Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32877 del 19/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 19/12/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 19/12/2018), n.32877

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28823-2012 proposto da:

P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE n. 95, presso lo studio dell’avvocato RITA BRUNO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRA ARAGONA;

– ricorrente principale –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA “OSPEDALI RIUNITI PAPARDO PIEMONTE” di (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELLA MERCEDE n. 11 PAL. BERNINI, presso lo

studio dell’avvocato PIETRO SAIJA, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE MAGAUDDA;

– controricorrente –

e contro

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZZA S. ANDREA

DELLA VALLE n. 3, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO MELLARO,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE SAITTA;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1093/2012 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata l’11/06/2012, R.G.N. 3/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/09/2018 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e

per l’inammissibilità del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato Dentici Lara per delega dell’Avvocato Saitta

Giuseppe;

udito l’Avvocato Saja Pietro per delega dell’Avvocato Magaudda

Giuseppe;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Messina ha respinto l’appello di Giovanna Pagano avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato il ricorso proposto nei confronti di D.G. e dell’Azienda Ospedaliera “Ospedali Riuniti Papardo Piemonte” volto ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del recesso da quest’ultima esercitato per esito negativo del periodo di prova e la condanna dell’Azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro di livello dirigenziale ed al risarcimento del danno, da quantificarsi in relazione all’ammontare delle retribuzioni non percepite a far tempo dalla data del recesso.

2. La Corte territoriale ha premesso che dall’eventuale illegittimità del recesso intimato per esito negativo della prova non discende l’applicazione della tutela reale, perchè il lavoratore può solo chiedere la prosecuzione per il periodo mancante, in caso di inadeguatezza della prova, oppure il risarcimento del danno, dovendosi escludere che dall’illegittimità possa derivare la stabile costituzione del rapporto di lavoro.

3. Il giudice d’appello ha ritenuto infondata anche la domanda risarcitoria ed ha evidenziato che il recesso era stato ampiamente motivato dal direttore amministrativo dell’azienda il quale, nel recepire il giudizio negativo espresso dal capo settore, aveva esplicitato le ragioni per le quali la P. si era dimostrata non idonea a ricoprire incarichi dirigenziali.

Ha aggiunto che la ricorrente, anche se in prova, era chiamata ad assumere le responsabilità connesse al ruolo dirigenziale e, quindi, doveva ritenersi responsabile delle inefficienze riscontrate nel settore al quale era stata preposta.

4. La Corte messinese ha evidenziato che la nullità del patto di prova era stata inammissibilmente eccepita solo con il ricorso in appello ed ha aggiunto che egualmente inammissibile doveva ritenersi la censura inerente il mancato conferimento di un incarico e l’omessa verifica dei risultati, in quanto la controversia trovava causa nella dedotta illegittimità del recesso nel periodo di prova.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.G. sulla base di nove motivi, ai quali hanno replicato con tempestivo controricorso l’Azienda Ospedaliera e D.G.. Quest’ultimo ha notificato ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

6. Le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis 1 c.p.c. per l’adunanza camerale del 28 giugno 2017, rinviata a causa dell’impedimento del consigliere relatore, e del 13 dicembre 2017, all’esito della quale è stato disposto il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione in udienza pubblica. L’Azienda Ospedaliera ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente principale censura la sentenza impugnata nella parte in cui ritiene non applicabile la tutela reale e deduce che, al contrario, qualora il dipendente pubblico dimostri di avere superato positivamente il periodo di prova, il recesso, evidentemente determinato da un motivo illecito, è illegittimo sicchè, per effetto della fictio iuris di cui all’art. 1359 c.c., la condizione dell’avvenuto superamento è da ritenersi realizzata con efficacia retroattiva.

2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 c.p.c., denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., degli artt. 13 e 14 del CCNL 1998/2001 per la dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa del Servizio sanitario nazionale, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 degli artt. 2096 e 1375 c.c.. La P. deduce che nel contratto di assunzione devono essere specificati, fra l’altro, l’incarico conferito, gli obiettivi generali da conseguire, le modalità di effettuazione delle verifiche, che condizionano anche il corretto espletamento della prova, dovendo questa essere condotta in relazione allo specifico incarico assegnato. In mancanza delle specificazioni richieste dall’art. 13 del C.C.N.L. la valutazione negativa è da ritenersi “abnorme”.

3. Con la terza critica la ricorrente principale, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 17, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, degli artt. 2096 e 1375 c.p.c., addebita alla Corte territoriale di non aver “tenuto conto delle domande ritualmente proposte in giudizio, delle risultanze di causa e delle prove addotte” e di avere erroneamente affermato che il datore di lavoro pubblico può esigere dal dirigente durante il periodo di prova qualunque tipo di mansione astrattamente rientrante nella qualifica, a prescindere dal conferimento dell’incarico e dall’assegnazione degli obiettivi. Trascritto nel ricorso il contenuto del contratto individuale, nel quale era stato precisato solo che le mansioni di dirigente sarebbero state svolte presso il settore economico finanziario, la ricorrente principale deduce che tutte le contestazioni pretestuosamente avanzate dal Capo Settore e dal Direttore Amministrativo non riguardavano compiti formalmente assegnati nel contratto che, per la sua genericità, doveva ritenersi affetto, quanto al patto di prova, da nullità assoluta. Aggiunge che non può rientrare nei compiti del dirigente in prova la riorganizzazione dell’ufficio e precisa, ancora, di essersi attenuta alle procedure sino a quel momento seguite dal dirigente che l’aveva preceduta. Deduce infine che gli atti adottati dall’Azienda, in contrasto con la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, non avevano altra giustificazione se non quella di impedire il corretto svolgimento del periodo di prova che, quindi, si era svolto in modo inadeguato e con finalità estranee alla sua causa tipica.

4. In via subordinata, con il quarto motivo, la ricorrente principale denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., “nullità della sentenza per omessa pronunzia; difetto assoluto di motivazione; violazione del dovere di rilevare anche d’ufficio la nullità del patto di prova”. Deduce di avere eccepito con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado l’insussistenza della causa del patto di prova, lo sviamento funzionale del patto, la violazione di norme imperative, sicchè ha errato la Corte d’appello nel ritenere che la questione di nullità fosse stata introdotta nel thema decidendum solo con l’atto di gravame.

Aggiunge che la Corte territoriale avrebbe dovuto interpretare e qualificare correttamente la domanda, perchè se ciò avesse fatto avrebbe escluso la mutatio libelli, non configurabile qualora la modifica incida solo sulla qualificazione giuridica del fatto costitutivo e non altera petitum e causa petendi. Infine la ricorrente principale deduce che, comunque, la nullità del patto di prova doveva essere rilevata d’ufficio dal giudice di merito, in ossequio a quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nonchè dalla Corte di Giustizia Europea.

5. Con la quinta critica del ricorso principale è dedotta la violazione della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (artt. 17 e 19), dal contratto collettivo per la dirigenza non medica del servizio sanitario nazionale (artt. 62 e 16 CCNL 1998/2001), dal D.Lgs. n. 165 del 2001 (art. 2), dagli artt. 2096 e 1375 c.c. oltre che degli artt. 2,3,4,10 e 35 Cost.. La ricorrente principale sostiene che il dirigente in prova non può essere discriminato rispetto a quelli confermati in ruolo e, quindi, il patto deve contenere la specifica indicazione dei compiti e degli obiettivi assegnati. In difetto la valutazione negativa deve essere ritenuta priva di causa.

6. La violazione del principio di non discriminazione è lamentata anche con il sesto motivo con il quale la P., invocando plurime disposizioni di legge e contrattuali (artt. 2,3,4,10 e 35 Cost., artt. 31 e 32 CCNL 1998/2001, D.Lgs. n. 286 del 1999, art. 1 e seg. D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2,artt. 2096 e 1375 c.c.) deduce che la valutazione sull’attività svolta dalla ricorrente nel periodo di prova doveva essere espressa rispettando le procedure previste per la verifica dei risultati e delle attività dei dirigenti. Aggiunge che le contestazioni circa il malfunzionamento del programma informatico erano state avanzate senza che fossero supportate da una valutazione tecnica espressa da esperti del settore e deduce, inoltre, che privi di fondamento dovevano ritenersi gli addebiti formulati sulla regolarità amministrativa e contabile di talune procedure.

7. Il settimo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’illogicità e l’insufficienza della motivazione, da valutarsi in relazione a quanto dedotto nell’atto di appello in merito all’intento discriminatorio perseguito dall’Azienda che per i medesimi fatti e circostanze non aveva mosso alcuna contestazione alla dirigente in precedenza preposta al servizio. Aggiunge che la pretestuosità del recesso doveva essere desunta da elementi non valutati dalla Corte territoriale, la quale avrebbe dovuto considerare che sia l’ O. (ossia il Capo settore) che il D. (assunto dopo il recesso per scorrimento della graduatoria) erano già dipendenti dell’Azienda, ed avrebbe dovuto escludere qualsiasi responsabilità della neo assunta in relazione al preteso malfunzionamento del programma ALPI, perchè l’eventuale danno causato all’azienda era addebitabile a chi, a suo tempo, aveva commissionato il programma.

8. L’ottava censura addebita alla sentenza impugnata “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., agli artt. 2,3,4,24 e 97 Cost.; all’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – violazione e falsa applicazione dell’art. 15 Statuto dei lavoratori – natura discriminatoria e vessatoria degli atti adottati dall’azienda”. La ricorrente richiama le deduzioni contenute nelle note autorizzate depositate il 4 novembre 2011, con le quali erano stati denunciati gli atti e i comportamenti pretestuosi ed arbitrari posti in essere dall’Azienda, al fine di pregiudicare la neo assunta e di mortificarne la professionalità. Denuncia l’omessa pronuncia su quanto rilevato ed insiste nel sostenere che il recesso doveva essere ritenuto illegittimo in quanto non era stato consentito alla P. di svolgere l’attività lavorativa propria della categoria di assunzione in ruolo.

9. Infine il nono motivo ravvisa violazione degli artt. 112,115 e 421 c.p.c. nell’omessa pronuncia sulle richieste istruttorie formulate con le richiamate note autorizzate del 4.11.2011, con le quali era stata domandata l’acquisizione della documentazione analiticamente elencata nel motivo ed era stato sollecitato l’esercizio dei poteri officiosi.

10. Il ricorso incidentale denuncia, con un unico motivo, la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)” per avere la Corte territoriale omesso di liquidare in dispositivo le spese di lite, riconosciute in favore del D. e quantificate solo in motivazione in complessivi Euro 1.800,00.

11. Ragioni di priorità logica e giuridica impongono di esaminare innanzitutto il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, con i quali la ricorrente insiste nel prospettare la nullità del patto prova, che si assume stipulato in violazione dell’art. 2096 c.c..

I motivi sono infondati, perchè il ricorso muove da un’errata ricostruzione del quadro normativo ed invoca principi affermati in relazione al rapporto di lavoro privato, non estensibili all’impiego pubblico contrattualizzato.

L’assunzione in prova alle dipendenze delle amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1 non è mai stata disciplinata dal richiamato art. 2096 c.c., che presuppone il carattere facoltativo e non obbligatorio del patto.

Al contrario per l’impiego pubblico già il D.P.R. n. 3 del 1957 aveva previsto, agli artt. 9 e 10, che gli impiegati civili dello Stato dovessero essere necessariamente nominati in prova ed aveva compiutamente disciplinato le modalità della prova stessa, finalizzata anche ad assicurare al dipendente la formazione iniziale.

L’obbligatorietà della prova è stata, poi, ribadita dalla Legge quadro sul pubblico impiego n. 93 del 1983 che, all’art. 20, aveva subordinato “l’assunzione definitiva del dipendente….al superamento di un congruo periodo di prova di uguale durata per le stesse qualifiche, indipendentemente dall’amministrazione di appartenenza”.

A seguito della prima contrattualizzazione, attuata con il D.Lgs. n. 29 del 1993, è intervenuto nella materia del reclutamento del personale il D.P.R. n. 487 del 1994, al quale rimanda il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 13, che all’art. 17, rubricato “assunzioni in servizio”, dopo aver riaffermato la necessità della prova, ne detta la disciplina, da un lato imponendo un esperimento da svolgersi nel profilo professionale di qualifica o categoria al quale si riferisce la selezione concorsuale, dall’altro rinviando alla contrattazione collettiva la fissazione della durata, da stabilire in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste.

Rileva, poi, in questa sede anche il D.P.R. n. 761 del 1979, con il quale è stato disciplinato lo stato giuridico dei dipendenti delle unità sanitarie locali, che all’art. 14, stabilisce termini e modalità della prova, imponendone lo svolgimento nelle mansioni affidate all’assunto “nei settori di lavoro ai quali viene assegnato” (comma 2) ed individuando i soggetti competenti a relazionare sull’attività svolta e ad esprimere il giudizio sull’esito dell’esperimento.

Quest’ultima disposizione per il personale dirigenziale del comparto sanità è stata disapplicata dall’art. 72 del CCNL 5.12.1996 (disapplicazione ribadita dalla tabella B allegata al D.Lgs. n. 165 del 2001 – 4^ Sanità, punto 3, lett. d) che ha dettato, all’art. 15, la disciplina dell’assunzione in prova, poi integrata dall’art. 14 del CCNL 8.6.2000.

Alla luce del quadro normativo e contrattuale sopra richiamato si deve ribadire il principio, già affermato da questa Corte ed al quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui “tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale” (Cass. n. 21586/2008 e negli stessi termini Cass. n. 17970/2010; Cass. n. 655/2015; Cass. n. 9296/2017; Cass. n. 21376/2018). Ne discende che dall’eventuale carenza del regolamento contrattuale, quanto alla prova ed alle mansioni in relazione alle quali la stessa dovrà svolgersi, non possono derivare le conseguenze che nel lavoro privato si ricollegano alla nullità del patto e che presuppongono il carattere facoltativo dello stesso.

Nell’impiego pubblico contrattualizzato dalla doverosità dell’assunzione in prova deriva che il regolamento contrattuale viene ad essere necessariamente integrato ex art. 1339 c.c. dalla disciplina dettata dal legislatore e dalle parti collettive, sicchè ciò che rileva ai fini della legittimità del recesso è solo che la valutazione sull’esito dell’esperimento venga espressa dopo un adeguato periodo di assegnazione a mansioni proprie della categoria o del profilo professionale di assunzione, sia motivata e sia coerente con le finalità della prova.

Al riguardo va precisato che nel rapporto privato l’esigenza della specificazione si giustifica, oltre che in ragione della non obbligatorietà del patto, perchè il prestatore deve essere posto in condizione di conoscere le mansioni alle quali verrà assegnato e sulle quali si svolgerà l’esperimento.

Nell’impiego pubblico contrattualizzato la sottoscrizione del contratto presuppone l’espletamento di una procedura concorsuale bandita in relazione ad uno specifico profilo professionale che, a sua volta, trova compiuta definizione nella contrattazione collettiva, dalla quale il datore di lavoro pubblico non può discostarsi, sicchè quelle esigenze alle quali sopra si è fatto riferimento sono già assicurate dalle regole che necessariamente governano l’instaurazione e la gestione del rapporto.

1.1. Alle considerazioni che precedono si deve aggiungere che il ricorso, nella parte in cui pretende di far discendere l’illegittimità del recesso dalla mancata assegnazione formale di un incarico dirigenziale e dei relativi obiettivi, non interpreta correttamente le disposizioni contrattuali che vengono in rilievo nè considera le peculiarità proprie del rapporto dirigenziale.

Questa Corte ha da tempo posto in evidenza che nell’impiego pubblico contrattualizzato esiste una scissione, ignota al diritto privato, fra l’acquisto della qualifica di dirigente ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali (Cass. n.2233/2007). All’esito del superamento della procedura concorsuale si costituisce il rapporto fondamentale, che è a tempo indeterminato, e sullo stesso si innesta, poi, l’incarico temporaneo in quanto, a seguito della contrattualizzazione, “la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente (che tale qualifica ha acquisito mediante contratto di lavoro stipulato all’esito della procedura concorsuale) a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale” (Cass. n. 8674/2018).

La disciplina della prova dettata dal CCNL 8.6.2000 per la dirigenza non medica del servizio sanitario nazionale tiene conto di detta duplicità di piani e innanzitutto limita, all’art. 14, la necessità dell’esperimento ai “neo assunti nella qualifica di dirigente” ed a “coloro che, già dirigenti sanitari della stessa o altra azienda o ente del comparto, a seguito di pubblico concorso cambino area e disciplina di appartenenza”.

L’art. 13, inoltre, se, in linea generale, prevede che nel contratto individuale di lavoro debbano essere indicati “incarico conferito e relativa tipologia tra quelle indicate nell’art. 27, obiettivi generali da conseguire, durata dell’incarico stesso che è sempre a termine, modalità di effettuazione delle verifiche, valutazioni e soggetti deputati alle stesse”, per i dirigenti neo assunti precisa, al comma 10, che “il contratto individuale, decorso il periodo di prova, è integrato….con le ulteriori specificazioni concernenti l’incarico conferito ai sensi dell’art. 28”. A sua volta la clausola richiamata ribadisce che ai dirigenti del ruolo sanitario (comma 2) nonchè a quelli dei ruoli professionale, tecnico ed amministrativo (comma 5) l’incarico riconducibile ad una delle tipologie indicate nell’art. 27 è conferito solo una volta decorso il periodo di prova.

Dal complesso delle disposizioni sopra richiamate, quindi, si evince con chiarezza che l’esperimento, finalizzato a verificare l’idoneità dell’assunto ad assumere funzioni dirigenziali, precede il formale conferimento dell’incarico e prescinde dall’assegnazione di obiettivi, sicchè lo stesso si deve ritenere validamente effettuato ogniqualvolta al neo assunto vengano affidati compiti riconducibili alla qualifica rivestita.

A detti principi di diritto si è attenuta la Corte territoriale che, da un lato, ha escluso la necessità di ulteriori specificazioni.da inserire nel contratto individuale, dall’altro, esprimendo un giudizio di fatto incensurabile in questa sede, ha accertato che la P., assegnata al settore economico finanziario, era stata chiamata “ad assumere le responsabilità connesse al ruolo dirigenziale”, essendo “insita nel ruolo del dirigente la capacità di organizzare e coordinare lo staff”.

Una volta esclusa, per le ragioni sopra indicate, la fondatezza del secondo e del terzo motivo, resta assorbita la quarta censura, essendo irrilevante accertare se la nullità del patto di prova fosse stata o meno dedotta nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

12. Parimenti infondati sono il quinto ed il sesto motivo, giacchè la valutazione discrezionale che il datore di lavoro esprime sull’esito dell’esperimento non può essere in alcun modo assimilata a quella attinente la verifica dei risultati. La prima, infatti, è finalizzata a valutare l’idoneità del neo assunto ad assumere funzioni dirigenziali, l’altra il conseguimento di specifici obiettivi o risultati. Detta diversità esclude che possa essere ravvisato nella fattispecie un trattamento ingiustificatamente discriminatorio.

13. La Corte territoriale ha valutato la prova testimoniale e documentale ed ha evidenziato che il recesso risultava sorretto dalle ragioni esplicitate nella nota del 26.4.2001, che avevano trovato riscontro all’esito dell’istruttoria, dalla quale era emersa l’inefficienza della gestione dirigenziale.

Il settimo e l’ottavo motivo, con i quali si insiste sul carattere pretestuoso ed arbitrario della valutazione negativa, si risolvono in un’inammissibile critica dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello e sollecitano un giudizio di merito non consentito in sede di legittimità.

Al riguardo occorre ribadire che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, non applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza impugnata è stata pubblicata l’11 giugno 2012), non conferisce a questa Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, poichè il controllo di logicità del giudizio di fatto “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità” (Cass. n. 91/2014 e Cass. n. 25332/2014). Restano, quindi, riservate al giudice di merito la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione.

Questa Corte ha, poi, costantemente affermato che il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 42/2009 e fra le più recenti Cass. 23.5.2014 n. 11511).

Non sussiste, pertanto, il vizio di omessa pronuncia denunciato nell’ottavo motivo, perchè la violazione dell’art. 112 c.p.c.è ravvisabile solo qualora manchi “qualsivoglia statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, così dando luogo alla inesistenza di una decisione sul punto della controversia, per la mancanza di un provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, non potendo dipendere dall’omesso esame di un elemento di prova” (Cass. n. 7472/2017).

14. Parimenti non determina nullità della sentenza, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 4, l’omessa pronuncia sulle istanze istruttorie, denunciabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 13716/2016 e Cass. n. 24830/2017) ed a condizione che il ricorrente dimostri “sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia,senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove”.

E’, pertanto, inammissibile il nono motivo perchè, anche a voler prescindere dall’erronea formulazione della rubrica, la P. si è limitata a trascrivere le richieste istruttorie non esaminate, senza nulla dedurre sulla decisività delle prove non ammesse.

15. Una volta esclusa la fondatezza delle censure formulate avverso il capo della decisione che ha escluso la denunciata illegittimità del recesso, diviene inammissibile, per difetto di interesse, il primo motivo.

16. Inammissibile è anche l’unico motivo del ricorso incidentale proposto dal D. giacchè “a fronte della mancata liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza, anche emessa ex art. 429 c.p.c., sebbene in parte motiva il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte soccombente, la parte interessata deve fare ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 c.p.c. e ss. per ottenerne la quantificazione” (Cass. S.U. n. 16415/2018). Le Sezioni Unite di questa Corte hanno aggiunto che il principio è applicabile anche qualora sia già stato proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza viziata da errore materiale, perchè l’istanza di correzione deve essere proposta unicamente al giudice del merito.

17. In via conclusiva il ricorso principale deve essere rigettato, mentre quello incidentale va dichiarato inammissibile.

La reciproca soccombenza giustifica la parziale compensazione delle spese quanto al rapporto processuale fra la P. e il ricorrente incidentale, compensazione che, in ragione del valore delle domande rispettivamente proposte, va limitata ad un quarto. La quota residua, liquidata come da dispositivo, deve essere posta a carico della ricorrente principale, la quale va condannata anche a rifondere per intero le spese del giudizio di legittimità all’Azienda Ospedaliera, nei cui confronti è risultata totalmente soccombente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale.

Condanna P.G. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Papardo Piemonte, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Compensa fra le parti limitatamente ad un quarto le spese del giudizio di legittimità quanto al rapporto processuale con D.G. e condanna la ricorrente principale al pagamento della quota residua, liquidata in complessivi Euro 150,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2018

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