Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32788 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. III, 13/12/2019, (ud. 09/10/2019, dep. 13/12/2019), n.32788

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10254/2018 proposto da:

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA

TORTOLINI 29, presso lo studio dell’avvocato VALERIA MARSANO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ARMANDO REGINA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA PUBBLICA DI SERVIZI ALLA PERSONA Z., in persona del

suo Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

AMITERNO 2, presso lo studio dell’avvocato ANGIOLETTO CALANDRINI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIACOMO PORCELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1751/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 08/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il ricorrente è cessionario di un credito che la Cooperativa Aldo Moro a.r.l. vantava nei confronti della Fondazione Dott. Z.V., poi Ipab, ora ASP.

La Cooperativa aveva ottenuto una sentenza di condanna della Fondazione al risarcimento dei danni da illegittima esclusione di una gara di appalto.

Il credito al risarcimento è stato riconosciuto con sentenza definitiva, e nel 2001, ceduto dalla Cooperativa al ricorrente.

Quest’ultimo, non avendo ricevuto spontaneo pagamento, ha ottenuto decreto ingiuntivo, a cui ha fatto opposizione la Fondazione, eccependo sin dall’inizio la nullità della cessione per violazione delle norme sulla contabilità pubblica, che impongono requisiti formali dell’atto.

La tesi della Fondazione è stata accolta sia in primo grado che in appello, dove è stata dichiarata l’inefficacia della cessione del credito nei confronti del debitore ceduto, proprio per difetto del requisito di forma imposto dalle norme di contabilità e successive modificazioni, ai fini della efficacia delle cessioni di credito vantate verso la pubblica amministrazione.

Il ricorrente censura questa decisione con un motivo di ricorso. V’è costituzione della Fondazione con controricorso, nonchè memorie di entrambe le parti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- La ratio della decisione impugnata è la seguente.

Secondo la corte, il R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3, come successivamente modificato, si applica ad ogni amministrazione pubblica, e dunque non soltanto alle amministrazioni statali (Stato e sue articolazioni). Il carattere pubblico della Fondazione è ricavabile da una serie di indici dedotti dallo statuto e dall’organigramma, nonchè dalle funzioni svolte dalla Fondazione stessa; quindi la norma (R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3) che impone la forma dell’atto pubblico o della scrittura autenticata si applica anche alla Fondazione in ragione della sua natura di ente pubblico (la corte di appello riconosce in questo ragionamento del giudice di primo grado un chiaro ed incontestabile sillogismo, p. 5).

Inoltre, la forma pubblica è imposta a pena di inefficacia, quale che sia il credito ceduto, e non solamente per i crediti derivanti da appalto pubblico.

2.- Il motivo di ricorso denuncia violazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, nonchè del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 11 e successive modificazioni.

Per meglio intendere il motivo giova ribadire che la corte di appello ha ritenuto applicabile il regime di contabilità pubblica alla cessione dei crediti in questione, argomentando dalla natura di ente pubblico della Fondazione, e dunque concludendo che, nel caso la cessione riguardi un credito vantato verso una pubblica amministrazione, deve rivestire, come previsto dalla suddetta normativa, la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata.

Con i motivi di appello, il ricorrente aveva sostenuto che la norma si applica solo nei casi in cui il debitore ceduto sia lo Stato o una amministrazione statale, e che invece la Fondazione non ha quella natura, bensì quella di ente pubblico territoriale.

La corte di merito ha risposto a questo motivo richiamando la motivazione del giudice di primo grado, ed osservando che sul punto, ossia sulla questione dell’ambito di applicazione della norma, vi sarebbe un contrasto di giurisprudenza, tra l’orientamento che limita la regola ai soli crediti vantati verso lo Stato o le sue articolazione, e la tesi, meno restrittiva, che invece ritiene applicabile la regola anche alle amministrazioni non statali, pur se locali.

La corte ritiene che correttamente il giudice di primo grado ha seguito la seconda soluzione, ossia la tesi che vuole applicabile la regola anche alle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato o sue articolazioni (p. 6).

Questa ratio è infondata e rende fondato il motivo di ricorso.

Va premesso che qui non è in discussione la natura pubblica della Fondazione, diventata, ad un certo punto, una IPAB (a seguito della legge Crispi del 1980), ossia Istituto per la Assistenza e la Beneficenza, e poi, con L.R. n. 15 del 2004, diventata ASP, con personalità di diritto pubblico.

La trasformazione in ASP, del resto, rende irrilevante la questione posta in passato, ed ancora oggi rispetto alle IPAB rimanenti, se siano enti pubblici o privati. E’ noto come l’accertamento della natura pubblica o privata della IPAB deve essere svolto in concreto, facendo ricorso ai criteri indicati dal D.P.C.M. 16 febbraio 1990, ricognitivo dei principi generali dell’ordinamento, e ritenuto legittimo dalla sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 1990 (Cass. Sez. U. 32727/ 2018).

Qui la natura di ente pubblico non è contestata neanche dallo stesso ricorrente. Ciò che costui contesta è che la normativa sulla forma della cessione del credito si applichi anche agli enti pubblici non statali.

Su questo punto il ricorso è fondato.

Invero la corte di merito richiama un contrasto di giurisprudenza relativo ad altri ambiti e comunque superato dall’orientamento più recente secondo cui: “Il R.D. n. 2440 del 1923, art. 69 – che richiede, per l’efficacia della cessione del credito di un privato nei confronti della P.A., che detta cessione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata da notaio e che il relativo atto sia notificato nelle forme di legge – è norma eccezionale che riguarda la sola amministrazione statale ed è pertanto insuscettibile di applicazione analogica o estensiva con riguardo ad amministrazioni diverse, sicchè esso non si applica neppure nei confronti delle aziende sanitarie locali che, sin dalla loro istituzione, sono enti pubblici estranei al novero delle amministrazioni statali” (Cass. 30658/2017).

L’orientamento restrittivo, ossia che limita l’applicazione della norma alle sole amministrazioni statali, è risalente a Cass. 17496/2008, seguita da Cass. 6038/2010 e Cass. 23273/2014.

Va però sgombrato il campo da un equivoco.

E’ vero che questa giurisprudenza, come è evidente costante, tranne la decisione n. 30658/2017, si riferisce ai contratti stipulati prima della L. n. 554 del 1999 e nel nostro caso invece il contratto di cessione è successivo a questa ultima legge (è del 2001); pur essendo vero, dunque, che la giurisprudenza in questione riguarda casi anteriori alla L. n. 554 del 1999, sugli appalti pubblici, la conclusione non cambia.

Invero, la L. n. 554 del 1999, non ha abrogato la disposizione del 1923, in quanto si riferisce ad un particolare e specifico tipo di crediti. La L. n. 554 del 1999, art. 115, poi modificata dal codice appalti (D.Lgs. n. 163 del 2006) nel comma 1 si riferisce, infatti, espressamente ai crediti vantati a titolo di corrispettivo di appalto.

E dunque introduce una speciale disciplina per questo tipo crediti, prevedendo altresì il perfezionamento della cessione alla mancata opposizione della pubblica amministrazione nel termine di 15 giorni dalla notifica, mentre per quelli avente fonte in atti diversi continua ad applicarsi la disciplina generale sulla contabilità pubblica e successive modificazioni, la quale, come abbiamo visto, attraverso la giurisprudenza sopra richiamata, si applica alle sole amministrazioni statali, con esclusione dunque di quelle aventi ambito territorialmente delimitato, come è nel caso delle ex IPab (regionali o infraregionali) oggi ASP.

La stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 131 del 2013) prende atto di questo differente ambito di disciplina a seconda che la cessione riguardi un credito da appalto, caso in cui si applica la L. n. 554 del 1999, poi modificata dalla L. n. 163 del 2006, ed il caso in cui il credito non deriva da appalto, ed allora si applica il regime della L. n. 2440 del 1923, il cui ambito, come si è visto, è limitato ai crediti verso lo Stato e le sue articolazioni.

Ed è pacifico che il credito ceduto non ha fonte in un appalto, ma in un atto illecito, ossia nell’illegittima esclusione della cedente da una gara per l’aggiudicazione dell’appalto.

Dove è evidente che altro è il danno per non aver concluso l’appalto, altro il credito che deriva dall’esecuzione del medesimo. Solo ai crediti aventi fonte nell’appalto si riferisce la L. n. 554 del 1999, art. 115, che al comma 1 fa riferimento espressamente alle “cessioni di crediti vantati nei confronti delle amministrazioni pubbliche a titolo di corrispettivo di appalto”.

Deve conseguentemente ritenersi che la ratio della decisione impugnata di ritenere applicabile la norma sulla contabilità pubblica (RD n. 2440 del 1923) anche agli enti territoriali, diversi dallo Stato o dalle sue articolazioni, è errata, e la sentenza va pertanto cassata, con accoglimento nel merito della domanda inizialmente proposta.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla corte di appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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