Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32894 del 19/12/2018

Cassazione civile sez. II, 19/12/2018, (ud. 15/05/2018, dep. 19/12/2018), n.32894

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefao – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3157-2017 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI SPAGNA

15, presso lo studio dell’avvocato A.Z., che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CONSOB, elettivamente domiciliata presso la sede in ROMA, VIA G.B.

MARTINI 3, rappresentata e difesa dagli avvocati STEFANIA

LOPATRIELLO, GIANFRANCO RANDISI e SALVATORE PROVIDENTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 22/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/05/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M. nella persona del Sostituto Procuratore dott. BASILE

TOMMASO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato A.Z. per il ricorrente, che ha concluso

per l’accoglimento del ricorso, e l’avvocato GIANFRANCO RANDISI per

il resistente, che ha concluso per il rigetto;

Fatto

FATTI DI CAUSA

All’esito dell’attività di vigilanza svolta da CONSOB sulla condotta posta in essere da Telecom Italia Spa in relazione al prestito obbligazionario subordinato equity-linked a tasso fisso per 1.300 milioni di Euro a conversione obbligatoria, emesso da Telecom Finance SA il 7.11.2013 con scadenza 16.11.2016 e garantito da Telecom, veniva riscontrato che il collegio sindacale, del quale il ricorrente faceva parte, non aveva svolto in modo adeguato la funzione di controllo e non aveva comunicato alla CONSOB la mancata sottoposizione al consiglio di amministrazione della società del comunicato stampa concernente l’emissione del predetto prestito, in contrasto con quanto stabilito dalla procedura aziendale di Telecom per la gestione e comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate.

Di conseguenza, con la delibera n.19316 del 7.8.2015 veniva irrogata al ricorrente la sanzione di Euro 55.000, di cui Euro 30.000 per violazione dell’art. 149 TUF, comma 1, lett. b) e c-bis) in relazione alla non adeguata vigilanza, ed Euro 25.000 per violazione dell’art. 149, comma 3 in relazione all’omessa segnalazione.

Proponeva opposizione avverso tale delibera il ricorrente innanzi la Corte di Appello di Milano, che con la sentenza impugnata n. 22/2016 rigettava l’opposizione, ritenendo irrilevante la mancata conclusione del procedimento sanzionatorio nel termine di 180 giorni dalla contestazione degli addebiti, anche perchè nel caso di specie il superamento di detto termine era stato causato dalla decisione di CONSOB di evitare la definizione del procedimento medesimo prima dell’entrata in vigore del nuovo regolamento, approvato il 29.5.2015, al fine di ampliare il diritto di difesa del ricorrente secondo le nuove prescrizioni ivi contenute. Riteneva del pari irrilevante la mancata comunicazione all’interessato della proposta sanzionatoria, anche considerato che CONSOB aveva comunque trasmesso al ricorrente, il 5.6.2015, la relazione contenente la quantificazione della sanzione, così consentendogli di esercitare pienamente il suo diritto di difesa. Riteneva inoltre che le condotte contestate al ricorrente integrassero le ipotesi di cui all’art. 149 TUF e confermava la sanzione, anche nel quantum, sul presupposto che alle violazioni già commesse alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 72 del 2015 non si potessero applicare, giusta l’art. 6 di detto decreto, le nuove e più miti norme sanzionatorie ivi contenute.

Propone ricorso avverso detta decisione il ricorrente, affidandosi a quattro motivi, nell’ultimo dei quali propone anche una questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6 per asserita contrarietà della norma all’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2, art. 117 Cost., comma 1, nonchè artt. 6 e 7 CEDU. Resiste con controricorso CONSOB.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 2 e art. 154 c.p.c.in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto l’irrilevanza del fatto che il procedimento sanzionatorio si fosse concluso dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 4, comma 2 del Regolamento Consob n. 18750 del 2013. Ad avviso del ricorrente, anche considerando detto termine di natura ordinatoria, il suo mancato rispetto non poteva non avere conseguenze, in considerazione del fatto che l’art. 154 c.p.c.prevede, per i termini processuali ordinatori, la facoltà di proroga prima della scadenza, mediante un provvedimento espresso, per una durata non superiore a quella del termine originario, salvo – in caso contrario – l’obbligo di una motivazione specifica. Applicando questi principi, il ricorrente ritiene che nel caso di specie, in conseguenza della scadenza del termine ordinatorio non tempestivamente prorogato, il provvedimento sanzionatorio sia da ritenere invalido.

Il motivo è infondato.

Innanzitutto non è pertinente il richiamo dell’art. 154 c.p.c., da un lato perchè esso si riferisce alla disciplina dei termini processuali, mentre nel caso di specie si discute di termini relativi al procedimento sanzionatorio, e dall’altro lato in quanto la norma invocata presuppone l’esistenza di un giudice, terzo rispetto alle parti costituite in giudizio, investito del potere di intervenire a regolare i termini del processo civile in funzione della garanzia del superiore principio del giusto processo; laddove -al contrario- nell’ambito del procedimento amministrativo manca totalmente una figura terza, distinta rispetto all’amministrazione procedente. In termini, cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n.11988 del 08/08/2003 (Rv. 565809), secondo cui “La disciplina dei termini ordinatori di cui all’art. 154 c.p.c. è ipotizzabile (e concretamente applicabile) solo nell’ambito di un procedimento giurisdizionale -in cui il giudice sia l’autorità, terza e indipendente, alla quale è demandata l’eventuale proroga, in vista del governo del giusto processo – e non anche di un processo amministrativo – tributario caratterizzato da impulso, soggetti, struttura, funzioni affatto peculiare e diverso da quelli del processo civile, sicchè esso non può ritenersi dettato a pena di decadenza attesone, alfine, il carattere meramente acceleratorio – nè ad esso è in alcun modo applicabile la generale disciplina dettata in tema di termini ordinatori” (conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n.240 del 09/01/2014, Rv. 629270).

In secondo luogo, questa Corte ha avuto occasione di affermare in più occasioni che “Nel procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative previste in tema di intermediazione finanziaria, disciplinato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 195, il termine di centottanta giorni per la formulazione da parte della Consob della proposta sanzionatoria, stabilito dal regolamento Consob n.12697 del 2000, non ha natura perentoria nè l’emissione della proposta sanzionatoria oltre il predetto termine presenta per questo solo fatto, profili di illegittimità, attesa la inidoneità del regolamento interno a modificare le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla L. n. 689 del 1981” (Cass. Sez. 2, Sentenza n.4873 del 01/03/2007, Sez. 2, Sentenza n. 4329 del 20/02/2008, Rv.602024).

L’orientamento merita di essere confermato, con conseguente rigetto della doglianza.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 149, comma 1, lett. b e c bis in relazione all’art. 360 c.p.c., perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto non rilevante la circostanza che l’obbligo di controllo sulla mancata approvazione formale, da parte del Consiglio di Amministrazione della società, del testo del comunicato relativo al prestito convertendo di cui all’atto di contestazione, fosse contenuto in un regolamento interno della società stessa. Ad avviso del ricorrente, la mancata approvazione del comunicato da parte del CdA non costituisce violazione nè del principio di corretta amministrazione, da identificare nella conformità della gestione della società ai criteri di razionalità economica posti dalla scienza dell’economia aziendale, nè delle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario, che sono poste da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria e sono oggetto di condivisione da parte degli operatori dello specifico settore. Nel caso di specie, non si configurerebbe nè omessa vigilanza su una cd. attività di governance, nè una violazione di una norma di condotta posta da un codice di autodisciplina, poichè sarebbe stata violata piuttosto – una disposizione non attinente al governo della società contemplata da un regolamento interno. La contestazione mossa al ricorrente, in sostanza, sarebbe riconducibile al paradigma di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2 in quanto si esaurirebbe nella violazione di una regola procedimentale inidonea ad incidere, in concreto, sul contenuto dell’atto conclusivo del procedimento. A titolo esemplificativo, il ricorrente richiama l’ipotesi dell’omessa informativa del paziente, ritenuta irrilevante, in tema di danno alla salute, qualora essa non abbia in concreto inciso sul trattamento sanitario e non sia stato dimostrato che, se il paziente l’avesse ricevuta, avrebbe optato per una diversa decisione circa le cure offertegli.

Il motivo è infondato.

Va riaffermato che “In tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functionem, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori- e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla Consob” (Cass. Sez. U, Sentenza n.20934 del 30/09/2009, Rv.610514; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n.6037 del 29/03/2016, Rv.639053).

La responsabilità dei sindaci si ritiene quindi sussistente in ogni caso di “… omesso o inadeguato esercizio dell’attività di controllo…, non essendo il danno un elemento costitutivo dell’illecito, quanto invece parametro per la determinazione della sanzione; la responsabilità dei sindaci sussiste, dunque, indipendentemente dall’esito delle singole operazioni ed anche a fronte di insufficienti informazioni da parte degli amministratori, potendo gli stessi avvalersi della vasta gamma di strumenti informativi ed istruttori, prevista dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 149” (Cass. Sez. 2, Sentenza n.5357 del 07/03/2018, Rv.647847).

Ed invero la funzione del collegio sindacale si estrinseca nel controllo del regolare svolgimento della gestione della società, posto che “Il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni ex art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si estende a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali, e ricomprende, pertanto, anche l’obbligo di segnalare tutte le situazioni che esigano, in applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c., la riduzione del capitale sociale” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2772 del 24/03/1999, Rv.524490; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n.5287 del 28/05/1998, Rv.515885).

Nelle società quotate in borsa, tale dovere si fa ancora più stringente, in vista della funzione di garanzia dell’equilibrio del mercato (cfr. Cass. Cass. Sez. U, Sentenza n.20934 del 30/09/2009, Rv. 610514 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6037 del 29/03/2016, Rv. 639053, entrambe già citate).

Il principio, costantemente riaffermato da questa Corte, si ricollega alla funzione di garanzia che i vari organismi di controllo sono deputati a svolgere nell’ambito delle società, soprattutto se quotate e strutturate in un’articolazione interna complessa, che preveda il riparto delle competenze gestorie tra diversi organi. Tutti tali organismi di controllo, a partire da quelli deputati al controllo interno aziendale, fino alle società di revisione dei conti e al collegio sindacale, sono investiti di un ineludibile compito di costante verifica della corrispondenza dei meccanismi di gestione della società al paradigma della corretta amministrazione, così come definito dalla scienza dell’economia aziendale. In applicazione di tale principio, si è (ad esempio) ritenuta sanzionabile “… la condotta del soggetto, cui sia affidata la funzione di controllo interno, ai sensi dell’art. 57 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, vigente ratione temporis, il quale ometta di segnalare tempestivamente le irregolarità compiute dall’agente di cambio in violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 22e 23 e relativi, il primo, ad operazioni eseguite in difformità dell’obbligo di separazione tra il patrimonio dei clienti ed il patrimonio dell’intermediario e di separazione dei patrimoni dei clienti, e, il secondo, al mancato rispetto degli obblighi di informazione alla clientela in ordine alla situazione finanziaria” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19003 del 31/07/2017, Rv. 645081; tale pronuncia, in particolare, ha ritenuto sussistente l’obbligo di segnalare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 8 non soltanto in capo ai componenti del collegio sindacale, ma anche all’organo aziendale che svolge funzioni di controllo interno ed alle società incaricate della revisione dei conti).

La corretta applicazione dei principi appena richiamati impone di considerare cogenti, per la società, anche le norme di autodisciplina previste da disposizioni interne, ancorchè maggiormente stringenti rispetto alle disposizioni di portata generale poste dalla legge, dalle fonti regolamentari o dai codici di autodisciplina. Nel momento in cui la società, all’esito di una scelta del tutto libera, decide di adottare norme di condotta aziendale e di estrinsecare tale decisione al mercato, è infatti vincolata alla loro osservanza, rappresentando la scelta di cui sopra una volontaria autolimitazione da parte dell’operatore del mercato.

Nè giova il richiamo alla L. n. 241 del 1990, art. 21-octies trattandosi di norma generale applicabile alla diversa materia del procedimento amministrativo e non essendo in alcun modo dimostrato, nel caso di specie, che il mancato rispetto della normativa aziendale interna non abbia, di fatto, comportato alcun effetto sostanziale sul contenuto dell’atto conclusivo del procedimento. Sotto questo profilo, non appare decisivo neppure il richiamo all’omissione dell’informativa dovuta al paziente, posto che anche in quel caso il soggetto responsabile dell’omissione è tenuto, per andare esente da responsabilità, a fornire la prova puntuale circa il fatto che l’omessa informativa non abbia in concreto inciso sul trattamento sanitario. Detta prova, nel caso di specie, è mancata e – sotto questo profilo – il motivo appare almeno in parte anche carente della necessaria specificità.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 149, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente in capo al sindaco il dovere di segnalare alla Consob la mancata approvazione del comunicato stampa di cui si discute, sul presupposto della rilevanza esterna della relativa procedura aziendale interna che lo prevedeva. Ad avviso del ricorrente, l’obbligo di segnalazione previsto dall’art. 149, comma 3 T.U.F. si riferirebbe soltanto alle irregolarità rilevanti per il corretto funzionamento del mercato finanziario, e non anche alle violazioni di procedure interne aziendali. Sul punto, il ricorrente propone un paragone con l’art. 155, comma 2 T.U.F., che obbliga la società di revisione a comunicare alla Consob soltanto i fatti che costituiscono irregolarità o illeciti aventi un effetto rilevante sul bilancio della società controllata. La lettura coordinata delle due norme comporterebbe un depotenziamento della prima, nel senso di ritenere insussistente l’obbligo di segnalazione in presenza di fatti non idonei ad incidere in modo importante sul bilancio.

Anche questa doglianza non è fondata, per gli stessi motivi esposti con riferimento al precedente motivo.

Il paragone con l’art. 155 T.U.F., peraltro, non appare conferente, posta la differenza tra il contenuto del controllo demandato alla società di revisione, sostanzialmente limitato alla regolarità del bilancio e dei conti ad esso presupposti, e di quello affidato invece al collegio sindacale, da ritenere maggiormente incisivo e stringente perchè avente ad oggetto, in termini generali, la corretta gestione della società, non soltanto sotto il profilo amministrativo-contabile, ma anche con riferimento alle scelte gestionali, alla loro coerenza rispetto allo scopo sociale, alla condivisibilità delle singole operazioni poste in essere dal CdA e dagli altri organi di gestione della società, anche tenuto conto delle effettive condizioni economiche e patrimoniali di quest’ultima, all’esistenza di ipotesi di conflitto di interessi, reale o potenziale, ed in genere ad ogni altro evento rilevante per la vita sociale.

Con il quarto motivo, il ricorrente si duole dell’omessa pronuncia sul motivo di opposizione relativo alla quantificazione della sanzione irrogata in concreto da Consob, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè della violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost. e art. 2 c.p. per mancata applicazione del principio del cd. favor rei, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare nei suoi confronti la più mite sanzione prevista dal D.Lgs. n. 72 del 2015, in luogo di quella – più afflittivi – prevista dall’art. 193 T.U.F., considerando che la norma di maggior favore è entrata in vigore prima della pubblicazione della sentenza impugnata; che lo ius superveniens va applicato anche dopo la deliberazione in camera di consiglio, alla luce del principio posto da Cass. 10.12.2014, n.26066, da Cass. 9.5.2000, n.5855 e da Cass. 21.12.1999, n.14357; e dovendosi ritenere la sanzione di cui si discute ricompresa nella categoria della “pena” ai sensi dell’art. 7 CEDU, in vista della sua portata afflittiva per il destinatario, tanto in funzione del massimo edittale previsto (fino ad Euro 2.500.000) quanto in considerazione dell’idoneità a ledere l’immagine, il prestigio e l’onorabilità di colui che la subisce. In subordine, il ricorrente propone questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2 per asserito contrasto con l’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2, art. 117 Cost., comma 1 e artt. 6 e 7 CEDU, ritenendo detta questione non manifestamente infondata in vista della mancata previsione espressa, nell’ordinamento interno, del principio del favor rei nella materia delle sanzioni amministrative. Ad avviso del ricorrente detto principio, pur se non costituzionalizzato, sarebbe sempre stato interpretato dalla Corte Costituzionale come di portata generale, in vista dell’esigenza di assicurare l’adeguatezza del trattamento sanzionatorio alla percezione concreta della gravità degli illeciti espressa dall’ordinamento giuridico; ed inoltre si potrebbe individuare una sua tendenziale applicazione anche oltre i confini della legge penale, potendosi citare come esempi il D.P.R. n. 148 del 1988, art. 23-bis introdotto dalla L. n. 326 del 2000, art. 1 in materia di illeciti valutari; il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 in materia di violazioni tributarie; il D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 46 in tema di concessioni del servizio di riscossione; il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 3 in materia di responsabilità amministrativa degli enti per illecito penale.

Anche questa doglianza merita di essere respinta.

Pur potendosi effettivamente ravvisare una tendenza al progressivo riconoscimento del cd. principio del favor rei anche con riferimento a specifici ambiti estranei al diritto penale, come ad esempio in materia di violazioni tributarie e valutarie o in tema di responsabilità degli enti per illeciti penali, non è possibile, allo stato della legislazione, ipotizzare una generale validità del principio anzidetto nella materia delle sanzioni amministrative, in assenza di una norma esplicita in tal senso. Anzi, a ben vedere proprio il fatto che il legislatore abbia ritenuto di affidare l’applicabilità del favor rei, negli specifici ambiti di cui anzidetto, a norme speciali, costituisce argomento confermativo dell’esistenza di un principio generale di segno contrario.

In argomento, questa Corte ha affermato che “In tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore” (Cass. Sez.6-2, Ordinanza n. 29411 del 28/12/2011, Rv.620859; Cass. Sez. L, Sentenza n.14959 del 25/06/2009, Rv.608792; Cass. Sez. L, Sentenza n.5210 del 04/03/2009, Rv.608233).

Nè può essere trascurato il fatto che le Sezioni Unite di questa Corte abbiano escluso l’applicabilità del principio del favor rei alle sanzioni disciplinari “… poichè l’illecito deontologico è riconducibile al genus degli illeciti amministrativi per i quali – in difetto della eadem ratio – non trova applicazione, in via analogica, il principio del favor rei sancito dall’art. 2 c.p., bensì quello del tempus regit actum” (Cass. Sez. U, Sentenza n.14374 del 10/08/2012, Rv.623482, per gli avvocati; Cass. Sez. U, Sentenza n.15314 del 24/06/2010, Rv.613974 e Cass. Sez. U, Sentenza n.25815 del 11/12/2007, Rv.601080, per i magistrati), in tal modo confermando ulteriormente la differenza di trattamento esistente tra sanzione penale e sanzione amministrativa.

Il quadro di sistema non è ritenuto incoerente con la normativa CEDU; infatti “In tema di sanzioni amministrative non trova applicazione il principio di retroattività della legge successiva più favorevole posto che, come ribadito dalla Corte costituzionale con sentenza del 20 luglio 2016 n. 193, nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata del menzionato principio, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative nè è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9269 del 16/04/2018, Rv.648084).

La CEDU ritiene, d’altro canto, che si debba considerare di natura penale la sanzione che sia qualificata tale dalla norma che la prevede e che, in mancanza, si debba tener conto della natura della violazione o della natura, scopo e gravità della sanzione (cfr. CEDU sent. causa C-199/92 del 1999 Huls/Commissione; sentenza 8 giugno 1976 Engel ed altri contro Paesi Bassi, serie A n.22, par.82; sentenza 21 febbraio 1984 Ozturk c. Germania, serie A n.73, par.53; sentenza Lutz contro Germania, serie A n.123, par.54); criteri, questi ultimi, tra loro alternativi ma che possono essere utilizzati anche cumulativamente “se l’analisi separata di ognuno di essi non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di un’accusa in materia penale (Iussila contro Finlandia n. 73053/2001)” (sent. Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014), Aggiunge la Corte, nella sentenza da ultimo richiamata, che “il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel ed altri sopra citata) e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta”.

Alla luce dei richiamati principi, questa Corte ha a più riprese affermato, anche dopo l’intervento della CEDU di cui alla cd. sentenza Grande Stevens, che le sanzioni pecuniarie diverse da quelle di cui all’art. 187-ter T.U.F., sulle quali si è espressamente pronunciata la richiamata decisione, non possono essere equiparate, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicchè le prime non condividono la natura sostanzialmente penale delle seconde, nè pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, tanto con particolare riferimento al problema del “bis in idem” tra sanzione penale e amministrativa (Cass. Sez.2, Sentenza n.20689 del 09/08/2018, Rv.650004, ed altre precedenti ivi citate) quanto con riguardo al procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 195 T.U.F., il quale “… non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, perchè questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell’accusa penale a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia)”. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25141 del 14/12/2015, Rv. 637852).

Nè rileva, a contrario, il fatto che nel procedimento di cui anzidetto non sia assicurata la piena conoscenza degli atti istruttori nè prevista la comunicazione all’interessato della relazione conclusiva rimessa alla CONSOB dall’Ufficio sanzioni amministrative, posto che (come ritenuto, nella vigenza del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187-septies da Cass. Sez. U, Sentenza n.20935 del 30/09/2009, Rv.610516) ai fini del rispetto del principio del contraddittorio è sufficiente che venga effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato, posto che i precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.) riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice e non anche il procedimento amministrativo, ancorchè finalizzato all’emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi; cosicchè l’incompleta equiparazione del procedimento amministrativo a quello giurisdizionale non viola in alcun modo la Costituzione. Del resto la stessa sentenza CEDU Grande Stevens c./Italia del 4 marzo 2014 precisa, proprio sulla scorta della pregressa giurisprudenza della stessa Corte, che le carenze di tutela del contraddittorio nel procedimento amministrativo sanzionatorio non consentono di ritenere violato l’art. 6 della CEDU quando il provvedimento sanzionatorio sia impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, che sia dotato di giurisdizione piena e che conosca dell’opposizione in un procedimento che garantisca il pieno dispiegamento del contraddittorio delle parti (punti 138 e 139).

Deve quindi ritenersi che gli Stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU già nella fase amministrativa (nel qual caso, nella logica della Convenzione, una fase giurisdizionale non sarebbe nemmeno necessaria) o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie) ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni del richiamato art. 6. Nel secondo caso il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione, è conforme alle prescrizioni di detta norma proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo (Cass. Sez. 2, Sentenza n.1205 del 18/01/2017, non massimata; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n.8210 del 22/04/2016, Rv.639663).

In coerenza con i principi sin qui richiamati va affermato, anche per le sanzioni previste per la violazione dell’art. 193 T.U.F., quanto già ritenuto da questa Corte con riferimento alle violazioni dell’art. 190 T.U.F., e può quindi escludersi tanto la loro natura sostanzialmente penale, quanto l’esistenza di “problemi di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU” (Cass. Sez. 2, Sentenza n.8855 del 05/04/2017, Rv.643735).

Da quanto precede discende, al contempo, il rigetto del motivo in esame e la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, proprio alla luce della mancata dimostrazione, in concreto, del requisito di peculiare afflittività sul quale, in ultima analisi, si potrebbe fondare l’equiparazione della sanzione amministrativa di cui si discute al concetto di “pena” e la conseguente applicabilità al caso di specie dell’art. 7 CEDU.

In definitiva, il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono regolate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 che ha aggiunto il comma 1-quater al Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2018

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