Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32781 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. III, 13/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 13/12/2019), n.32781

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17185/2018 proposto da:

P.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato ANTONELLA TOMASSINI;

– ricorrente –

contro

F.E., PA.AN., EDITORIALE II FATTO SPA in persona

dell’Amministratore Delegato legale rappresentante Dott.ssa

M.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA RODI 32, presso lo

studio dell’avvocato MARTINO UMBERTO CHIOCCI, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ALESSANDRA FLAMMINII MINUTO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 7594/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/09/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONELLA TOMASSINI;

udito l’Avvocato MARTINO CHIOCCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.A. ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 7594/17, del 1 dicembre 2017, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo il gravame proposto dalla società Editoriale “Il Fatto” S.p.a., da PA.AN. e da F.E., avverso la sentenza n. 9663/15, del 5 maggio 2015, del Tribunale di Roma – ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dal P. nei confronti di costoro, in relazione a danni da diffamazione a mezzo stampa dallo stesso lamentati.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver ricoperto, alla data del 4 settembre 2011 (nella sua qualità di ufficiale in servizio permanente effettivo della Marina Militare con il grado di Ammiraglio di squadra), l’incarico di consigliere militare dell’allora Presidente del Consiglio dei ministri e di avere, nel medesimo periodo, concorso alla nomina di Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.

Riferisce, altresì, che in quella stessa data, sul giornale “Il Fatto Quotidiano”, diretto da PA.AN., veniva pubblicato un articolo a firma del giornalista F.E. dal titolo: “I consigli preziosi dell’Ammiraglio P.”, con sottotitolo “(OMISSIS)”. Quale occhiello dello stesso articolo si leggeva: “(OMISSIS)”. Nel corpo dello stesso, inoltre, si riferiva di un colloquio telefonico – oggetto di intercettazione da parte dell’autorità giudiziaria – intercorso il 27 maggio 2011, per la durata di 13 minuti e 17 secondi, tra il predetto Ammiraglio P. e L.V., indicato dal quotidiano come un “moderno avventuriero internazionale”. Nel testo, tra l’altro, si leggeva: “(OMISSIS)”.

Avendo l’odierno ricorrente ritenuto l’articolo lesivo della propria reputazione (in particolare, laddove affermava che la “opacità” delle attività del L., “evidenti finanche ai normali lettori di giornali”, avrebbe dovuto essere “ancora più nitida per un altissimo ufficiale che ha accesso a notizie top secret”, ma soprattutto laddove riferiva che l’Ammiraglio rispose al L. mettendosi “a sua disposizione”), il medesimo conveniva in giudizio la società editrice del quotidiano, il direttore responsabile e l’articolista per conseguire il risarcimento dei danni, tra i quali includeva anche quello derivante dalla mancata nomina a Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.

In particolare, l’allora attore lamentava che il proprio nome fosse stato “inserito – in modo del tutto ingiustificato e non rispondente al vero – in un contesto di malaffare cui facevano riferimento gravissimi fatti oggetto di indagini penali ed intercettazioni telefoniche”, così “inducendo manifestamente il lettore a ritenere che l’Ammiraglio P. vi fosse direttamente coinvolto e partecipe”.

Ciò premesso, la domanda risarcitoria veniva accolta dal giudice di prime cure, anche sul presupposto che l’articolo avesse riferito direttamente all’odierno ricorrente la qualifica di “avventuriero internazionale”.

Proposto, tuttavia, gravame dai convenuti soccombenti, la Corte capitolina, in totale riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda risarcitoria.

3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il P., sulla base di un unico motivo, sebbene articolato in due censure.

3.1. Il motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – ipotizza violazione e falsa applicazione “del diritto di cronaca e di critica con efficacia scriminante, ai sensi dell’art. 21 Cost., e della L. 8 febbraio 1948, n. 47”, oltre che “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, costituito dalla mancata considerazione di taluni documenti presenti nel fascicolo dell’odierno ricorrente, dai quali si desumerebbe “la prova del contesto strettamente istituzionale nell’ambito del quale venne raccolta la telefonata del 27 maggio 2011”.

Si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che l’articolo abbia svolto un commento del tutto legittimo a fatti assolutamente veri, costituiti dalla conversazione telefonica del 27 maggio 2011 tra l’ammiraglio P. e il L., “pertinente a tematica di pubblico interesse e riportata con toni continenti”.

Per contro, secondo il ricorrente, sarebbero stati violati i principi che disciplinano il diritto di cronaca e critica giornalistica. Difatti, la pubblicazione dedotta in giudizio non si sarebbe limitata “a rimproverare all’Ammiraglio P. il semplice fatto di essersi intrattenuto con un “avventuriero” dalle attività opache”, ma sarebbe “andata ben oltre, attribuendogli chiaramente – nel descritto contesto di “ricatti” e “raccomandazioni” per il business a Panama – un “ruolo” che l’esponente non ha mai avuto, asseritamente consistente, tra l’altro, nel dare preziosi consigli, nel mettersi a disposizione”, ciò essendo, secondo il ricorrente, quanto “nettamente percepito dal lettore”.

Evidenzia, al riguardo, l’odierno ricorrente che se l’attività di critica presenta natura eminentemente valutativa, non richiedendosi, pertanto, che essa sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, resta inteso, nondimeno, che il nucleo e il profilo essenziale di questi non debbano essere strumentalmente travisati o manipolati. Una notizia, infatti, può essere falsa – evidenzia il ricorrente – qualora, pur avendo in sè un nucleo di verità, sia rappresentata in maniera incompleta, attraverso il ritaglio di elementi che caratterizzano e individuano il fatto, ovvero attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori.

Orbene, un travisamento e una manipolazione siffatta ricorrerebbero nel caso di specie, ciò di cui la Corte d’Appello non si sarebbe avveduta, soprattutto mancando di considerare che la telefonata del 27 maggio 2011, come documentato, si sarebbe verificata nell’ambito di un contesto strettamente istituzionale, ciò che rendeva impossibile attribuire una condotta attiva e pienamente partecipe all’Ammiraglio P. nelle attività opache del L..

Per un verso, infatti, la sentenza impugnata avrebbe mancato di considerare che l’Ammiraglio P. ebbe ad incontrare, il 10 marzo del 2011, il Viceministro della sicurezza pubblica della Repubblica di (OMISSIS), il quale ebbe a presentargli una persona, qualificatasi come l’Avvocato L., indicata come persona di totale fiducia e referente, in Italia, del governo panamense. La sentenza impugnata, inoltre, avrebbe ignorato che in occasione di detto incontro i temi trattati riguardarono esclusivamente la cessione di alcune motovedette, secondo la previsione di cui al D.L. 29 dicembre 2010, n. 228, non avendo l’Ammiraglio P. avuto parte alcuna nella preparazione dell’accordo commerciale e della visita del Presidente del Consiglio italiano a (OMISSIS). L’omessa valutazione di tali elementi, sebbene provati sul piano documentale, avrebbe portato, pertanto, la Corte capitolina ad incorrere in un errore di giudizio, consistito nel ritenere la pubblicazione in oggetto scriminata dal diritto di cronaca e critica. Per contro, risulterebbe palese secondo il ricorrente – che sono stati “nettamente e inequivocabilmente travalicati” i limiti imposti perchè tale scriminante possa trovare applicazione.

4. Hanno resistito all’avversaria impugnazione la società Editoriale “Il Fatto”, il Pa. e il F..

Essi eccepiscono, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso, giacchè lo stesso si risolverebbe in un tentativo di sollecitare una nuova valutazione e un nuovo apprezzamento dei fatti e delle prove, in senso difforme da quello operato dalla Corte territoriale, e tra l’altro senza che neppure il P. abbia inteso riproporre la propria versione dei fatti in appello, ex art. 346 c.p.c., se non attraverso la (tardiva) costituzione, tre giorni prima dell’udienza di discussione del gravame.

In ogni caso, il ricorso sarebbe anche non fondato, non potendo dubitarsi della sussistenza dei presupposti per l’operatività dell’esimente del diritto di critica; innanzitutto, in ragione del fatto che in nessuna parte dell’articolo si afferma o si nega il carattere extraistituzionale del contatto tra il P. e il L.. In secondo luogo, perchè il contesto del colloquio non avrebbe alcuna rilevanza, atteso che, come osservato dalla sentenza impugnata, il giudizio critico espresso dal giornalista verte sul fatto che un personaggio come il L. (un “avventuriero internazionale”) potesse “avere accesso diretto alle stanze del potere, contattando direttamente un alto ufficiale”.

Infine, quanto al supposto vizio di omesso esame di documenti, si rileva come lo stesso possa essere denunciato per cassazione solo ove determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia, evenienza da escludersi nel caso di specie.

5. Il ricorrente ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando alle eccezioni e difese avversarie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. In particolare, la censura di violazione di legge – la prima, delle due in cui si sostanzia l’unitario motivo di impugnazione – non è fondata.

6.1.1. Al riguardo, deve muoversi dal rilievo che costituisce consolidato principio quello secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01).

Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è dunque limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonchè al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), applicabile ratione temporis”, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.).

Se, dunque, il sindacato sulla congruità della motivazione va condotto alla stregua del testo, “ratione temporis” applicabile, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve, allora, constatarsi come quello “novellato” – operante rispetto alla presente fattispecie -dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, limiti il sindacato di questa Corte sulla parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2018, n. 12096, Rv. 648978-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Nessuna delle evenienze descritte – “irriducibile contraddittorietà”, ovvero, “perplessità e incomprensibilità” delle argomentazioni poste a fondamento del “decisum” – risulta ricorrere nel caso di specie.

La Corte capitolina – con apprezzamento fattuale non sindacabile in questa sede – ha ritenuto, infatti, rispettati i criteri suddetti (verità del fatto, interesse pubblico alla diffusione della notizia e continenza formale), sulla base di motivazione del tutto intellegibile, avendo qualificato quello operato dall’articolo giornalistico in esame come “un commento del tutto legittimo a fatti assolutamente veri” (vale a dire la “conversazione telefonica del 27 maggio 2011 tra l’Ammiraglio ed il L.”), mostrando di condividere l’assunto degli allora appellanti, secondo cui “il giudizio critico espresso nell’articolo all’indirizzo dell’Ammiraglio” si basava unicamente sul fatto “che un personaggio come il L.”, noto alle cronache per il suo coinvolgimento in numerose inchieste giudiziarie, potesse avere “accesso diretto alle “stanze del potere”, contattando direttamente un alto Ufficiale”, addirittura “intrattenendolo in un lungo colloquio telefonico”.

6.2. Inammissibile è invece la seconda censura, ovvero quella formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

6.2.1. Essa lamenta, come detto, il supposto “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, costituito, nella specie, dalla mancata considerazione di taluni documenti presenti nel fascicolo dell’odierno ricorrente, dai quali si desumerebbe “la prova del contesto strettamente istituzionale nell’ambito del quale venne raccolta la telefonata del 27 maggio 2011”.

L’esito dell’inammissibilità discende, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), dalla constatazione che il ricorrente non si doveva limitare a dedurre quale fosse il fatto “omesso” (nella specie, il contesto “istituzionale” di quel colloquio telefonico), e con esso il “dato” testuale o extratestuale da cui risulterebbe esistente, ma anche – ciò che non consta, invece, essere avvenuto – il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale (cfr., Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01) e, soprattutto, il suo essere “decisivo”, vale a dire “idoneo a determinare un esito diverso della controversia” (Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01). Un’evenienza, quest’ultima, da ravvisare – in presenza di una fattispecie, come quella che qui occupa, in cui il fatto in questione risulti da documenti del quale il giudice avrebbe omesso l’esame – solo quando il fatto ignorato offra “la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. Sez. 3, ord. 26 giugno 2018, n. 16812, Rv. 649421-01).

In particolare, una dimostrazione siffatta non può ritenersi raggiunta – anzi, neppure allegata – nel caso di specie.

Difatti, quand’anche il giudice di appello avesse preso atto del “contesto istituzionale” del colloquio tra il P. e il L. circostanza, peraltro, non affermata, ma invero neppure negata, dalla decisione impugnata (e, ancor prima, dallo stesso articolo di stampa) – non si vede come tale “fatto” potesse influire sulla valutazione di liceità, formulata dalla Corte capitolina, dell’opinione critica espressa nell’articolo, essendo basata, esclusivamente, sul rilievo che lo scritto giornalistico era solo teso a stigmatizzare il fatto che un soggetto come il L., qualificato come “avventuriero internazionale”, potesse “avere accesso diretto alle “stanze del potere””, e dunque credito presso chi, come il P., risultava insignito di un rilevante incarico istituzionale. In altri termini, il contesto istituzionale – o meno – del colloquio nulla toglieva alla valutazione critica di quella interlocuzione espressa nella pubblicazione oggetto di causa, e, dunque, rispetto al giudizio di liceità della stessa, espresso dalla Corte capitolina ai sensi dell’art. 51 c.p., e art. 21 Cost..

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.

8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, in ragione del rigetto del ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando P.A. a rifondere alle società Editoriale “Il Fatto” S.p.a., PA.AN. ed F.E. le spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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