Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32715 del 09/11/2021

Cassazione civile sez. VI, 09/11/2021, (ud. 08/07/2021, dep. 09/11/2021), n.32715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6746-2020 proposto da:

V.A.L., rappresentata e difesa, giusta procura speciale

allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Francesco Carboni,

presso il cui studio elettivamente domicilia in Alghero, alla via

Genova n. 10.

– ricorrente –

contro

C.M., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Stefano Carboni,

con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Oriolo Romano n.

69, presso lo studio dell’Avvocato Filippo Gargano di Castel

Lentini.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. cronol. 562/2019 della CORTE di APPELLO di

CAGLIARI, Sezione di SASSARI depositata in data 13/12/2019; udita la

relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del giorno 08/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott.

EDUARDO CAMPESE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. V.A.L. ricorre per cassazione, affidandosi ad un motivo, avverso la sentenza della Corte di appello di Cagliari, sezione di Sassari, del 13 dicembre 2019, n. 562, reiettiva del gravame da lei promosso contro la decisione del Tribunale di Sassari del 13/14 novembre 2015, n. 1646, che, a sua volta, ne aveva respinto la domanda volta ad ottenere la condanna del proprio coniuge C.M. (con il quale, peraltro, era in corso il procedimento di separazione personale) al risarcimento dei danni arrecatile per essersi illegittimamente appropriato di somme appartenenti esclusivamente a lei, giusta l’art. 179 c.c., lett. e), benché depositate su un conto corrente a loro firma congiunta. Resiste, con controricorso, il C..

2. Per quanto qui di interesse, quella corte ha premesso che l’appellante aveva lamentato che il tribunale non aveva considerato che le somme erogatele dalla Toro Assicurazioni s.p.a. avevano natura personale e non rientravano nei beni oggetto della comunione legale tra coniugi, così esonerandola dalla prova dell’impiego delle somme prelevate dal C., tanto più che la consistenza dei prelievi non deponeva a favore di un impiego nell’interesse della famiglia.

2.1. Successivamente ha osservato che, nel corso del giudizio, erano rimaste provate le seguenti circostanze: a) nel luglio 2009, allorché i coniugi erano regolarmente sposati, la V. aveva aperto un conto cointestato con il marito sul quale aveva disposto l’accreditamento della somma di Euro 50.000,00, ottenuta dalla menzionata compagnia assicuratrice a titolo di risarcimento del danno occorsole in conseguenza di un sinistro stradale; b) su tale conto corrente si erano verificati trasferimenti delle somme di 15.000,00 ed Euro 20.000,00 operati dal C., nonché altri prelievi di somme in contanti; c) la V., a seguito di disturbo affettivo bipolare di tipo 1, era stata dichiarata invalida con totale riduzione della capacità lavorativa, di conseguenza risultava non titolare di redditi lavorativi, né la medesima aveva allegato l’esistenza di introiti di altro tipo a suo favore; d) dall’esame degli estratti conto bancari del conto corrente n. (OMISSIS), cointestato tra i coniugi, emergevano prelievi effettuati nell’anno 2009 da due distinte carte di credito (n. 526 e n. 968); e) dall’esame degli estratti conto bancari del conto corrente n. (OMISSIS), intestato solo al C., risultavano prelievi effettuati nel 2009 con carta di credito nella cittadina di Lourdes, località in cui si era recata solamente la V.; la V. aveva prelevato la somma di Euro 15.000,00 dal conto cointestato in data (OMISSIS) ed aveva versato la detta somma sul conto corrente n. (OMISSIS), aperto solo a suo nome, ed in seguito, il (OMISSIS), aveva trasferito Euro 10.000,00 sul conto cointestato, allorché il marito aveva già disposto il prelievo di Euro 15.000,00, avvenuto in data (OMISSIS); g) dall’esame degli estratti conto bancari del conto corrente n. (OMISSIS), intestato solo alla V., risultavano eseguiti dalla medesima accrediti di somme di denaro e prelievi a cadenza quasi giornaliera.

2.2. Ha concluso quindi, opinando che: i) la V., nonostante la patologia psichiatrica da cui era affetta, era in grado di compiere operazioni bancarie del tipo sopra descritto (apertura di conto corrente, trasferimenti di denaro da un conto all’altro, depositi e prelievi di somme di denaro) e che ambedue i coniugi avevano operato sia sul conto cointestato che su quello personale del marito. Ne conseguiva che la V. aveva avuto modo di conoscere i movimenti bancari avvenuti sul conto cointestato, compresi i prelievi effettuati dal marito; ii) dalla movimentazione di denaro riportata negli estratti conto bancari dei tre conti correnti esaminati, emergevano accrediti di somme di denaro sul conto corrente di titolarità esclusiva della V.. Tale circostanza, alla luce dell’accertata sua incapacità lavorativa, cui conseguiva l’assenza di produzione di reddito, nonché alla mancata allegazione, da parte della stessa, di percezione di redditi di altro tipo, confermava quanto dedotto dal C. circa la consegna, nelle mani della moglie, di denaro contante prelevato dal conto comune che la stessa presumibilmente aveva poi depositato sul suo conto personale; iii) dagli elementi finora indicati scaturiva la rappresentazione di una famiglia in cui i genitori, per loro libera scelta, per far fronte alle innumerevoli necessità familiari avevano messo a disposizione le risorse economiche personali, sia provenienti da attività lavorativa di uno dei due coniugi che da somme di denaro personali dell’altro, con l’unico scopo comune del benessere della famiglia che avevano creato; iv) in tale ottica doveva inquadrarsi l’impiego, da ritenersi concordato tra i coniugi, delle somme derivanti dal conto cointestato nei termini puntualmente dedotti dal C., sicché poteva ritenersi presuntivamente provata la circostanza che quest’ultimo fosse stato autorizzato dalla moglie, altra correntista, a disporre della somma depositata sul conto corrente cointestato anche in misura eccedente la quota di sua spettanza nonché al compimento delle operazioni bancarie effettuate sul conto, visto che la gestione dei conti correnti n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS) era risultata comune ai coniugi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’unico motivo formulato dalla V., rubricato “Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, con riferimento all’omessa e I o errata considerazione delle risultanze probatorie documentali. Art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ed in violazione dell’art. 111 Cost., comma 6”, ascrive alla corte distrettuale di “aver omesso ogni valutazione” di alcuni elementi istruttori così “pervenendo a conclusioni illogiche e contraddittorie rispetto alle prove fornite”. Invero, non era “condivisibile” l’assunto della sentenza impugnata secondo cui “la V. sarebbe rimasta inadempiente rispetto alla prova della destinazione delle somme ad interessi personali da parte del C., presumendone la destinazione agli interessi della famiglia. Infatti, la prova della destinazione diversa da quella personale avrebbe dovuto essere data dal C., constando non solo la prova ma anche la sua ammissione in ordine ai prelevamenti; inoltre, dai documenti e dai movimenti bancari, incontestati, vi è prova dello scopo personale dell’utilizzo delle somme da parte del C.; infine, fatto più importante, non vi era necessità di alcuna prova sulla diversa destinazione della somma prelevata dal C. rispetto alle presupposte esigenze familiari, giacché le somme non appartenevano alla comunione legale ma erano bene personale per sua natura in quanto ricevuto come ristoro di una lesione alla sfera della sua personalità”. La motivazione contestata, inoltre, era “errata anche a mente dell’art. 1298 c.c.. Infatti, la norma dispone che i crediti ed i debiti tra i correntisti nel conto corrente bancario intestato a più persone si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente”.

1.1. Una siffatta doglianza è complessivamente inammissibile.

1.2. Invero, giova premettere che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 13 dicembre 2019), ha avuto l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza (o di altro provvedimento decisorio) per “mancanza della motivazione”, ipotesi configurabile allorché la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Dott.’ Cass. n. 4226 del 2021, in motivazione; Cass. n. 395 del 2021, in motivazione; Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).

1.2.1. Non solo, dunque, non è più denunciabile, in sede di legittimità, la motivazione insufficiente e/o contraddittoria (cfr. Cass. n. 24395 del 2020), ma, come ribadito, ancora recentemente, da Cass. n. 4226 del 2021 (cfr. in motivazione), oggetto del vizio di cui alla norma da ultimo citata e’, oggi, esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e cioè: i) un vero e proprio “Atto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tra gli altri: a) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

1.2.2. Inoltre, il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poiché l’attributo si riferisce al “fatto” in sé, la “decisività” asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certe.z.za” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015).

1.3. In applicazione dei suesposti principi, allora, va rimarcato che la corte distrettuale – con una motivazione che non integra affatto violazione dei principi dettati in tema di onere della prova e di prova presuntiva, oltre che priva di vizi logici, siccome basata sulla puntuale e dettagliata descrizione e ponderazione di indici concreti – è giunta alla conclusione che, nella specie, il quadro istruttorio desumibile dalla documentazione prodotta in atti, valutato in ciascun elemento e nel suo complesso, fosse idoneo a far ritenere raggiunta la prova della duplice circostanza che: i) i coniugi C./ V., per loro libera scelta, per far fronte alle innumerevoli necessità familiari, avevano messo a disposizione le risorse economiche personali, provenienti da attività lavorativa di uno dei due coniugi o da somme di denaro personali dell’altro, con l’unico scopo comune del benessere della famiglia che avevano creato; ii) il C. fosse stato autorizzato dalla moglie, altra correntista, a disporre della somma depositata sul conto corrente cointestato anche in misura eccedente la quota di sua spettanza nonché al compimento delle operazioni bancarie effettuate sul conto, visto che la gestione dei conti correnti n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS) era risultata comune ai coniugi.

1.3.1. La corte sarda, invero, ha ampiamente descritto (cfr. amplius, pag. 10-12 dell’impugnata sentenza) gli elementi istruttori che l’hanno indotta a quella conclusione, ed il corrispondente accertamento integra una valutazione fattuale, a fronte della quale la V., con il motivo in esame (lungi dal dolersi dell’omesso esame di un preciso fatto storico, decisivo e già oggetto di discussione tra le parti, con il rispetto, peraltro, dei puntuali oneri di allegazione sanciti da Cass., SU, n. 8053 del 2014), tenta, sostanzialmente, di opporre una propria alternativa loro interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Dott. ex multis, Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

1.3.2. In altri termini, la ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorché la parte ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che “e’ inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior fora di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.”); 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure puntualizzato che, “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui viti di motivazione”; Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. n. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (cfr. Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020): il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (cfr. Cass. n. 4226 del 2021, in motivazione; Cass. n. 3267 del 2008), altresì evidenziandosi che i fatti e/o i documenti di cui oggi la ricorrente lamenta l’errata “valutazione” (piuttosto che l’omesso esame), lungi dall’essere, di per sé, “decisivi”, nei sensi in precedenza ricordati, al più potrebbero rappresentare elementi indiziari da porre a fondamento di un ragionamento presuntivo volto a giungere a conclusioni magari diverse da quelle esposte dalla corte sarda, così procedendosi, però, a valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità.

2. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo, mentre non può trovare accoglimento l’istanza del C. volta ad ottenere la condanna della V., ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, al risarcimento dei danni da liquidarsi in via equitativa (cfr. conclusioni del controricorso).

2.1. Questa Corte, invero, ha recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista da tale norma, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo, sia all’evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento. Al riguardo, è stato affermato che “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione” (cfr. Cass. n. 29812 del 2019; Cass. n. 27623 del 2017). Tali pronunce sono state precedute da un altro fondamentale arresto secondo il quale “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei “risarcimenti punitivi”” (cfr. Cass., SU, n. 16601 del 2017).

2.2. Nel caso in esame, le argomentazioni complessivamente svolte dalla V., sebbene inidonee all’accoglimento del ricorso, non lasciano trasparire un intento abusivo nella sua proposizione.

2.3. Deve darsi atto, infine, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte della V., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna V.A.L. al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 8 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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