Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32725 del 18/12/2018

Cassazione civile sez. un., 18/12/2018, (ud. 11/09/2018, dep. 18/12/2018), n.32725

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente di Sezione –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sezione –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9074/2018 proposto da:

T.V.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PRATI

FISCALI 258, presso lo studio dell’avvocato PIERGIORGIO BERARDI,

rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA CREMONESI, in uno alla

medesima;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LODI, PROCURATORE GENERALE

PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 154/2017 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 6/11/2017;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11/09/2018 dal Consigliere LINA RUBINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’inammissibilità

del ricorso;

uditi gli avvocati T.V.D. e Piergiorgio Berardi per

delega dell’avvocato Luca Cremonesi.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

1. L’avv. T.V.D., incaricata dal collega avv. To. di recuperare un credito di questi nei confronti della sig. D.T., veniva sottoposta nel 2013 a procedimento disciplinare d’ufficio dal COA di (OMISSIS), per violazione dei canoni comportamentali di cui agli artt. 6 e 48 del codice deontologico forense (d’ora innanzi, CDF) in quanto, nell’ambito della documentazione allegata a un esposto presentato dalla D. nei confronti dell’Avv. To., il Consiglio rinveniva una missiva a firma dell’avv. T., indirizzata al padre dell’esponente, in cui l’avv. T., scrivendo in nome e per conto dell’Avv. To., affermava che le dichiarazioni rese dal padre della D. all’Ufficiale Giudiziario (recatosi presso la di lui abitazione per eseguire un pignoramento mobiliare sui beni della figlia) circa il fatto che la figlia si fosse trasferita a Monza presso un amico non corrispondessero al vero e integrassero pertanto il reato di cui all’art. 495 c.p., e concludeva la lettera invitando il D. a mettersi in contatto con la mittente per regolare la posizione debitoria della figlia, affermando che – in mancanza – avrebbe provveduto a denunciare il destinatario all’Autorità Giudiziaria competente.

Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’avv. T. osservò che il D. non potesse ritenersi estraneo al rapporto intercorrente tra la figlia e l’avv. To., in quanto il suo comportamento connivente e mendace lo aveva reso a sua volta personalmente obbligato nei confronti dell’assistito, e quindi destinatario diretto di una richiesta risarcitoria; e che con la missiva contestata avesse semplicemente invitato il D. a fare da tramite con sua figlia affinchè ella saldasse il proprio debito, ovvero a risarcire egli stesso il danno patito dall’Avv. To..

2. All’esito del procedimento disciplinare di primo grado, il COA di (OMISSIS) ritenne sussistente la violazione delle menzionate norme deontologiche, condannando la T. alla sanzione disciplinare della censura.

3. Contro la decisione del COA di (OMISSIS) la T. propose ricorso al Consiglio Nazionale Forense.

4. All’esito del procedimento disciplinare di secondo grado, il CNF con motivazione che l’odierna ricorrente sostiene essere formalmente e sostanzialmente identica a quella dell’organo disciplinare di primo grado, confermò la sanzione disciplinare della censura irrogata dal COA di (OMISSIS).

Individuò l’illiceità della condotta dell’incolpata anzitutto nell’aver coinvolto nella vicenda de qua il D., padre della presunta debitrice e dunque terzo estraneo al rapporto intercorrente tra la figlia e il proprio assistito, esercitando sullo stesso indebite pressioni, consistenti nel minacciare l’assunzione di iniziative giudiziali penali in caso di mancato saldo del debito della D. verso l’avv. To., non giustificate nè scriminate dal dovere di fedeltà verso il Cliente. La decisione impugnata affermò che l’eventuale illecito commesso dal D., consistente in false dichiarazioni rese all’ufficiale giudiziario, avrebbe potuto generare un’autonoma e personale obbligazione risarcitoria in virtù della condotta illecita, ma non l’accollo del debito della figlia. Confermò quindi la sanzione della censura sulla base della violazione da parte della T. dei canoni comportamentali di cui agli artt. 6 e 48 di cui al precedente codice deontologico (oggi art. 65), confermando la sanzione della censura per l’oggettiva gravità del fatto.

5. Contro la decisione del CNF n. 154/2017, depositata il 06.11.2017, propone ricorso per cassazione, con un unico motivo illustrato da memoria, l’avv. T.V.D..

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, la ricorrente rappresenta che la decisione del CNF, depositata il 6 novembre 2017, le veniva notificata in data 30.11.2017 presso il suo domiciliatario, Avv. Berardi, il quale tuttavia nulla comunicava a tale riguardo all’odierna ricorrente; solo in data 29.12.2017 (ad un giorno soltanto dalla scadenza del termine di 30 giorni a decorrere dalla notificazione per proporre ricorso per Cassazione in relazione ai provvedimenti disciplinari nei confronti degli avvocati, fissato dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, comma 3), l’avv. T. riusciva ad avere materiale disponibilità della decisione del CNF.

A termine ormai scaduto, in data 12.1.2018, la T. (che non aveva ancora, a quella data, notificato nè iscritto a ruolo il ricorso) presentava istanza di rimessione in termini; il Primo Presidente, con provvedimento del 1 marzo 2018 comunicato il 2 marzo, dichiarava il non luogo a provvedere sulla predetta istanza, individuando nel Collegio della Suprema Corte, investito dell’esame del ricorso eventualmente proposto, l’autorità giudiziale competente a pronunciarsi sulla ricorrenza, o meno, della causa non imputabile atta a giustificare, ex art. 153 c.p.c., comma 2, la proposizione della impugnazione benchè tardiva.

In data 21 marzo 2018, l’avv. T. provvedeva a notificare il ricorso al Procuratore generale preso la Corte di cassazione e al Consiglio dell’ordine degli Avvocati di (OMISSIS).

Sulla base di questa sequenza cronologica di avvenimenti, l’odierna ricorrente chiede, preliminarmente, di essere rimessa in termini e, conseguentemente, che il presente ricorso sia ritenuto ammissibile, per essere la medesima, senza sua colpa, venuta tardivamente a conoscenza della decisione del CNF, oggetto della presente impugnazione.

Unitamente alla memoria, la ricorrente produce due certificati medici dai quali assume si deduca che il suo domiciliatario, nel periodo in cui ricevette la notifica del provvedimento impugnato, versava in una condizione di salute gravemente compromessa, e quindi che non fu in grado, per ragioni non imputabili alla ricorrente, di comunicarle tempestivamente l’esito negativo della impugnazione, mentre poi, appena migliorato, si premurò di informarla.

I rilievi della ricorrente non sono meritevoli di accoglimento.

Alla luce dell’art. 153 c.p.c., comma 2, che ha introdotto, per i giudizi iniziati dal 4 luglio 2009 in poi, la generale facoltà per la parte, che dimostri di essere incorsa in decadenze per cause ad essa non imputabile, di chiedere al giudice di essere rimessa in termini, anche in riferimento ai termini perentori (in quanto l’art. 153 c.p.c. disciplina appunto i termini perentori, laddove la previsione precedente, inserita nell’art. 184 bis c.p.c., sembrava far riferimento per la sua collocazione nel capo dedicato all’istruzione della causa, solo alle decadenze dallo svolgimento di attività istruttorie), l’istanza di rimessione in termini riferita ad un termine per proporre impugnazione deve ritenersi ammissibile.

Può aggiungersi che già prima del mutamento normativo intervenuto era peraltro maturato nella giurisprudenza di questa Corte il superamento della posizione volta ad escludere l’utilizzabilità dell’istituto della rimessione in termini in relazione alla facoltà di proporre impugnazioni, regolata da termini perentori (nel senso della inammissibilità della restituzione nel termine per impugnare la sanzione irrogata nel procedimento disciplinare a carico di avvocati, non essendo contemplata dall’ordinamento professionale forense alcuna ipotesi di proroga del termine per impugnare le decisioni in materia disciplinare, v. Cass. n. 17002 del 2006). Si era pervenuti a ritenere ammissibile l’istanza di rimessione in termini in riferimento alla decadenza dalla facoltà di proporre impugnazione per incolpevole decorso del termine per impugnare alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dello stesso art. 184 bis c.p.c., maggiormente rispettosa dei principi costituzionali di effettività del contraddittorio e delle garanzie difensive (v. Cass. n. 177704 del 2010). Di conseguenza, la Corte ha più volte in precedenza affermato che l’istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 184 bis c.p.c., abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, e sostituito dalla generale previsione di cui all’art. 153 c.p.c., comma 2, trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Cass. n. 5946 del 2017; Cass. n. 3277 del 2012).

Ciò premesso quanto all’ammissibilità dell’istanza, va però aggiunto che la rimessione in termini, sia nella norma dettata dall’art. 184 bis c.p.c., che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153 c.p.c., comma 2, come novellato dalla L. n. 69 del 2009, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perchè cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà (in questo senso, tra le tante, Cass. n. 17729 2018).

L’istanza di rimessione in termini proposta dall’avv. T., pur ammissibile, è nondimeno infondata, in quanto la malattia del procuratore non rileva di per sè come legittimo impedimento (in tal senso Cass. n. 12544 del 2015, Cass. n. 14586 del 2005). Nel caso di specie, poi, non è stato neppure allegato un malessere improvviso o un totale impedimento a svolgere l’attività professionale, ma piuttosto uno stato di salute non ottimale, unito ad astenia, a fronte del quale il professionista avrebbe dovuto e potuto organizzarsi affinchè le attività ordinarie (come quella di informare i clienti sull’esito dei giudizi in corso e sulle notifiche ricevute di atti ad essi relativi) potessero svolgersi senza interruzioni.

A ciò si aggiunga che la ricorrente stessa dichiara di essere stata portata a conoscenza dell’esistenza dell’atto da impugnare dal suo procuratore il giorno prima della scadenza del termine: venuta a conoscenza dell’atto da avrebbe avuto comunque l’obbligo di attivarsi senza indugio, provvedendo a depositare quanto meno l’istanza nel termine per proporre impugnazione. La stessa istanza, non preceduta dalla notifica del ricorso, è stata presentata invece a termine per la notifica tempestiva dell’impugnazione ormai ampiamente scaduto, in dispregio del principio generale che impone di attivarsi con immediatezza e, comunque, entro un termine ragionevole per la ripresa di un procedimento non andato a buon fine (principio più volte richiamato ai fini dell’utile ripresa del procedimento notificatorio: da ultimo v. Cass. n. 20700 del 2018, Cass. n. 16943 del 2018; Cass. n. 15056 del 2018).

Anche ai fini della fruizione di un eventuale provvedimento di rimessione in termini è richiesta infatti la tempestività dell’iniziativa della parte, da intendere come immediatezza della reazione al palesarsi della necessità di svolgere un’attività processuale ormai preclusa (Cass. n.19290 del 2016).

La ricorrente propone poi altra questione, idonea anch’essa ad incidere sull’ammissibilità del ricorso. Deduce infatti che la decisione del CNF avrebbe dovuto essere notificata direttamente all’interessata (e non al suo avvocato) per via telematica al suo indirizzo PEC, dovendo la notifica presso il pur eletto domicilio fisico all’indirizzo del domiciliatario effettuarsi solo nel caso in cui la notifica all’indirizzo PEC dell’odierna ricorrente fosse risultata impossibile per causa alla medesima non imputabile. La notifica del provvedimento presso il domicilio eletto non sarebbe stata idonea, nella ricostruzione della ricorrente, a far decorrere il termine perentorio per proporre l’impugnazione previsto dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, comma 3.

Il rilievo è infondato: anche nel procedimento disciplinare, qualora il professionista incolpato decida di non difendersi personalmente ma di farsi assistere da un altro avvocato, eleggendo domicilio presso il medesimo o presso un terzo avvocato, il provvedimento conclusivo deve essere notificato alla parte presso l’avvocato domiciliatario, secondo le regole ordinarie, e non direttamente alla parte.

Il ricorso è pertanto inammissibile in quanto tardivo, e ciò esime dal dover esaminare, e finanche dal dover riportare, il contenuto del motivo di ricorso.

Nulla sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensive in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2018

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