Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32794 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. III, 13/12/2019, (ud. 17/10/2019, dep. 13/12/2019), n.32794

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6058/2018 proposto da:

A.L., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati

FIORELLO TATONE, PAOLO FORNAROLA;

– ricorrente –

contro

HDI ASSICURAZIONI SPA, in persona del procuratore speciale Dott.

M.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 49,

presso lo studio dell’avvocato SVEVA BERNARDINI, che la rappresenta

e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1105/2017 del TRIBUNALE di PESCARA, depositata

il 13/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/10/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

Fatto

RILEVATO

che:

A.L. agì per il risarcimento dei danni alla persona che aveva riportato mentre si trovava alla guida della propria autovettura Peugeot 206, che era stata tamponata da un veicolo Fiat Bravo di proprietà di P.A. e condotto da P.S.; a tal fine, convenne in giudizio, secondo la procedura del risarcimento diretto, la propria compagnia assicuratrice HDI Assicurazioni s.p.a., lamentando di avere riportato distorsione del rachide cervicale e richiedendo un risarcimento di 6.053,61 Euro, oltre rivalutazione monetaria e interessi dal giorno del sinistro;

la compagnia convenuta resistette alla domanda e versò all’attrice, a tacitazione del danno, la somma di 1.400,00 Euro, che venne trattenuta a titolo di acconto;

il Giudice di Pace di Pescara quantificò il danno in complessivi 1.464,90 Euro e, considerato tale importo sostanzialmente coincidente con quello versato dalla convenuta, rigettò la domanda compensando le spese di lite (eccezione fatta per quelle di c.t.u. che pose a carico dell’attrice);

provvedendo sul gravame della A., il Tribunale di Pescara ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite;

ha proposto ricorso per cassazione la A., affidandosi a cinque motivi; ha resistito, con controricorso, la HDI Assicurazioni s.p.a..

Diritto

CONSIDERATO

che:

il primo motivo denuncia la nullità della sentenza “per totale difetto di motivazione in merito alla esclusione del danno alla persona”, nonchè la violazione degli artt. 115,116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 191 c.p.c. “per avere omesso il Tribunale in sede di gravame di delibare sui motivi di appello, confermando supinamente il deliberato di prime cure mediante acritica asseverazione della consulenza d’ufficio, omettendo ogni valutazione circa i motivi di contestazione mossi dalla difesa attorea”;

il motivo è infondato, in quanto:

non sussiste carenza di motivazione sul danno alla persona e difetta – a monte – il presupposto dell’avvenuta esclusione di tale danno (che è stato accertato e liquidato in importo pari alla somma versata dall’assicurazione);

nè l’adesione – consapevole e motivata – alle conclusioni del c.t.u. appare idonea ad integrare la violazione delle norme di diritto individuate dalla ricorrente, dedotta in modo generico e con richiamo a elementi fattuali non valutabili in sede di legittimità;

peraltro, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non risulta dedotta in conformità ai parametri individuati da Cass., S.U. n. 16598/2016 e da Cass. n. 11892/2016: infatti, un’eventuale erronea valutazione del materiale istruttorio non determina, di per sè, la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che ricorre solo allorchè si deduca che il giudice di merito abbia posto alla base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso (valutandole secondo il suo prudente apprezzamento) delle prove legali oppure abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. n. 27000/2016);

col secondo motivo, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in quanto il Tribunale aveva “ritenuto uguale l’importo di 1.400,00 Euro offerto dalla compagnia HDI rispetto alla somma liquidata dal Giudice di Pace in Euro 1.464,90” e non aveva inoltre considerato che la somma degli importi indicati dal GdP ammontava a 1.494,90 Euro; denuncia altresì la violazione dell’art. 91 c.p.c., per avere il Tribunale erroneamente adottato la formula del rigetto dell’appello benchè fosse risultato dovuto un importo superiore a quello offerto dalla HDI Assicurazione, circostanza rilevante “anche per quanto afferisce la condanna alle spese di lite nel grado di appello e alla confermata compensazione decretata dal Giudice di Pace”;

lamenta, infine, l'”ulteriore violazione dell’art. 324 c.p.c. (…) in tema di non ravvisate preclusioni delibative derivanti da giudicato interno afferenti la declaratoria di ammissibilità della domanda attorea”;

il motivo – che cumula plurime censure – va disatteso, poichè:

la discrasia fra l’importo liquidato dal GdP e quello versato dalla assicuratrice non risulta utilmente denunciata sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo, a fronte dell’evidenza che il Tribunale ha tenuto conto dei due importi (cfr. pagg. 3 e 11 della sentenza), ritenendoli sostanzialmente equivalenti, con statuizione che non è stata adeguatamente censurata sul punto;

sul presupposto dell’avvenuto integrale risarcimento del danno, non appare erronea l’individuazione della soccombenza a carico della appellante e non risulta dunque integrata la violazione dell’art. 91 c.p.c.;

neppure è ravvisabile una violazione di giudicato interno, atteso che la ritenuta ammissibilità della domanda dell’attrice da parte del Giudice di Pace non ostava all’affermazione della sua infondatezza, nè – conseguentemente – alla condanna alle spese disposta a carico della A. in secondo grado;

il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., “per avere erroneamente il Tribunale escluso l’esistenza del danno morale e/o biologico a motivo degli esegui postumi riscontrati dal c.t.u.”, nonchè “vizio di motivazione rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere volutamente ricusato il Tribunale ogni risposta rispetto alle eccezioni e contestazioni sollevate da parte attrice alla consulenza d’ufficio (…) e per avere apoditticamente detta Curia determinato in termini quantitativi identici il danno patito dall’attrice facendolo combaciare con l’offerta fatta dalla compagnia assicuratrice”;

il motivo è – nel complesso – inammissibile, in quanto, senza individuare specificamente errori di diritto o un vizio di motivazione ancora rilevante ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, si risolve nella contestazione dell’importo ritenuto congruo, che viene svolta richiamando elementi istruttori (le deposizioni dei testi T. e I.) e reiterando la deduzione di supina adesione alle risultanze della c.t.u., in tal modo sollecitando una non consentita revisione del merito;

col quarto motivo, viene dedotta la violazione degli artt. 1223,1224 e 1226 c.c. e degli artt. 91,115,116 e 191 c.p.c., “per avere erroneamente il Tribunale, confermando la sentenza del GdP, escluso l’attribuzione degli interessi compensativi, nonchè il ristoro dei danni relativi alle spese borsuali mediche nonchè di quelle di c.t. di parte facendo riferimento a quanto statuito dal c.t.u.”;

la censura relativa al mancato rimborso delle spese è inammissibile, in quanto non censura specificamente l’assunto – sotteso alla decisione del Tribunale – della inadeguatezza della prova documentale relativa al ticket del Pronto Soccorso e al costo della relazione di c.t.p., nè investe l’ulteriore considerazione svolta dal Tribunale (“a prescindere dalla questione attinente all’insufficienza dei giustificativi di spesa”) in merito al fatto che – nel caso – era “certamente da escludere” che le spese fossero state rese necessarie da un illegittimo rifiuto del debitore;

quanto agli interessi compensativi, deve considerarsi che:

il Tribunale ha affermato – in termini generali – che “nel riconoscimento degli interessi non è configurabile alcun automatismo”, sia perchè il danno da ritardo non necessariamente sussiste sia perchè esso può essere già ricompreso nella somma liquidata in termini monetari attuali, rilevando che – nello specifico – gli interessi erano stati richiesti senza alcuna specificazione; ha pertanto concluso che, “liquidata la somma capitale in termini monetari dell’epoca, la mancanza di ogni deduzione ed elemento di prova a riguardo del pregiudizio che sarebbe stato subito per il mancato godimento nel tempo dell’equivalente in denaro del bene perduto, la richiesta, pura e semplice, correttamente risulta non essere stata presa in considerazione”;

l’assunto del Tribunale è conforme – in diritto – all’orientamento di legittimità secondo cui “nella obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, è possibile che la mera rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore il quale va posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo. In tal caso, è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Tale effetto dipende prevalentemente, dal rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non è normalmente configurabile. Ne consegue, per un verso che gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; per altro verso che non sia configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi” (Cass. n. 18564/2018; cfr. anche Cass. n. 22347/2007) e ciò “sia perchè il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste, sia perchè, di per sè, esso può essere comunque già ricompreso nella somma liquidata in termini monetari attuali” (Cass. n. 12452/2003);

tanto premesso, deve ritenersi che la censura sia inammissibile in quanto la ricorrente nulla ha specificamente dedotto circa il fatto che la somma liquidata in termini monetari “attuali” fosse inferiore a quella di cui avrebbe disposto se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo e, altresì, circa il fatto che il danno da ritardo non fosse già ricompreso nella somma liquidata all’attualità;

il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 91 e 96 c.p.c., “nonchè dei principi generali in materia anche avuto riguardo al comportamento tenuto dalle parti (art. 88 c.p.c.), in tema di mala gestio del sinistro e ciò per attribuzione a parte attrice di fatti calunniosi idonei a fuorviare l’orientamento decisionale della Curia adita, per dolosa causazione del giudizio e per altrettanto dolosa resistenza alla domanda attorea, per intempestività dell’offerta formulata medio tempore iudicii, offerta poscia rivelatasi inferiore rispetto alla cifra superiore liquidata”;

il motivo (di difficile lettura) è inammissibile, in quanto postula una soccombenza avversaria che è contraddetta dalla sentenza impugnata (che, per quanto detto finora, non è risultata utilmente censurata in questa sede) e lamenta la mancata condanna della assicuratrice per lite temeraria che non risulta evidentemente ipotizzabile in difetto di soccombenza;

le spese di lite seguono la soccombenza;

non sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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