Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3291 del 03/02/2022

Cassazione civile sez. III, 03/02/2022, (ud. 04/11/2021, dep. 03/02/2022), n.3291

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso N. 18263/2019 R.G. proposto da:

A.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Federico

Cesi n. 72, presso lo studio dell’avvocato Marzia Rositani,

rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Serena Metta, e Lucio

Giulio Monteleone, come da procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.P., e P.M.T., elettivamente

domiciliati in Roma, Via Ridolfino Venuti n. 42, presso lo studio

dell’avvocato Alessandra Di Sarno, rappresentati e difesi

dall’avvocato Raffaele Rutigliano, come da procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2027/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 6.12.2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

4.11.2021 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija;

viste le conclusioni scritte rassegnate dal Sostituto Procuratore

Generale Dott. Nardecchia Giovanni Battista.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.F., con atto di citazione del 19.5.2014, si oppose a due distinti atti di precetto a lui notificati su istanza dei coniugi G.P. e P.M.T., in data 6.5.2014, per l’importo, rispettivamente, di Euro 1.697,02 (quali spese di lite della fase di reclamo nella causa possessoria pendente tra le parti dinanzi al Tribunale di Foggia, sez. st. di Lucera, liquidate con ordinanza collegiale ex art. 669-terdecies c.p.c. del 11.12.2013), nonché di Euro 3.569,50 (quale somma residua delle spese di lite, comprese quelle di C.T.U., liquidate dal Tribunale di Foggia, sez. st. di Lucera, con la sentenza di merito, emessa in data 15.1.2014), e quindi per complessivi Euro 5.410,20. L’adito Tribunale di Foggia, con sentenza del 18.1.2016, rigettò l’opposizione, condannando l’opponente alla rifusione delle spese di lite, nonché al risarcimento del danno per lite temeraria, ex art. 96 c.p.c., comma 3. Detta decisione venne integralmente confermata dalla Corte d’appello di Bari con sentenza del 6.12.2018 con cui, rigettandosi il gravame dell’ A., si osservò che – posta la natura autonoma, quale titolo esecutivo, dell’ordinanza collegiale ex art. 669-terdecies c.p.c., che provveda sulle spese, rispetto alla sentenza che definisca il merito – non poteva in concreto riscontrarsi alcuna duplicazione tra le due decisioni riguardo all’entità delle spese, anche perché nulla risultava, in tal senso, dalla lettura della sentenza di merito; si rilevò, inoltre, l’inammissibilità delle ulteriori doglianze sollevate dall’ A., trattandosi di contestazioni sul merito, da proporsi nel giudizio in cui i titoli esecutivi si erano formati; infine, si ritenne infondato il motivo concernente la contestata temerarietà della lite, stante la genericità delle doglianze.

Ricorre ora per cassazione A.F., affidandosi a sette motivi, illustrati da memoria, cui resistono con unico controricorso G.P. e P.M.T.. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, sotto il titolo “omessa ed erronea valutazione sulla validità della liquidazione delle spese per la fase interprocedurale”, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,132,669-bis-669-quaterdecies, 703-705, 737-742-bis, c.p.c., dell’art. 118disp. att. c.p.c., dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Rileva il ricorrente che l’ordinanza collegiale del 13.11.2013, posta a base del primo precetto, ha natura “interprocedurale”, sicché le spese della relativa fase sono destinate a confluire, quanto alla statuizione, nella sentenza che definisce il merito, così come, in concreto, il Tribunale foggiano aveva disposto quanto alle spese di CTU, anch’esse maturate nella fase interinale. Con gli argomenti spesi al riguardo, la Corte d’appello, secondo il ricorrente, incorre sostanzialmente in omessa motivazione o in una non-motivazione, da un lato ignorando le norme prima richiamate nel corpo del motivo (in particolare, dell’art. 704 c.p.c., comma 1, art. 669-septies c.p.c., comma 2, nonché quelle del procedimento cautelare uniforme, ex artt. 669-bis-669-quaterdecies c.p.c.), e dall’altro capovolgendo la logica della loro esatta interpretazione.

1.2 – Con il secondo motivo, sotto il titolo “omessa valutazione sulla ripetizione delle spese c.t.u. senza documentare il pagamento”, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115,132, c.p.c., dell’art. 118disp. att. c.p.c., dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Il ricorrente si duole del mancato rilievo, da parte della Corte d’appello, del fatto che la prova del pagamento delle spese di CTU, da parte degli intimanti, era stata fornita solo in epoca successiva alla proposizione del precetto, sicché esse non potevano essere richieste con quest’ultimo, anche perché nulla aveva disposto al riguardo la sentenza impugnata. Lamenta che, in proposito, la Corte d’appello non ha adottato una motivazione congruente, avendo erroneamente ritenuto che la censura afferisse ad una contestazione riguardo al contenuto del titolo esecutivo azionato.

1.3 – Con il terzo motivo, sotto il titolo “diritto a procedere ad esecuzione forzata – esistenza o meno di due titoli – legittimità o meno di due precetti”, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 113,132,474,475,480,615,669-duodecies e 669-terdecies c.p.c., degli artt. 118 e 153disp. att. c.p.c., dell’art. 2Cost. e art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Osserva il ricorrente che, contrariamente all’assunto del Tribunale, sostanzialmente confermato dal giudice d’appello, non è consentito al giudice del reclamo cautelare di provvedere sulle spese della fase, dovendo su di esse provvedersi nel giudizio di merito; né può dirsi conforme al diritto l’affermazione del Tribunale, anch’essa sostanzialmente confermata dalla Corte d’appello, secondo cui il creditore è libero di intimare quanti precetti reputi necessari fino ad integrale soddisfazione, giacché tale condotta integra abuso del processo. Il giudice d’appello, dunque, laddove ha ritenuto che ciascun precetto fosse fondato su autonomo titolo esecutivo, ha reso una non-motivazione, esistendo nella specie un solo titolo esecutivo, ossia la sentenza di primo grado resa nel procedimento possessorio in data 15.1.2014.

1.4 – Con il quarto motivo, sotto il titolo “applicazione tariffe o parametri”, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 113,115,132,163,164,183, c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c., del D.L. n. 1 del 2012, art. 9 conv. in L. n. 27 del 2012, dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente si duole della motivazione adottata dal Tribunale, non rettificata dal giudice d’appello, per giustificare il rigetto del motivo di opposizione concernente l’erroneità delle pretese per compensi, come elencate nei precetti, e ciò a cagione della genericità e aspecificità delle doglianze, dovendo in realtà il G.I. rilevare la nullità della citazione e invitare l’opponente alla rinnovazione della stessa o alla sua integrazione. Secondo l’ A., La Corte d’appello, sul punto, non avrebbe espresso alcuna motivazione.

1.5 – Con il quinto motivo, sotto il titolo “rimborso forfettario”, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 113,115,132,163,164,183, c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c., del D.L. n. 1 del 2012, art. 9, conv. in L. n. 27 del 2012, dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Le medesime doglianze teste’ elencate vengono riproposte anche in relazione al rimborso forfetario dovuto per legge.

1.6 – Con il sesto motivo, sotto il titolo “condanna alle spese e responsabilità aggravata”, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 91,92,96,113,115,132,183, c.p.c., dell’art. 118disp. att. c.p.c., dell’art. 2Cost. e art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente si duole ancora della valutazione del Tribunale, anch’essa non rettificata dal giudice d’appello, circa la mancata concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., e quindi della lesione del suo diritto di difesa, nonché del ritenuto intento dilatorio dell’opposizione, posto a base dell’adottata sua condanna per temerarietà della lite. Si censura anche la decisione della Corte d’appello, al riguardo, per non essere stati individuati gli elementi fondanti della mala fede o colpa grave.

1.7 – Con il settimo motivo, infine, sotto il titolo “sulla nullità della costituzione cartacea (omessa pronuncia della Corte d’appello)”, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. n. 179 del 2012, artt. 16 e ss., del D.L. n. 90 del 2014, art. 44, dell’art. 101 c.p.c., dell’art. 112 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente rileva che, benché gli opposti si siano costituiti con modalità cartacea e non telematicamente, la loro attività difensiva sia stata presa nondimeno in considerazione; e si duole che tale aspetto non sia stato rilevato dalla Corte d’appello, che ha pure liquidato in favore dei predetti le spese legali, nonostante l’irregolare costituzione in giudizio.

2.1 – Anzitutto, è appena il caso di evidenziare che il giudizio di cassazione è un giudizio impugnatorio a critica vincolata, in cui il ricorrente deve rivolgersi alla Corte individuando uno o più specifici vizi di legittimità – che, in tesi, affliggono la decisione impugnata – scegliendoli dal novero di quelli elencati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, e nel rispetto, tra l’altro, dei requisiti di contenuto-forma di cui agli artt. 365 e 366 c.p.c.

In proposito, vale la pena qui ribadire che “In tema di ricorso per cassazione, il principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 richiede per ogni motivo l’indicazione della rubrica, la puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché l’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronunzia” (così, ex multis, Cass. n. 17224/2020). E ancora, con specifico riferimento al preteso vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, non può che richiamarsi il principio, ancor più di recente affermato da Cass., Sez. Un., n. 23745/2020, secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa”. Ed infine (per quanto qui interessa), va ribadito l’ulteriore principio secondo cui “Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità” (Cass. n. 640/2019).

Sulla base di queste premesse, si procederà di seguito allo scrutinio del ricorso, che l’ A. ha inteso strutturare riportando (per i motivi dal primo al sesto) il medesimo “titolo” delle censure avanzate con l’atto d’appello, così cimentandosi a strutturare le doglianze (specialmente, per i primi cinque motivi) nel senso che le questioni da lui poste nel giudizio di merito (e qui denunciate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) ridondano sulla stessa esistenza o congruenza della motivazione della decisione impugnata, vizio che viene dedotto logicamente in via principale quale unico elemento valutativo “rimproverabile” al giudice d’appello. Che il ricorrente, in proposito, sia incorso in detto equivoco di fondo è plasticamente testimoniato dall’inciso (riportato in particolare nei motivi dal secondo al quinto) secondo cui gli argomenti esposti nel giudizio di merito “costituiscono anche le motivazioni del ricorso in Cassazione”.

Quanto precede, consente quindi di escludere, almeno per i primi cinque motivi, la stessa ammissibilità dei profili concernenti la pretesa violazione e falsa applicazione delle norme rubricate, ove agli stessi profili – contrariamente a quello che sembra aver costituito l’intendimento del ricorrente, che come s’e’ visto ha strutturato la doglianza in senso strumentale rispetto al preteso deficit motivazionale – volesse attribuirsi valenza autonoma. Infatti, per ciascun mezzo il ricorrente si limita ad affastellare gli articoli del codice di rito o di disposizioni di legge che si pretenderebbero violati, senza però spiegare – con la necessaria specificità – né il contenuto di ciascuna disposizione invocata, né tantomeno il come e il perché la Corte d’appello sia incorsa nella presunta violazione, così costringendo questa Corte ad una ricerca e ad una ricostruzione officiosa che non le competono (v. Cass., Sez. Un., n. 23745/2020, già citata). A ciò si aggiunga che, nel corpo del ricorso, spesso difetta una parvenza di confronto con lo specifico contenuto della decisione impugnata, tanto è vero che il ricorrente talvolta finisce col focalizzarsi più sull’operato del Tribunale, che su quello dello stesso giudice d’appello.

3.1 – Ciò posto, il primo motivo è infondato.

Infatti, come s’e’ visto poc’anzi, dalla pretesa violazione e falsa applicazione delle disposizioni di legge rubricate si pretende di far sostanzialmente derivare vizi motivazionali sub specie di “omessa motivazione” o addirittura di “non-motivazione”.

Invero, è noto che, per effetto della novella apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 più non consente di denunciare in sede di legittimità l’omessa o contraddittoria motivazione, bensì l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Peraltro, come precisato da questa Corte a Sezioni Unite (in particolare, sentenza n. 8053/2014 e molte altre successive), può tuttora denunciarsi il vizio motivazionale, ma nella misura in cui la sentenza impugnata leda il c.d. “minimo costituzionale” della motivazione, vizio che “si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Orbene, per quanto il ricorrente abbia inteso attingere il superiore rango costituzionale della motivazione, avendo correttamente indicato la norma (art. 111 Cost., comma 6) che sarebbe stata, nel caso, violata (seppur nell’egida dell’art. 360, comma 1, n. 3, anziché in quella, più corretta, del n. 4 della stessa disposizione, trattandosi di error in procedendo), può senz’altro escludersi che la sentenza impugnata sia affetta dal denunciato vizio. Infatti – a prescindere, ovviamente, dalla correttezza o meno della decisione, questione che qui non importa – la Corte d’appello ha certamente motivato sul perché i due precetti intimati dagli odierni controricorrenti fossero fondati su autonomi titoli esecutivi, costituiti l’uno dall’ordinanza collegiale ex art. 669-terdecies c.p.c., e l’altro dalla sentenza di merito, per di più specificando pure che, dalla lettura di quest’ultima, poteva senz’altro escludersi che le spese ivi liquidate comprendessero l’appendice collegiale della fase interinale del giudizio possessorio.

4.1 – Considerazioni in tutto analoghe possono spendersi per il secondo motivo. Infatti, la Corte d’appello ha ritenuto che la questione della pretesa necessità di dimostrare il previo pagamento da parte degli opposti delle spese liquidate in corso di causa al C.T.U. concernesse questione interna al titolo esecutivo (nella specie, la sentenza di merito), da farsi valere nell’ambito del giudizio in cui esso si formò. Non risponde dunque al vero che la Corte del merito non abbia espresso alcuna propria motivazione sul punto, come invece sostenuto dal ricorrente, che anche in tal caso propone, dunque, una censura destituita di fondamento.

D’altra parte – posto che è inequivoco che le spese di C.T.U. liquidate in corso di causa siano state poste definitivamente a carico dell’ A. – i coniugi G., nel precettare dette spese, hanno assunto (se non altro, implicitamente) di averle anticipate e di avere quindi diritto alla restituzione da parte dell’effettivo obbligato, in forza della sentenza azionata. Ne’, del resto, risulta (o il ricorrente allega) che all’atto della notifica del precetto i G. non avessero ancora pagato il C.T.U. (unica circostanza che avrebbe escluso la ripetibilità delle relative spese), avendo l’ A. soltanto dedotto che la prova del pagamento era stata offerta “solo” all’atto della costituzione in giudizio da parte degli stessi G., così restando confermato il superiore assunto.

5.1 – Anche il terzo motivo è infondato.

Infatti, come s’e’ più volte ribadito, la Corte d’appello ha comunque motivato sulla sussistenza delle condizioni dell’azione esecutiva preannunciata dai G. con entrambi gli atti di precetto, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, sicché non è dato riscontrare alcuna “non-motivazione” nella decisione impugnata circa la pretesa indebita duplicazione dei titoli esecutivi e dei precetti.

In ogni caso, ferma l’anomala impostazione del mezzo pure in tal caso, anche a voler recuperare autonomia alle pretese violazioni o false applicazioni di norme di diritto e fermo quanto già rilevato al riguardo sul difetto di specificità (v. par. 2.1), le doglianze sulla questione dell’abuso del processo sono incentrate sulla decisione di primo grado e non si confrontano minimamente con quella d’appello, che non risulta quindi debitamente censurata, sul punto; né tantomeno, dalla lettura del ricorso, può desumersi se detta specifica questione fosse stata proposta tra i motivi di gravame, il che costituisce ulteriore motivo d’inammissibilità, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Quest’ultima disposizione, a ben vedere, risulta ulteriormente violata dal ricorrente laddove – insistendo sul difetto del potere di liquidazione delle spese da parte del Collegio adito ex art. 669-terdecies c.p.c. – omette di chiarire nel ricorso se la fase meritale fosse stata o meno già avviata all’atto della decisione, questione che, al lume della natura solo eventualmente bifasica del giudizio possessorio dopo la riforma di cui alla L. n. 69 del 2009 (v. Cass., Sez. Un., n. 26037/2013), avrebbe potuto eventualmente assumere valenza decisiva.

Non senza evidenziare che la pronuncia sulle spese adottata in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. costituisce senz’altro titolo esecutivo idoneo a sostenere, ex art. 474 c.p.c., l’avvio dell’esecuzione forzata, ove non già iniziata in forza dell’ordinanza interinale (così Cass. n. 20593/2015, richiamata dallo stesso giudice del gravame, che si condivide e alla quale si intende dare continuità).

6.1 – I motivi quarto e quinto possono esaminarsi congiuntamente, perché connessi; essi sono inammissibili.

Il ricorrente evidenzia, ancora, pretese violazioni e false applicazioni di norme di diritto (stavolta però chiaramente attribuite al giudice di primo grado), per farne discendere la totale assenza di motivazione adottata, al riguardo, da parte del giudice d’appello. Ora, a parte il fatto che la Corte d’appello – pur a fronte di un quarto e quinto motivo di gravame astrattamente congruenti col tema in discorso e seppur senza affrontare specificamente dette questioni – ha ritenuto che anch’esse afferissero al titolo esecutivo (v. par. 4.1), così rendendo comunque una motivazione al riguardo, il ricorrente omette di esporre in che termini, nell’ambito dei citati motivi, esse erano state devolute alla cognizione del giudice d’appello, con conseguente violazione, anche in tal caso, dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, l’ A. non avendo consentito alla Corte di apprezzarne la decisività dalla mera lettura del ricorso.

7.1 – Il sesto motivo è anch’esso inammissibile.

Il ricorrente – a parte la deduzione di alcuni pretesi errori in cui sarebbe incorso il primo giudice, questioni chiaramente inammissibili in questa sede di legittimità – imputa alla Corte d’appello di non aver essa stessa individuato i profili di mala fede o colpa grave, posti a sostegno della sua condanna per lite temeraria. Tuttavia, il ricorrente da un lato non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, giacché non si confronta affatto con l’affermazione del giudice d’appello secondo cui le contestazioni che lo stesso A. aveva proposto nei confronti della prima decisione erano assolutamente generiche; dall’altro, omette di considerare che, affinché il giudice d’appello possa esaminare il merito delle questioni – in forza dell’effetto devolutivo – occorre che l’appellante proponga censure alla prima decisione sufficientemente specifiche, anche ai sensi dell’art. 342 c.p.c., in coerenza con la struttura e la funzione del giudizio d’appello, caratteristiche di cui il gravame, sul punto, era all’evidenza sprovvisto.

8.1 – Infine, anche il settimo motivo è inammissibile.

L’illustrazione del mezzo muove in linea assolutamente astratta e va quindi integrata con quanto allegato dall’ A. nella esposizione dei fatti rilevanti (v. ricorso, in particolare p. 6), ove si è evidenziato che i coniugi G., all’epoca appellati, si costituirono nel giudizio di secondo grado con forme analogiche tradizionali e non telematicamente, e che esso ricorrente sollevò immediatamente l’eccezione di nullità della loro costituzione alla prima udienza successiva, ossia il 6.12.2016.

Si tratta di questione certamente dotata di potenziale decisività, perché la costituzione del soggetto evocato in appello in forme non consentite dalla legge, e segnatamente in via analogica anziché telematica, comporta di regola che l’attività processuale svolta nel giudizio sia da considerare tamquam non esset, il che vale, ovviamente, anche ai fini della regolamentazione delle spese.

Tuttavia, anche nel caso in parola il ricorrente incorre nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3. Infatti, manca nel ricorso, anzitutto, qualsivoglia indicazione circa la decisione che, in proposito, adottò la Corte d’appello nel corso del giudizio, essendosi solo indicato che, dopo la proposizione della detta eccezione, la causa venne rinviata all’udienza del 19.6.2018 per la precisazione delle conclusioni, con ordinanza del 6.12.2016; non è dato quindi conoscere se, nell’ambito di detto provvedimento, la Corte abbia comunque valutato la questione, seppur rigettandola, anche implicitamente, o si sia limitata ad adottare un mero rinvio. Non risulta, poi, che l’eccezione stessa (anche per l’ipotesi in cui essa non sia stata immediatamente affrontata dal giudice d’appello, come pure sarebbe stato lecito attendersi) venne ribadita nelle conclusioni definitivamente sottoposte alla Corte, non avendo affermato l’ A. di aver concluso in modo diverso da quanto rassegnato con l’atto di gravame (le cui conclusioni sono infatti riportate alle pp. 5 e 6 del ricorso).

D’altra parte, se anche può dirsi oramai ricevuto, nella giurisprudenza di legittimità, il principio per cui la mancata riproposizione di una o più domande all’udienza di precisazione delle conclusioni non può avallare alcuna presunzione di rinuncia (da ultimo, Cass. n. 723/2021), ciò dovendo desumersi dal tenore complessivo delle difese della parte interessata, non altrettanto può dirsi rispetto alle eccezioni processuali sollevate nel corso del procedimento, in relazione ai poteri delle parti o del giudice: è evidente, infatti, che l’interesse alla decisione sull’eccezione (ove, in ipotesi, non presa in considerazione immediatamente da parte del giudice) deve essere necessariamente manifestato in sede di precisazione delle conclusioni (si veda, seppur in relazione a eccezione su questione preliminare di merito, la recente Cass. n. 22887/2019), tanto più qualora – come nella specie – la parte interessata non abbia depositato la comparsa conclusionale, bensì soltanto la memoria di replica e “al solo fine di evidenziare di non aver depositato la propria comparsa conclusionale ritenendo esaustivo il proprio atto d’appello (v. ricorso, p. 6).

Si tratta, com’e’ evidente, di elementi potenzialmente decisivi, perché l’omessa pronuncia sull’eccezione da parte della Corte d’appello (denunciata in questa sede) può ipotizzarsi soltanto se essa non abbia affatto deciso al riguardo, neanche per implicito, e se l’ A. non vi abbia rinunciato, mancando di ribadirla in sede di precisazione delle conclusioni. Tuttavia, entrambi gli elementi risultano obliterati nella narrazione da parte dello stesso A., che è dunque incorso nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non avendo consentito alla Corte di valutare l’effettiva decisività delle suddette questioni dalla mera lettura del ricorso.

9.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

In relazione alla data di proposizione del ricorso principale (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2022

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