Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3272 del 10/02/2021

Cassazione civile sez. I, 10/02/2021, (ud. 29/10/2020, dep. 10/02/2021), n.3272

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 16590/2018 proposto da:

Ferrovienord S.p.a., nella persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso

per cassazione, dall’Avv. Giuseppe Giannì, del Foro di Milano e dal

Prof. Avv. Gennaro Terracciano, del Foro di Roma, anche tra loro

disgiuntamente, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del

secondo in Roma, Piazza San Bernardo, n. 101.

– ricorrente –

contro

B.G., in proprio e quale procuratrice della sorella

B.A., giusta procura Notaio D.G., n. rep. (OMISSIS),

rappresentata e difesa, per delega in calce ai controricorso, dagli

Avv.ti Carlo Luigi Scrosati, e Annarosa Corselli, ed elettivamente

domiciliati in Roma, Viale Parioli, n. 55, presso lo studio

dell’Avv. Giovanni Carta.

– controricorrenti –

Comune di Turbigo, nella persona del legale rappresentante pro

tempore.

Regione Lombardia, nella persona del legale rappresentante pro

tempore.

– intimati –

avverso la sentenza n. 4982/2017 della Corte di appello di MILANO,

pubblicata in data 28 novembre 2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/10/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.

NARDECCHIA Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo, assorbiti gli atri;

udito, per la parte ricorrente, l’Avv. Gennaro Terracciano che si è

riportato agli atti depositati.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Ferrovienord S.p.a., nella persona del legale rappresentante pro tempore, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 28 novembre 2017, che aveva determinato l’indennità definitiva di esproprio in complessivi Euro 546.292,30, oltre interessi di legge dal 13 dicembre 2010, giorno dell’espropriazione, sino al soddisfo e in Euro 49.318,05 l’indennità di occupazione per l’espropriazione dell’area sita nel comune di (OMISSIS), terreno iscritto in catasto al mappale (OMISSIS) e (OMISSIS) del foglio (OMISSIS) del Comune di Turbigo, mappale 803 al momento della CTU, per complessivi 928 m2 catastali.

2. La Corte di appello di Milano, dopo avere disposto consulenza tecnica d’ufficio e richiamato i principi di diritto individuati dalla sentenza della Corte di Cassazione, n. 14187/16 del 12 luglio 2016, ha ritenuto che le quantificazioni effettate dal consulente d’ufficio erano rispettose dei principi affermati dalla Corte di cassazione e specificamente che: il consulente aveva messo in evidenza il giorno di riferimento valutato ai fini del calcolo del valore venale del bene affermando che l’epoca di riferimento per la stima del valore venale dell’area corrispondeva al dicembre 2010, alla data del decreto di esproprio (13 dicembre 2010); il consulente aveva considerato, ai fini della quantificazione, tutti gli elementi individuati in modo esemplificativo dalla Cassazione, per calcolare concretamente il valore di mercato dell’area, riportando i principali passaggi di calcolo adottati e i valori assunti nell’applicazione della stima basata sul procedimento del valore di trasformazione; il consulente aveva valutato la potenzialità edificatoria del terreno espropriato facendo riferimento alla volumetria prevista per l’area, classificata dal PRG come “Zona A2 – Edifici e aree di valore storico ambientale” e che la stessa consulenza tecnica di parte aveva fatto riferimento a una volumetria di 5.048 metri cubi, assegnando all’area la stessa metratura disposta dalla strumento urbanistico; il consulente d’ufficio aveva assunto a base della stima la volumetria assegnata dallo strumento urbanistico vigente, ai sensi dell’art. 37 del TU espropri e non già dell’art. 38 dello stesso TU espropri, e non rilevava il fatto che il piano attuativo in questione non fosse stato concretamente attuato stante che l’area in questione era spoglia al momento dell’espropriazione; non andava riconosciuto l’aumento del 10% dell’indennità richiesto dalle sorelle B. per l’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 37, comma 2, del T.U. espropri, non essendo l’indennità definitiva offerta inferiore di 8/10 rispetto a quella calcolata dal CTU; corrette erano le valutazioni del consulente d’ufficio sulla disposta maggiorazione del 15% per le aree accessorie, in applicazione delle norme vigenti e della prassi del settore.

3. Con successiva ordinanza del 23 maggio 2018, la Corte di appello, ha disposto la correzione della sentenza n. 4982/2017 disponendo che nella parte dispositiva dopo le parole “determina l’indennità di esproprio in complessivi Euro 546.292,30, oltre interessi di legge dal giorno dell’espropriazione (13/12/2010) sino al soddisfo”, sia aggiunta “e applica la maggiorazione del 10% dell’indennità di esproprio, ex art. 37, comma 2, T.U. Espropri”.

4. B.G., in proprio e quale procuratrice della sorella B.A., ha depositato controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 111 Cost., comma 7 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il Giudice del rinvio determinato l’indennità di esproprio di un’area edificabile previa approvazione di un piano attuativo, facendo applicazione del metodo analitico-ricostruttivo senza dare rilievo a tutte le voci del costo da considerarsi e senza dare rilievo all’incidenza sulle possibilità effettive di edificazione dell’area del vincolo conformativo ivi insistente, rappresentato dalla prescrizione del PRG che consentiva l’edificazione dell’area solo attraverso un piano attuativo e subordinatamente alla realizzazione di un intervento di rettifica della pubblica via con arretramento dell’edificando immobile prospiciente.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 111, comma 7 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il Giudice del rinvio assunto, nel procedimento di determinazione del valore di trasformazione dell’area edificabile, valori contraddetti dagli stessi elementi conoscitivi presenti nella relazione del CTU, così pervenendo a risultati errati, illogici e irragionevoli.

In particolare la società ricorrente deduce che il CTU non aveva considerato la voce di costo per la realizzazione degli spazi destinati ad attrezzature e infrastrutture (cosiddette aree a standards) o, comunque il loro valore se monetizzati, e quella relativa alle imposte che la proprietà (persona fisica) era tenuta a versare sulla somma percepita a titolo di indennità ai sensi dell’art. 35 T.U. Espropri, voci di costo espressamente individuate dalla Corte nel pregresso giudizio di legittimità.

Inoltre, ad avviso della società ricorrente, il CTU aveva errato nello svolgimento delle operazioni di calcolo del valore di mercato dell’edificio e delle voci di costo rappresentate dal ricavo ottenibile dalla trasformazione dell’area e del profitto conseguibile e la metodologia operata non era corretta.

3. Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 2, in relazione all’art. 111 Cost., comma 7 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il Giudice di merito effettuato una corretta esegesi della norma, la quale prevede l’aumento dell’indennità nella misura del 10% esclusivamente nelle ipotesi di accordo tra le parti o di mancato accordo per ragioni non imputabili all’espropriato, ovvero perchè l’indennità offerta è significativamente inferiore a quella determinata in sede giudiziale, alla luce della previsione di cui all’art. 42 Cost., comma 3 e della conformazione giurisprudenziale della natura dell’indennità e del relativo parametro, che non può superare il valore di mercato.

4. Con il quarto motivo la società ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e dell’art. 91 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 111 Cost., comma 7 e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il Giudice del rinvio liquidato le spese di lite dell’intero giudizio, compreso quello di cassazione, in violazione del principio di soccombenza, dal momento che la sentenza che aveva definito il primo giudizio di merito era stata cassata e il giudizio di legittimità si era concluso con l’accoglimento del terzo e del quarto motivo sollevati dalla ricorrente e l’assorbimento dei restanti e del ricorso incidentale di parte avversa, e il secondo giudizio di merito pure si era concluso con una sentenza errata.

5. Il secondo motivo, che per ragioni di ordine giuridico deve essere esaminato per primo, è fondato.

5.1 La Corte di Cassazione, nella sentenza, resa inter partes, n. 14187/2016 del 12 luglio 2016, ha affermato che la Corte territoriale aveva violato l’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni poichè l’indennità costituiva l’indennizzo di un edificio e non di un suolo edificatorio (essendo stato il fabbricato demolito in epoca antecedente al procedimento ablativo) e ciò era questione che si riverberava sia sulla stessa identificazione del bene espropriato, sia sulla determinazione del suo valore venale (erroneamente compiuta in violazione dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni), sia sulla corretta applicazione del criterio analitico-ricostruttivo che consisteva nella determinazione del valore di mercato degli insediamenti da costruire sul suolo consentiti dalla destinazione urbanistica della zona.

La Corte di Cassazione, nella sentenza richiamata, ha, poi, ulteriormente precisato che la stima avrebbe dovuto tenere conto di tutti gli elementi che concorrevano, in concreto, alla determinazione del costo di trasformazione del terreno e alla formazione del valore venale di quanto su di esso veniva costruito e, quindi, non solo dell’entità del costruibile in base agli indici territoriali d’edificabilità, ma anche del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, dei tributi, delle spese tecniche e generali, degli oneri di acquisizione delle aree e dell’utile d’impresa in rapporto alla redditività dei capitali investiti e ad un tasso d’attualizzazione per il tempo occorrente a realizzare le costruzioni.

5.2 Ciò posto, la Corte di appello, pur avendo richiamato i principi di diritto individuati dalla sentenza della Corte di Cassazione, n. 14187/16 e avendo ritenuto che le quantificazioni effettate dal consulente d’ufficio fossero rispettose dei principi affermati dalla Corte di cassazione, non ha fatto corretta applicazione del metodo analitico-ricostruttivo, in osservanza dei principi affermati nella sentenza specificamente richiamata.

5.3 Deve rilevarsi che la società ricorrente, nel rispetto del principio dell’autosufficienza e con prospettazione adeguata in ordine all’indicazione delle argomentazioni svolte dal consulente tecnico d’ufficio sulle critiche mosse dal consulente di parte, ha riportato nel ricorso per cassazione i rilievi critici che il consulente di parte ha svolto sulle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, nella parte in cui contestava la mancata detrazione della voce di costo per la realizzazione degli spazi destinati ad attrezzature e infrastrutture (cosiddette aree a standards) o, comunque il loro valore se monetizzati, e della voce relativa alle imposte che la proprietà (persona fisica) era tenuta a versare sulla somma percepita a titolo di indennità ai sensi dell’art. 35 T.U. Espropri.

5.4 In proposito, questa Corte ha affermato che, in tema di ricorso per cassazione, per infirmare, sotto il profilo della insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice di merito e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (Cass., 3 agosto 2017, n. 19427; Cass., 3 giugno 2016, n. 11482; Cass., 17 luglio 2014, 16368).

Il corollario che consegue a tali principi è che per confutare la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui, come nella specie, il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi di aver mosso critiche alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, e ne riporti, poi, per autosufficienza almeno i passaggi salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e rilevanza (Cass. 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass. n. 10222 del 2009; n. 23530 del 2013).

5.5 Specificamente, a pagina 10 del ricorso, si riporta la risposta del consulente d’ufficio ai rilievi del consulente di parte sulla mancanza di tali voci e precisamente che “Si è tenuto conto di queste voci ricomprendendole tra le “spese generali”, valutate tramite la voce di costo concisamente nominata “Spese tecniche (St)” (si veda paragrafo “Costi costruzione (Kc)” e “spese tecniche (St)” a pag. 7)”. Si legge, poi, che tale affermazione, in realtà, è contraddetta dalla indicazione delle spese tecniche riportate dal consulente tecnico di ufficio nell’elaborato peritale ed individuate negli “oneri professionali di progettazione, direzione lavori, spese generali di collaudo e sicurezza”, tutte considerate unitariamente e calcolate con una un’unica misura percentuale.

Deve, quindi, ritenersi che effettivamente non siano state ricomprese le voci di costo per la realizzazione degli spazi destinati ad attrezzature e infrastrutture (cosiddette aree a standards) o comunque il loro valore, ove monetizzati, e il costo relativo alle imposte che la proprietà, persona fisica, era tenuta a versare sulla somma percepita a titolo di indennità ai sensi dell’art. 35 T.U. sulle espropriazioni.

Si tratta di voci di costo che erano state espressamente individuate dalla Corte nel precedente giudizio di legittimità e che non sono state valutate dalla Corte di appello e, peraltro, ove considerate unitariamente e tutte ricondotte alla voce di “spese generali”, sono state erroneamente calcolate in assenza di una autonoma e specifica quantificazione di ciascuna delle suddette voci.

5.6 Ciò nel rispetto del principio affermato da questa Corte secondo cui quando il giudice del merito aderisca al parere del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poichè l’accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo, anche “per relationem” dell’elaborato, implicare una compiuta positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente; qualora, tuttavia, alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori, il giudice del merito, per non incorrere nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione e ha l’obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle critiche specifiche sollevate dando conto della propria scelta di adesione alle conclusioni del consulente d’ufficio (Cass. 11 giugno 2018, n. 15147; Cass., 24 dicembre 2013, n. 28647; Cass., 20 maggio 2005, n. 10668).

6. Anche il terzo motivo merita accoglimento, dovendosi affermare in via preliminare l’infondatezza dell’eccezione di intempestività sollevata dalla parte resistente.

6.1 Nello specifico, la parte resistente ha assunto la violazione dell’art. 288 c.p.c., che prevede che le sentenze corrette possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, dato che l’ordinanza di correzione della sentenza era stata notificata alla Ferrovienord S.p.a. in data 23 marzo 2018 ed il ricorso era stato portato alla notifica dopo 66 giorni da detta data (28 maggio 2018).

6.2 Tanto premesso è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il procedimento di correzione di errori materiali contenuti nella sentenza è preordinato alla eliminazione di un difetto di formulazione esteriore dell’atto scritto la cui incongruenza, rispetto al concetto contenuto nella sentenza, appaia sulla base della sola lettura del testo del provvedimento giurisdizionale e che stante la particolare natura non giurisdizionale, ma amministrativa del procedimento, l’ordinanza che lo conclude non è soggetta ad impugnazione, neppure con il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., mentre resta impugnabile la sentenza corretta con lo specifico mezzo di impugnazione per essa previsto, il cui termine decorre dalla notifica del provvedimento di correzione, al fine di verificare se sia stato violato il giudicato ormai formatosi, nel caso in cui il procedimento sia stato utilizzato per incidere su errori di giudizio (Cass., 6 agosto 2001, n. 10830; Cass., 18 gennaio 1999, n. 439; Cass., 3 maggio 1996, n. 4096; Cass., 4 ottobre 1991, n. 10336).

Si tratta, quindi, di un provvedimento, di sostanziale natura amministrativa, che rimane nell’ambito della forza dispositiva della sentenza a cui si riferisce e non realizza una volontà giurisdizionale autonoma, con la conseguenza che resta impugnabile unicamente la sentenza relativamente alle parti corrette, nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, ai sensi dell’art. 288 c.p.c., u.c. (Cass. 4 ottobre 1991, n. 10336, citata).

Anche di recente questa Corte, in tema di impugnazione di sentenze nelle parti corrette, ha affermato che l’art. 288 c.p.c., nel disporre che le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, appresta uno specifico mezzo di impugnazione, che esclude l’impugnabilità per altra via del provvedimento a lume del disposto dell’art. 177 c.p.c., comma 3, n. 3, a tenore del quale non sono modificabili nè revocabili le ordinanze per le quali la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo. Il principio di assoluta inimpugnabilità di tale ordinanza, neppure col ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., vale anche per l’ordinanza di rigetto, in quanto il provvedimento comunque reso sull’istanza di correzione di una sentenza all’esito del procedimento regolato dall’art. 288 c.p.c., è sempre privo di natura decisoria, costituendo mera determinazione di natura amministrativa non incidente sui diritti sostanziali e processuali delle parti, in quanto funzionale all’eventuale eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo che non può in alcun modo toccare il contenuto concettuale della decisione. Per questa ragione resta impugnabile, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta, proprio al fine di verificare se, mercè il surrettizio ricorso al procedimento in esame, sia stato in realtà violato il giudicato ormai formatosi nel caso in cui la correzione sia stata utilizzata per incidere, inammissibilmente, su errori di giudizio (Cass., 14 maggio 2007, n. 5950; Cass., 27 febbraio 2019, n. 5733; Cass., 26 luglio 2019, n. 20309).

La sentenza corretta, quindi, resta impugnabile, nei termini previsti dalla legge e con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, proprio al fine di verificare se, con il ricorso al procedimento in esame, sia stato in realtà violato il giudicato ormai formatosi nel caso in cui la correzione sia stata utilizzata per incidere, inammissibilmente, su errori di giudizio.

A riscontro di tale affermazione deve richiamarsi, sul punto, il principio affermato da questa Corte secondo cui l’adozione della misura correttiva, quando l’errore corretto sia tale da ingenerare un obbiettivo dubbio sull’effettivo contenuto della decisione, comporta la riapertura o il prolungamento dei termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di correzione (Cass., 10 aprile 2018, n. 8863).

Di contro, l’adozione della misura correttiva non vale a riaprire o prolungare i termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, chiaramente percepibili dal contesto della decisione, in quanto risolventisi in una mera discrepanza tra il giudizio e la sua espressione (Cass., 27 marzo 2006, n. 6969; Cass., 7 dicembre 2004, n. 22933; Cass., 26 novembre 2008, n. 29189; Cass., 11 settembre 2009, n. 19668).

E ciò perchè il provvedimento di correzione, come già detto, ha natura sostanzialmente amministrativa, che ha unicamente la funzione di rendere aderente la “formula” della sentenza al contenuto effettivo della decisione, con la conseguenza che la verifica della legittimità e dell’esattezza della correzione è possibile solo attraverso l’impugnazione della sentenza nelle parti corrette, prevista dell’art. 288 c.p.c., u.c. (Cass., 30 agosto 2013, n. 19987; Cass., 7 dicembre 2004, n. 22933).

6.3 Ciò posto, nel caso in esame, la pronuncia assunta in sede di correzione dell’errore materiale ha modificato il contenuto effettivo della decisione, posto che la Corte, dopo avere nella parte motiva affermato espressamente che non andava riconosciuto l’aumento del 10% dell’indennità richiesto dalle sorelle B. per l’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 37, comma 2, del T.U. espropri, non essendo l’indennità definitiva offerta inferiore di 8/10 rispetto a quella calcolata dal CTU, ha poi con l’ordinanza di correzione applicato la maggiorazione del 10% dell’indennità di esproprio, ex art. 37, comma 2, T.U. Espropri.

Come già detto, l’art. 287 c.p.c., consente al giudice, che le ha pronunziate, di correggere le sentenze e le ordinanze irrevocabili dagli errori formali, che consistono in “omissioni”, “errori materiali” o “di calcolo”, conseguenti a divergenze evidenti, e quindi rettificabili, fra l’attività intellettiva del giudizio e la sua materiale esternazione.

Ne consegue l'”abuso” dell’indicato potere, essendo stato questo esercitato per emendare errori attinenti al giudizio, ciò implicando un riesame della decisione consentito solamente in sede di impugnazione.

Nel caso che occupa, è palese che non si è in presenza di un errore formale, come sopra individuato, e che l’esercizio del potere correttivo non sia stato indirizzato dalla Corte per emendare un errore di giudizio, avendo i giudici di secondo grado operato un vero e proprio riesame della domanda diretta ad ottenere la maggiorazione del 10% dell’indennità ai sensi dell’art. 37, comma 2, del T.U. Espropri.

Il provvedimento di correzione materiale ha, quindi, inciso sull’effettivo contenuto della decisione impugnata, con la duplice conseguenza che il termine per impugnare la parte corretta della sentenza non ha influito sul normale decorso dei termini di impugnazione e non ha precluso la proponibilità, entro i suindicati termini, del normale mezzo di impugnazione previsto dall’ordinamento nei riguardi della decisione oggetto di correzione e della fondatezza della censura sollevata dalla società ricorrente sulla domanda diretta ad ottenere la maggiorazione del 10% dell’indennità ai sensi dell’art. 37, comma 2, del T.U. Espropri, erroneamente accolta in sede di correzione di errore materiale.

7. In ragione delle esposte argomentazioni, gli altri motivi vanno ritenuti assorbiti.

8. La sentenza va, dunque, cassata e la causa deve essere rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, assorbiti il primo e il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Accoglie il terzo motivo sulla correzione.

Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2021

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