la rimozione dei sigilli, per il pagamento degli oneri condominiali, nonché per il degrado dell’immobile rimasto privo di manutenzione, in aggiunta al lucro cessante per mancata locazione.
G.R., costituitasi in giudizio, deduceva di aver chiesto l’apposizione dei sigilli prima della pubblicazione del testamento, dopo avere appreso che l’appartamento era stato offerto in locazione, e chiedeva che si procedesse alla successione legittima sui beni mobili e sugli arredi contenuti nell’appartamento, nonché sull’autovettura e sul conto corrente intestati allo zio defunto, di cui lo stesso non aveva disposto con il testamento.
Il Tribunale di Palermo, integrato il contraddittorio nei confronti degli altri eredi, con sentenza n. 4514/2012, condannava G.R. al pagamento a favore dell’attrice della somma di Euro 64.590,79, al netto di rivalutazione ed interessi, oltre alle spese di lite.
In particolare, il Tribunale riteneva che l’attrice avesse subito un danno ingiusto a causa principalmente del comportamento della convenuta, la quale, pur avendo esercitato un suo diritto, chiedendo l’apposizione dei sigilli, una volta ottenuto il provvedimento richiesto non aveva contenuto, come, invece, era suo onere fare, soprattutto a seguito della pubblicazione del testamento del de cuius, il vulnus ai diritti dell’attrice entro limiti quanto più possibile ragionevoli, procedendo tempestivamente alle operazioni di inventario, propedeutiche alla rimozione dei sigilli.
G.R. impugnava la suddetta decisione, innanzi alla Corte d’Appello di Palermo, lamentando che il giudice di prime cure non avesse considerato: i) che A.R. aveva proposto reclamo, insieme con i germani G. e A.P., avverso il provvedimento del Tribunale di Palermo che aveva autorizzato la prosecuzione dell’inventario, previa rimozione dei sigilli, e che piuttosto che procedere con le operazioni di inventario aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni; ii) che la richiesta di apposizione dei sigilli era legittima; iii) che non vi era mai stata da parte sua opposizione alla redazione dell’inventario, avendo solo preteso che le relative spese fossero poste a carico della massa ereditaria; iii) che in mancanza di una norma prescrittiva della condotta omessa, la statuizione di condanna risarcitoria era viziata; iv) che la stessa A.R., 17 giorni dopo l’apposizione dei sigilli, aveva avviato il procedimento per la redazione dell’inventario.
Deduceva, inoltre, che il Tribunale avrebbe almeno dovuto applicare l’art. 1227 c.c., in considerazione dell’avvenuta violazione, da parte di A.R., dell’art. 1175 c.c., che impone un obbligo di cooperazione tra le parti. Imputava al giudice di prime cure di avere acceduto alla richiesta risarcitoria del danno da inutilizzazione dell’immobile, senza che la ricorrenza del medesimo, posta l’irrisarcibilità del danno in re ipsa, fosse provata dall’appellata.
Con la sentenza n. 1631/2017, la Corte d’Appello rigettava il gravame e confermava la decisione di prime cure. In particolare, veniva ritenuta ricorrente la responsabilità ex art. 2043 c.c. dell’appellante, perché, pur avendo legittimamente chiesto l’apposizione dei sigilli, nella veste di coerede legittima dei beni mobili appartenenti al de cuius, la medesima non si era attivata per consentire che l’immobile tornasse nella disponibilità dell’erede testamentaria; aggiungeva che l’illecito aquiliano è atipico, che non è necessario che il comportamento antigiuridico sia imputabile all’agente a titolo di colpa specifica o generica, che il danno risentito dall’appellata andava calcolato tenuto conto del reddito locativo che avrebbe potuto essere percepito così come calcolato dal CTU e riconosciuto a far data dal 2007, che costituiva voce di danno risarcibile il pagamento delle spese condominiali che A.R. non avrebbe sopportato ove avesse locato l’immobile.
Avverso la suddetta decisione G.R. propone ricorso per cassazione, formulando quattro motivi.
Resistono con controricorso R., P. e A.G..
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..
Il P.M. non ha presentato conclusioni scritte.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché, secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità civile (in particolare, secondo Cass. n. 9067/2018), l’omissione di un certo comportamento rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, quando si tratti di condotta imposta da una norma giuridica specifica, sicché il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo di tenere la condotta omessa in capo al soggetto che si assume danneggiante. La Corte territoriale, discostandosi dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe, invece, confermato la condanna risarcitoria, omettendo di individuare l’obbligo giuridico a suo carico. Non esiste, infatti – ribadisce la ricorrente – alcuna norma che preveda un termine entro il quale chi ha legittimamente chiesto l’apposizione dei sigilli debba attivarsi per le operazioni di inventario, né vi è alcuna norma che imponga al soggetto che ha avanzato istanza per l’apposizione di sigilli la legittimazione esclusiva a chiedere la redazione dell’inventario.
Il motivo merita accoglimento.
La sentenza impugnata, dopo aver lasciato intendere che non fosse sufficiente, onde escludere la ricorrenza di una condotta non iure da parte della ricorrente, che la medesima avesse agito nell’esercizio del diritto di chiedere l’apposizione dei sigilli (a p. 6 della sentenza si legge “nonostante la legittimità dell’apposizione dei sigilli” e ancora “E’ pacifico che nonostante la legittimità della richiesta di apposizione dei sigilli ex art. 373 c.p.c…. l’immobile è ritornato nella materiale disponibilità della proprietaria solo il 20.12.2010”; a p. 7 ribadisce “e’ innegabile che l’ A., a seguito della indisponibilità del proprio immobile per oltre quattro anni abbia subito un danno la cui responsabilità non può che addebitarsi all’odierna appellante, nonostante la dichiarata legittimità della superiore richiesta”) e, dunque, avere adombrato l’idea che la responsabilità di G.R. fosse da ricondurre ad un abuso del diritto, muta direzione quando, a p. 8, sostiene: “l’illecito è atipico per cui ogni violazione del principio del nemi-nem laedere è in grado di provocare un danno ingiusto, corrisponde ad una lesione di un diritto o di un interesse protetto dall’ordinamento. Nel caso de quo, la G…. non si è attivata per l’espletamento delle operazioni di inventario al fine di individuare i beni mobili reclamati… il non avervi provveduto, nonostante l’onere a suo carico, costituisce condotta omissiva riconducibile al danno causato alla A., che la G. aveva l’obbligo di impedire”.
In sostanza, anziché giudicare dell’eventuale ingiustizia della condotta tenuta dalla odierna ricorrente che pure aveva formalmente rispettato i limiti formali del suo diritto, al fine di verificare se nella sostanza si fosse realizzato un abuso del diritto di apposizione dei sigilli, per avere compresso e sacrificato l’interesse di A.R. – di valore superiore rispetto a quello soddisfatto attraverso l’esercizio del diritto – o per aver attuato il proprio diritto con modalità irrispettose della sfera di interessi dell’interferita, la Corte territoriale, deviando da quello che sembrava l’iniziale percorso argomentativo, ha ritenuto la ricorrente responsabile a titolo aquiliano per non avere tenuto la condotta che era suo obbligo tenere. In altri termini ha ipotizzato la ricorrenza di un illecito omissivo. Relativamente alla ricorrenza di detto illecito, si fronteggiano il campo, in giurisprudenza, due orientamenti contrapposti con cui la sentenza impugnata, in verità, nemmeno si confronta: il primo, invocato dalla ricorrente, che ravvisa una responsabilità aquiliana ogniqualvolta sia rimasto inattuato un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso esplicitamente previsto da una norma (illecito omissivo tipico); il secondo, il quale si esprime nel senso dell’atipicità della responsabilità civile omissiva, considera dovuto un comportamento attuoso per impedire l’evento dannoso, tenuto conto della relazione anche di fatto con la sfera giuridica dell’interferito o dei principi dell’ordinamento giuridico o del verificarsi di una specifica situazione che esiga il compimento di una determinata attività a tutela del diritto altrui.
La Corte territoriale, invocando il principio di atipicità dell’illecito e sottolineando l’irrilevanza del mero riferimento al principio del neminem laedere, sembrerebbe aver prestato adesione al secondo dei due orientamenti decritti; tale conclusione si scontra, però, con la successiva precisazione della sentenza impugnata: “e’ ininfluente che il comportamento omissivo sia stato doloso o colposo, e quindi generatore di colpa specifica o generica: ai fini della configurabilità di una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., infatti, vengono considerate anche fattispecie che esulano dal requisito della colpevolezza, basandosi esclusivamente sulla c.d. “responsabilità oggettiva” caratterizzata dal fatto che le conseguenze dannose di un determinato evento lesivo vengono poste a carico di un determinato soggetto esclusivamente sulla base del nesso eziologico con la condotta dell’agente, prescindendo da qualsiasi indagine in ordine al profilo della colpevolezza”.
Sicché la Corte territoriale, dopo avere ipotizzato un comportamento colposo per omissione a carico della odierna ricorrente, ha irragionevolmente, ma anche contraddittoriamente, ritenuto di natura oggettiva la responsabilità attribuita a G.R.. E – si badi bene – che non può dirsi che lo abbia fatto per prestare adesione alla tesi della oggettivazione della colpa, la quale, senza tener conto né delle condizioni soggettive dell’agente né della concreta natura del fatto dannoso, finisce per avvicinare la responsabilità per colpa ad una responsabilità oggettiva camuffata, atteso il suo riferimento ad un criterio di valutazione astratto, peraltro, senza tener conto che la responsabilità per colpa per quanto oggettivata attiene pur sempre ad un contegno giudicato censurabile dall’ordinamento, mentre la responsabilità oggettiva postula soltanto la sussistenza di una situazione di fatto corrispondente al particolare criterio di imputazione diverso dalla colpa. La Corte d’Appello inequivocabilmente ha ritenuto che a carico di G.R. vi fosse l’obbligo giuridico di impedire il danno, ed in particolare di espletare l’inventario quanto prima “al fine di individuare i beni mobili reclamati quale coerede legittima, e liberare prima possibile l’immobile sigillato per la riconsegna alla legittima proprietaria… Il non avervi provveduto, nonostante l’onere a suo carico, costituisce condotta omissiva riconducibile al danno causato alla A., che la G. aveva l’obbligo di impedire”. Tale affermazione, però, nell’economia argomentativa della sentenza, ha avuto lo scopo di escludere, pur dopo avere individuato a carico alla stessa un obbligo di attivarsi per evitare il verificarsi del danno, che potesse muoversi alcuna censura nei confronti di G.R. in termini di riprovevolezza della condotta.
Va aggiunto che la Corte territoriale ha evocato l’art. 2043 c.c., nonostante abbia ritenuto oggettiva la responsabilità di G.R.. Anche tale conclusione non può che ritenersi errata, perché poggia su una premessa che va respinta e cioè che dall’art. 2043 c.c. possa espungersi il riferimento al criterio soggettivo di imputazione della responsabilità, sostituendolo con un criterio – oggettivo – di collegamento volta per volta diverso che, peraltro, nel caso di specie neppure è stato individuato: la sentenza d’appello ha puramente e semplicemente amputato la fattispecie risarcitoria di una parte dei suoi elementi costitutivi, ritenendola integrata solo dalla ricorrenza del nesso di causa materiale – che ha incomprensibilmente rilevato dalla consapevolezza da parte della odierna ricorrente dell’appartenenza del cespite a cui aveva chiesto di apporre i sigilli a A.R. e del danno da essa causato dalla mancata disponibilità, “elementi questi emersi per sua stessa ammissione nella comparsa di costituzione del 10.3.2008 di essere venuta a conoscenza che l’appartamento di (OMISSIS) era stato posto in locazione” (p. 10) – e giuridica. Errato è altresì non aver tenuto conto che le fattispecie normative di responsabilità in cui la colpa non è il criterio di imputazione della responsabilità, ove non si profilino come tipiche (ad esempio responsabilità ambientale), rispondono comunque al requisito della specificità, giacché ciascuna di esse ha una sua disciplina che contiene la specificazione del criterio di imputazione del danno, la delimitazione dell’ambito di applicabilità, le eventuali cause di esonero dalla responsabilità.
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., dell’art. 40 c.p.c., comma 2 e dei principi in tema di elemento oggettivo di nesso di causalità nell’illecito civile, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Posto che la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che, affinché rilevi il nesso di causa tra condotta ed evento lesivo, deve ricorrere, secondo i principi della condicio sine qua non e della causalità efficiente, la duplice condizione che sì tratti di una condotta antecedente necessaria dell’evento e che la stessa non sia poi neutralizzata dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso, la condotta omissiva attribuitale, secondo la tesi prospettata, non poteva rappresentare antecedente necessario dell’evento di danno, individuato nella mancata disponibilità dell’appartamento da parte di A.R., giacché quest’ultima, dopo 17 giorni dall’apposizione dei sigilli, aveva dato avvio alle operazioni di redazione dell’inventario, salvo poi non coltivarlo fino al 17 dicembre 2009. La tesi della ricorrente è che la tempestiva azione avviata da A.R. avrebbe fatto venir meno la necessità di procedere all’avvio di un procedimento analogo.
Il motivo non può essere esaminato nel merito, perché la ricorrente ha solo parzialmente descritto le vicende processuali svoltesi in sede di volontaria giurisdizione che hanno preceduto la controversia in esame: tra l’altro, non è chiaro in che termini la redazione dell’inventario fosse stata autorizzata dal Tribunale di Palermo con provvedimento dell’11 dicembre 2006; si ignorano le ragioni per cui era stato rigettato il reclamo proposto da A.R. nei confronti del provvedimento dell’11 dicembre 2006 con cui il Tribunale di Palermo aveva autorizzato la ripresa delle operazioni di inventario – sospese, si dice nel ricorso, per il concomitante avvio di altre iniziative giudiziarie da parte di altri eredi – se si eccettua il riferimento al fatto che i reclamanti non avessero coltivato la istanza di rimozione dei sigilli (p. 9 del ricorso). Ben poco si conosce delle iniziative e delle ragioni di resistenza della odierna ricorrente: a p. 6 del ricorso si legge che, con istanza del 23 maggio 2006, aveva chiesto la riforma del provvedimento del 3 aprile 2006, con cui il Tribunale di Palermo l’aveva messa in mora in ordine alla redazione dell’inventario mediante la nomina di un notaio, ponendo le spese a suo carico, “solo nella parte in cui poneva a suo carico le spese di inventario”. Non è chiaro chi abbia provveduto alla redazione dell’inventario, giacché a p. 7 del ricorso si legge che il CTU, che il Tribunale aveva nominato per stimare il lucro cessante su richiesta di A.R., aveva ritardato per più di un anno il deposito della relazione, in ragione del fatto che le chiavi dell’immobile non erano disponibili, essendo in corso le operazioni di inventario; si ignora se sul ritardo nella redazione dell’inventario abbiano influito altre iniziative giudiziarie, ad esempio quella di G.F., di cui si parla a p. 4 del ricorso. Dalla sentenza impugnata si apprende che le operazioni di inventario erano state autorizzate con ordinanza del 21 ottobre 2009 e che erano iniziate il 17 dicembre 2009 e completate in data 11 maggio 2010. Le ragioni di tale ritardo non sono chiare: a p. 9 della sentenza di appello si dà conto di una incolpevole sospensione delle operazioni di inventario per circa dieci mesi.
Il motivo, dunque, è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto le censure non sono formulate “in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura del ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento sulla base delle deduzioni contenute nel medesimo, non essendo invero sufficienti affermazioni – come nel caso – apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione. E’ al riguardo appena il caso di ribadire che i “requisiti di formazione del ricorso rilevano ai fini della relativa giuridica esistenza e conseguente ammissibilità, assumendo pregiudiziale e prodromica rilevanza ai fini del vaglio della relativa fondatezza nel merito, che in loro difetto rimane invero al giudice imprescindibilmente precluso” (in termini: Cass., Sez. Un., 23/12/2019, n. 34469).
3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Alla Corte territoriale è rimproverato di aver omesso di pronunciarsi sul capo della domanda di appello con cui era stato lamentato che se A.R. si fosse adoperata, completando l’iter per la rimozione dei sigilli, avrebbe evitato il danno. L’appellata aveva invece avviato il procedimento per la redazione dell’inventario, ma poi lo aveva abbandonato, ponendo in essere un comportamento in contrasto con l’art. 1175 c.c. La ricorrente sostiene che la richiesta di applicazione dell’art. 1227 c.c. costituisce un’eccezione in senso proprio, la quale imponeva al giudice di merito di svolgere l’indagine in ordine all’omesso uso della diligenza da parte di A.R..
Nemmeno tale motivo può essere scrutinato nel merito.
Nuovamente la ricorrente incorre, infatti, nel vizio di difetto di autosufficienza, perché se è vero che l’art. 1227 c.c., comma 1 consente al giudice un’indagine anche officiosa sull’apporto causale del comportamento del danneggiato al verificarsi del danno, ciò richiede, però, la prospettazione degli elementi di fatto dai quali possa desumersi la ricorrenza della circostanza: prospettazione che, nel caso di specie, manca (cfr. ex plurimis Cass. 10/05/2018, n. 11258).
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223,2043,2056 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Oggetto di censura è la statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto ricorrente il danno derivante dall’omessa locazione del bene, nonostante l’assenza di qualsiasi prova da parte di A.R. di avere subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non avere potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per avere perduto l’occasione di venderlo ad un prezzo conveniente o per avere subito altre situazioni pregiudizievoli.
Il motivo è assorbito, in considerazione del mancato accoglimento dei motivi precedenti.
4. Va, dunque, accolto il primo motivo di ricorso, il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili, il quarto è assorbito.
5. La sentenza va dunque cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il secondo ed il terzo, assorbito il quarto.
Cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, che provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione Terza civile della Corte di Cassazione, il 9 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2022