Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32732 del 18/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 18/12/2018, (ud. 20/11/2018, dep. 18/12/2018), n.32732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8529-2018 proposto da:

J.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMO N. 144,

presso lo studio legale e commerciale SORRENTINOE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE DI MEO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4016/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 04/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/11/2018 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

TERRUSI.

Fatto

RILEVATO

che:

J.M., gambiano, ha proposto ricorso per cassazione, in tre motivi, contro la sentenza con la quale la corte d’appello di Napoli, rigettandone il gravame, ha confermato il diniego della protezione internazionale e di quella umanitaria;

il Ministero dell’Interno ha replicato con controricorso;

il ricorrente ha depositato una memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,8,10 e 11 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, oltre al vizio di motivazione, poichè la corte d’appello avrebbe escluso la credibilità soggettiva con motivazione solo apparente, riportandosi pedissequamente alle statuizioni del giudice di primo grado e senza svolgere indagini sulle effettive condizioni del paese di origine, nè disponendo l’interpello della parte; in tal modo vi sarebbe stata un’errata valutazione delle condizioni di persecuzione, nonostante l’attenuazione dell’onere probatorio di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3;

con secondo mezzo è dedotta la violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 4, 14, lett. c) e art. 16 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, oltre al vizio di motivazione, per non avere la corte territoriale compiuto un valido accertamento sulle attuali condizioni generali del paese di provenienza, al fine di valutare la sussistenza del grave danno di cui all’art. 14, lett. c) cit., e delle altre condizioni di cui alle lett. a) e b);

col terzo mezzo si censura la sentenza per violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, oltre che per vizio di motivazione, poichè non sarebbe stata evidenziata una valida ragione di rigetto della residuale domanda di protezione umanitaria;

il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati unitariamente, è inammissibile;

si evince dalla sentenza che il ricorrente aveva riferito di essere emigrato in Senegal nel 2012 poichè in precedenza arrestato per il danneggiamento colposo di un traliccio dell’energia elettrica;

stando al racconto, dopo un mese di detenzione egli era stato liberato a seguito del pagamento di una cauzione;

attesi non meglio precisati maltrattamenti subiti a opera della polizia durante il correlato obbligo di firma, aveva lasciato il paese recandosi prima in Senegal e poi in Libia, e da qui era fuggito per la guerra civile in corso;

ora, in premessa rispetto a ogni valutazione, la corte d’appello ha affermato che le incongruenze del racconto del richiedente, già evidenziate dal giudice di primo grado, non erano state adeguatamente contestate con l’atto di appello;

dopodichè ha ritenuto irrilevanti i profili riguardanti il delitto colposo comune profilato a base del racconto, poichè il richiedente non aveva saputo o voluto indicare il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge gambiana, onde potersene inferire il grado di proporzione o la natura inumana o degradante, e niente aveva riferito in ordine all’evoluzione dell’eventuale processo penale; da qui la conclusione che l’impugnante per libera scelta, e per trovare fortuna altrove, aveva lasciato il suo paese;

in consecuzione la corte d’appello ha esaminato la situazione del Gambia, reputandola proiettata verso la stabilizzazione ed escludendone la natura di paese “insicuro”, e ha escluso che le allegate condizioni psicologiche del richiedente fossero giustificative della protezione umanitaria, poichè riferite come conseguenti a maltrattamenti subiti non nel paese di origine (il Gambia), nel quale fare ritorno, ma in Libia;

il ricorrente non ha svolto censure contro la prima affermazione della corte territoriale, implicante il difetto di contestazione, mediante l’appello, della valutazione di incongruenza e dunque di inaffidabilità – del racconto posto a base della richiesta di protezione; e in ogni caso non ha circostanziato il ricorso in modo tale da consentirne di apprezzare la specificità di quanto in effetti era stato dedotto;

occorre considerare che, in tema di protezione internazionale, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente, da svolgersi alla stregua dei criteri stabiliti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, è di primaria rilevanza, e postula nei fatti allegati i carattere della precisione, gravità e concordanza (Cass. n. 14157-16);

difatti questa Corte ha affermato che, dovendo l’accertamento del giudice di merito innanzi tutto avere a oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (v. Cass. n. 16925-18);

con la surriferita osservazione, la corte d’appello di Napoli ha, nel caso di specie, dato atto della valutazione di incongruenza – e dunque di inaffidabilità – dei fatti come riferiti dal richiedente in ordine alle ragioni dell’espatrio, e ha precisato che tali incongruenze, sottolineate dal giudice di prime cure, non erano state contestate in appello;

ne consegue che la circostanza che con l’odierno ricorso questa specifica ratio decidendi (v. Cass. n. 21668-15) non sia stata oggetto di censura rende vano, e comunque non proficuo, ogni ulteriore motivo di ricorso, sia esso relativo alla protezione internazionale, sia esso relativo alla protezione umanitaria;

un’ulteriore ragione di inammissibilità mina la censura afferente alla protezione umanitaria; e tanto consente di mantenere in disparte ogni questione circa il sopravvenuto D.L. n. 113 del 2018;

la corte d’appello ha evidenziato l’inconsistenza, a proposito di tale forma di protezione, della condizione psicologica allegata, che in base alla postulazione era da riferire a vicende avvenute non in Gambia (paese natio), sebbene in Libia (paese di semplice transito); rispetto a simile affermazione la terza censura reputa del tutto trascurabile la possibilità di relazionare la condizione di vulnerabilità a vicenda occorse nell’uno o nell’altro paese;

da questo punto di vista la censura non appare tuttavia concludente; in particolare non risulta dal ricorso che sia stata specificata la consistenza della situazione di disagio psicologico, così da connotarla in termini di patologia nel contesto di una valutazione di concreta vulnerabilità su basi attuali;

nel resto la censura si palesa genericamente incentrata sul percorso di integrazione sociale instaurato in Italia, senza alcun riguardo, però, in tal caso, a ciò che il giudice del merito ha rappresentato quanto alla situazione comparativamente declinata, che non atterrebbe al paese d’origine;

le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.100,00, oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2018

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