Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3284 del 11/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 11/02/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 11/02/2020), n.3284

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29833/2015 proposto da:

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato SOLDANO SANSONE;

– ricorrente –

contro

C.T., T.L., nella qualità di eredi di

T.V., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA SAN BERNARDO 101,

presso lo studio dell’avvocato AMELIA CUOMO, rappresentati e difesi

dall’avvocato ENZO RUSSO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 319/2015 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 14/10/2015, R.G.N. 567/2014.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Potenza, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda proposta da G.M. nei confronti di T.V., cui erano poi succeduti gli eredi T.L. e C.L., di condanna al pagamento della somma di Euro 28.290,00 oltre accessori in relazione al mancato pagamento di tre fatture emesse nell’ambito del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa intrattenuto col T. nel periodo 1995-2010 per due ore al giorno dal lunedì al sabato.

2. La Corte di merito, ritenuto ammissibile il gravame e confermata la natura di collaborazione coordinata e continuativa del rapporto intercorso tra la G. ed il T., ha poi accertato che non era stata offerta la prova del credito azionato osservando che le fatture, sebbene costituiscano un titolo idoneo per ottenere un decreto ingiuntivo, non costituiscono tuttavia prova del credito la cui esistenza deve essere altrimenti provata in giudizio. Ha quindi ritenuto che, in esito ad un esame critico del materiale probatorio raccolto, non fosse stata raggiunta una prova rassicurante dello svolgimento delle attività (elaborazione buste paga, predisposizione dei modelli 730, Red, Isee, Unico, 770) in relazione alle quali la G. aveva chiesto il pagamento delle somme azionate.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la G. che articola tre motivi ai quali resistono con controricorso T.L. e C.T..

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Con il primo motivo di ricorso G.M. deduce che, in violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il giudice di appello sarebbe pervenuto alla illogica conclusione di riconoscere da un canto l’esistenza di una collaborazione coordinata e continuativa durante il lungo periodo dal 1995 al 2010 mentre, dall’altro, ha escluso che vi fosse la prova dello svolgimento delle attività qualificanti che, invece, giustificavano la presenza giornaliera della G. per il tempo accertato presso lo studio del ragionier T..

5. Con il secondo motivo poi è denunciata la violazione ed errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere, sulla base delle dichiarazioni rese dai testi M., D. e B., diversamente dal Tribunale, escluso lo svolgimento dell’attività che richiedeva l’utilizzo di strumenti informatici dei quali il T. non sapeva fare uso ed in relazione alla quale era chiesto il compenso azionato.

6. Con il terzo motivo di ricorso, poi, la ricorrente deduce che in violazione degli artt. 1709 e 2225 c.c., la Corte di merito ha ritenuto che la G. avesse confermato anche per il triennio 20082010 il pagamento dei compensi per l’attività di elaborazione dei mod. 770 e Cud e non ha tenuto conto del fatto che, invece, il riconoscimento era limitato al periodo fino a tutto il 2007 ed era onere del T., che non vi aveva adempiuto, provare l’avvenuto pagamento delle prestazioni rese. Chiede pertanto la liquidazione equitativa del compenso almeno con riguardo a tale limitato periodo.

7. Le tre censure, da esaminare congiuntamente in quanto presuppongono tutte l’accertamento della qualità quantità e durata della prestazione resa, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

7.1. Inammissibili laddove pretendono una diversa valutazione del materiale probatorio e denunciano un vizio di motivazione configurato secondo uno schema non più applicabile. Come è noto l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. 29/10/2018 n. 27415). Per effetto della sua riformulazione la ricordata disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (cfr. Cass. Sez. U. 07/04/2014 n. 8053).

7.2. Nel caso in esame la ricorrente si duole della illogicità della motivazione per avere ritenuto esistente il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e contestualmente non provata la specifica attività. E tuttavia la motivazione non si espone al vizio denunciato attesi che non sussiste il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e non è perplessa ed obiettivamente incomprensibile la motivazione. La Corte territoriale ha infatti accertato che la presenza della lavoratrice per due ore al giorno era compatibile con lo svolgimento delle attività incontestatamente svolte dalla G. presso lo studio del T. ed una volta escluso in radice lo svolgimento delle attività per le quali era stato chiesto il pagamento di un compenso correttamente la Corte di merito ha omesso di accertare se vi era la prova del pagamento di compensi per titoli di cui ha escluso l’esistenza.

8. D’altro canto la censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può concretizzarsi nella erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma è ravvisabile solo ove si alleghi, e non è questo il caso, che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 17/01/2019 n. 1229 e Cass. Sez. n. 27000 del 27/12/2016).

8. La mancata prova dello svolgimento di mansioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle accertate esclude che possano trovare applicazione le disposizioni invocate nel terzo motivo di ricorso (artt. 1709 e 2225 c.c.) in base alle quali in tema di compenso per l’attività svolta dal professionista, il giudice, a fronte di risultanze processuali carenti sul “quantum” ed in difetto di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, assumendo l’omesso assolvimento di un onere probatorio in ordine alla misura del medesimo, ma deve determinarlo con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo con la natura, quantità e qualità delle prestazioni eseguite e con il risultato utile conseguito dal committente” (cfr. Cass. 24/04/2018 n. 10057 e 31/03/2014n. 7510).

9. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2020

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