Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32710 del 18/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 18/12/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 18/12/2018), n.32710

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27597-2013 proposto da:

D.S.R., C.F. (OMISSIS), RUBINO S.R.L. C.F. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio

dell’avvocato BRUNO COSSU, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIOVANNI PAOLO BUSINELLO, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 677/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 14/08/2013, R.G.N. 766/2012.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 14 agosto 2013 la Corte d’appello di Ancona, in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 313/2012 del locale Tribunale, ha riformato tale sentenza, con la quale previo accoglimento dell’eccezione di decadenza L. n. 689 del 1981, ex art. 14, comma 2, proposta da D.S.R. e dalla Rubino s.r.l. – era stata accolta l’opposizione di questi ultimi contro l’ordinanza-ingiunzione con la quale l’Agenzia delle Entrate di Ancona, ha sanzionato la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 9 e 11, e del D.L. n. 79 del 1997, art. 6,comma 1, per le prestazioni professionali rese negli anni 2006-2008 in loro favore da A.G., sottufficiale della Marina Militare, senza la necessaria preventiva autorizzazione del Comando della Marina Militare stessa e senza la comunicazione all’Amministrazione dell’ammontare dei compensi corrisposti;

che la Corte territoriale, per quel che qui rileva, ha evidenziato che:

a) non può condividersi la statuizione di accoglimento dell’eccezione di decadenza in quanto – come osserva la P.A. – non è appropriato fare riferimento come dies a quo alla data di richiesta delle informazioni da parte della Guardia di Finanza (29 giugno 2009) senza considerare che l’accertamento nella specie non poteva limitarsi solo alla acquisizione ed all’esame della documentazione prodotta, essendo doverose la verifica presso le autorità competenti dell’assenza delle prescritte autorizzazioni e la raccolta di notizie di documentazione fornite dal dipendente interessato, operazioni che hanno riguardato tre diverse annualità;

b) ne consegue che è da escludere che “le operazioni di accertamento si siano protratte irragionevolmente” e “tali evidenze non sono certamente messe in crisi dalla considerazione che, per altre analoghe infrazioni, gli organi accertatori abbiano impiegato tempi più contenuti”;

c) quanto ai motivi di opposizione, va rilevato, in primo luogo che la sanzione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53(originariamente prevista dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58 come modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998) per l’omessa comunicazione dei corrispettivi trova applicazione anche nell’ipotesi in cui l’incarico venga conferito a dipendenti pubblici non contrattualizzati, in quanto l’obbligo di comunicazione previsto dal comma 11 dello stesso articolo e la limitazione contenuta nel comma 6 (che richiama unicamente i commi da 7 a 11 e non il comma 15 che prevede la sanzione) si riferisce solo alla disciplina derogatoria;

d) la delega conferita al Governo dalla L. n. 421 del 1992, art. 2, era di ampiezza tale da consentire anche la previsione di simile sanzione, sicchè non è fondata l’eccezione di legittimità costituzionale prospettata dagli opponenti per eccesso di delega;

che per la cassazione di tale sentenza D.S.R. e la Rubino s.r.l. propongono ricorso, illustrato da memoria, affidato a quattro motivi;

che l’Agenzia delle Entrate intimata, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione e quindi, in vista dell’odierna adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168 convertito dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197, ha depositato memoria difensiva tempestiva, secondo quanto previsto dal punto 1 del Protocollo d’intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di Cassazione sottoscritto il 15 dicembre 2016 tra la Corte di Cassazione, l’Avvocatura generale dello Stato ed il Consiglio Nazionale Forense (sul punto vedi per tutte: Cass. 28 agosto 2017, n. 20471);

che le parti, nelle memorie, danno atto della sopravvenienza della sentenza 5 giugno 2015, n. 98 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 15, nella parte in cui prevede che “I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”;

che, in particolare, l’Agenzia delle Entrate riferisce di avere disposto, in attuazione della richiamata sentenza, l’annullamento in autotutela dell’ordinanza-ingiunzione opposta, limitatamente alla sanzione relativa all’omessa comunicazione dei compensi, sicchè chiede che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere, sul punto.

Diritto

CONSIDERATO

che il ricorso è articolato in quattro motivi;

che con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 342 c.p.c., art. 416 c.p.c., comma 3 e art. 115 c.p.c.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2; c) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

che tutte le censure hanno il loro fulcro nella contestazione della statuizione con la quale la Corte d’appello ha respinto l’eccezione di decadenza – che, invece, il Tribunale aveva accolto, con ampia motivazione – rilevandosi che la sola acquisizione dei documenti, trasmessi dalla società il 15 luglio 2009 alla Guardia di Finanza, doveva essere considerata sufficiente per consentire la contestazione dell’illecito, avvenuta invece senza alcuna giustificazione solo il 27 luglio 2010, cioè dopo più di un anno dalla suddetta acquisizione, tempo considerato dal primo Giudice esageratamente lungo per il tipo di accertamento da fare, tanto più che la società aveva ammesso pacificamente di non aver mai chiesto la prescritta autorizzazione e di non aver mai inviato la richiesta comunicazione, il che dimostra che, nella specie, le verifiche da compiere non erano certamente complesse;

che, si aggiunge, che i motivi dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate non avevano riguardato la giustificazione del tempo trascorso fra la consegna dei documenti e la notifica dell’addebito, sicchè, nel rispetto del principio del tantum devolutum quantum appellatum, il giudice del gravame si sarebbe dovuto pronunciare solo sulle censure prospettate nell’impugnazione, mentre in contrato con gli artt. 112 e 115 c.p.c. – ha accolto l’appello sulla base di una diversa, “originale” e “intuitiva” ricostruzione dei fatti basata sulla affermata ragionevolezza dei tempi dell’accertamento, senza che l’Agenzia delle Entrate avesse fornito alcuna prova sul punto, contestato da parte degli attuali ricorrenti fin dal primo grado;

che si rileva altresì come la Corte d’appello abbia escluso che le operazioni di accertamento si siano protratte per un tempo irragionevole, in modo del tutto apodittico e che, nello stesso modo, abbia considerato irrilevante in contrario che, in casi analoghi, i tempi per l’accertamento siano stati più contenuti, così discostandosi dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui le operazioni di accertamento per le sanzioni amministrative devono avvenire in “tempi ragionevoli”;

che, in sintesi, senza alcun supporto probatorio e/o logico, dell’art. 14, comma 2 cit. è stata data un’interpretazione “fittizia” che in realtà si è tradotta nella violazione della norma stessa;

che il secondo motivo e il terzo motivo si riferiscono alla erronea applicazione della normativa sulla sanzione irrogata per la omessa comunicazione da parte dei ricorrenti al Comando della Marina Militare dei compensi corrisposti all’ A.;

che i ricorrenti, nella loro memoria, considerano tali motivi “superati” per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2015 e si limitano a chiedere l’applicazione di tale sentenza;

che con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nullità della sentenza per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall’assenza di colpa e dalla buona fede dei ricorrenti, che si sono fidati di quanto loro riferito dall’ A. circa il possesso della prescritta autorizzazione;

che l’esame delle censure porta all’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso e alla dichiarazione di assorbimento del quarto motivo, per le ragioni di seguito esposte;

che, in primo luogo, va dichiarata la fondatezza del secondo e del terzo motivo, in quanto – come risulta anche dalle memorie delle parti – nelle more del presente giudizio di legittimità è intervenuta la sentenza 10 giugno 2015 n. 98 con la quale la Corte Costituzionale – in accoglimento di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ancona in un giudizio relativo ad una fattispecie sovrapponibile a quella di cui si tratta nel presente giudizio – ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 15, nella parte in cui prevede che i soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”;

che il Giudice delle leggi è pervenuto a tale conclusione evidenziando che in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il compito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, non è ricompresa, sempre e comunque, anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo stesso;

che è stato aggiunto che la previsione contenuta nell’art. 53, comma 15, cit. si risolve in una duplicazione della sanzione già prevista per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere solo formale;

che, com’è noto le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, con l’unico limite costituito dalle situazioni consolidate ed in particolare dal giudicato, che, nella specie, non si è formato poichè il capo della decisione riguardante la legittimità della sanzione inflitta è stato specificamente e ritualmente contestato;

che, pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua (vedi, nello stesso senso: Cass. 30 giugno 2016, n. 13474), non potendosi accogliere la proposta dell’Agenzia delle Entrate di dichiarazione di cessazione della materia del contendere sul punto, visto che dell’avvenuto annullamento in autotutela dell’ordinanza-ingiunzione opposta, limitatamente alla sanzione di cui all’art. 53, comma 15, cit., non risultano essere state fornite specifiche indicazioni – in conformità con il principio di autosufficienza del ricorso e controricorso per cassazione – e, d’altra parte, i ricorrenti nella loro memoria affermano di continuare a trattare del secondo e del terzo motivo “al solo scopo di chiedere l’applicazione” della suindicata sentenza della Corte costituzionale;

che il primo motivo è fondato, ovviamente limitatamente al mancato accoglimento dell’eccezione di decadenza riferita alla parte dell’ordinanza-ingiunzione prevedente la sanzione per la mancata preventiva autorizzazione da parte del Comando della Marina Militare di cui il lavoratore era dipendente;

che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata dell’infrazione, il termine di novanta giorni, previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, per la notifica degli estremi della violazione, decorre dal compimento dell’attività di verifica di tutti gli estremi dell’illecito, dovendosi considerare anche il tempo necessario all’Amministrazione per valutare e ponderare gli elementi acquisiti (in tal senso fra le tante: Cass. 30 giugno 2016, n. 13474 cit. nonchè Cass. 28 ottobre 2014, n. 22837; Cass. 6 novembre 2009, n. 23608);

che, in particolare, è stato evidenziato che il procedimento di accertamento della violazione è finalizzato a consentire all’Amministrazione di avere piena contezza degli estremi, oggettivi e soggettivi, della condotta realizzata e si è sottolineato che la correttezza e completezza dell’accertamento rispondono sia all’interesse pubblico connaturato alla funzione svolta dagli organi accertatori, sia all’interesse dello stesso ipotizzato autore dell’illecito al fine di un’adeguata ponderazione della sua eventuale responsabilità;

che, peraltro, si è anche posto l’accento sul fatto che la realizzazione dei suddetti interessi deve essere effettuata nel rispetto dell’esigenza dell’ipotizzato autore dell’illecito a vedere concluso l’accertamento in tempi brevi, sia per definire la propria posizione incerta sia per poter eventualmente apprestare una pronta ed adeguata difesa;

che, nel contemperamento di tali esigenze, occorre effettuare una valutazione di “ragionevolezza” dei tempi impiegati per l’accertamento, al fine di ritenerne la complessiva congruità in relazione alle caratteristiche specifiche del caso concreto e del tipo di indagini da svolgere (vedi, fra le tante: Cass. SU 17 maggio 2017, n. 12332; Cass. 16 aprile 2018, n. 9254; Cass. 6 novembre 2009, n. 23608; Cass. 2 dicembre 2011, n. 25836; Cass. 13 dicembre 2011, n. 26734);

che nel computo del tempo necessario all’Amministrazione per valutare e ponderare adeguatamente gli elementi già acquisiti assumono rilievo non solo gli atti di indagine effettuati ma tutte le attività, più o meno complesse, finalizzate al completo accertamento di tutti gli aspetti della fattispecie (Cass. 2 aprile 2014 n. 7681; Cass. 16 aprile 2018, n. 9254);

che, peraltro, è jus receptum che sull’individuazione – rimessa al giudice del merito – del momento in cui la P.A. ha acquisito tutti gli elementi oggettivi e soggettivi necessari per valutare la sussistenza di una condotta sanzionabile non possono incidere comportamenti negligenti o arbitrari della stessa P.A. e/o disfunzioni burocratiche, sicchè il tardivo compimento di atti che quest’ultima avrebbe dovuto o potuto compiere tempestivamente non vale a spostare in avanti il dies a quo di decorrenza del termine di novanta giorni per la contestazione differita dell’infrazione (ex multis: Cass. SU, 9 marzo 2007, n. 5395; Cass. 29 febbraio 2008, n. 5467; Cass. 3 maggio 2016, n. 8687);

che dall’insieme dei surriferiti principi si desume che: a) laddove non sia possibile la contestazione immediata dell’infrazione la pura constatazione dei fatti nella loro materialità non è sufficiente per far decorrere il termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, in quanto tale termine decorre dall’accertamento degli elementi oggettivi e soggettivi dell’illecito; b) l’intera operazione di accertamento deve svolgersi entro un tempo ragionevole, correlato alle caratteristiche ed alla complessità della situazione concreta; c) i ritardi nell’accertamento derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati agli organi competenti non possono andare a discapito del diritto degli ipotizzati autori dell’infrazione ad una tempestiva contestazione;

che il contrasto con il principio di ragionevolezza di disfunzioni e/o sovraccarico e/o inefficienze e/o lungaggini di tipo burocratico che ostacolino la realizzazione di posizioni giuridiche soggettive, senza che il destinatario possa influire sul loro corso, è stato più volte affermato – in linea generale e con riferimento alle più differenti situazioni – sia dalla Corte costituzionale (vedi: sentenze n. 209 e n. 483 del 1995; n. 327 del 1999; n. 35 del 2004), sia dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 24 aprile 2008, procedimenti riuniti C-55/07 e C-56/07; sentenza 12 maggio 2011, C-107/10; sentenza 16 novembre 2016, C-316/15), sia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza 15 settembre 2016, Giorgioni c. Italia; sentenza 23 giugno 2016, Srumia c. Italia; sentenza 2 marzo 2017, Talpis c. Italia), sia dalla giurisprudenza amministrativa (vedi, per tutte: TAR Lazio 6 settembre 2013, n. 8154);

che nell’ordito motivazionale della sentenza impugnata non solo non è rinvenibile alcun riferimento a questa complessa e articolata situazione normativa e giurisprudenziale, ma non viene offerto un reale iter argomentativo che faccia da supporto tecnico alla adottata decisione di rigetto dell’eccezione di decadenza;

che, infatti, al riguardo la Corte d’appello dopo aver affermato in modo del tutto generico che il presente caso richiedeva un’istruttoria complessa – senza neppure dare rilievo al fatto pacifico (non contestato dalla P.A.) che la società e il relativo responsabile avevano ammesso pacificamente di non aver mai chiesto la prescritta autorizzazione e di non aver mai inviato la richiesta comunicazione, dopo aver messo a disposizione della Guardia di Finanza, fin dal 17 luglio 2009, tutta la documentazione richiesta (come risulta anche dalla sentenza di primo grado, esaminabile in questa sede dato il tipo di censure proposte) – si è poi testualmente limitata ad escludere, in modo apodittico, che “le operazioni di accertamento si siano protratte irragionevolmente”, aggiungendo che “tali evidenze non sono certamente messe in crisi dalla considerazione che, per altre analoghe infrazioni, gli organi accertatori abbiano impiegato tempi più contenuti”;

che, pertanto, come fondatamente sottolineato da parte ricorrente – e diversamente da quanto accaduto in casi analoghi (vedi, per tutti: Cass. 30 giugno 2016, n. 13474 cit.) – non risultano illustrate le ragioni per le quali è stato ritenuto non irragionevole l’ampio lasso di tempo (più di un anno) trascorso per lo svolgimento l’accertamento in oggetto; il quale senza alcuna giustificazione si è concluso solo il 27 luglio 2010;

che, come si è detto, pur nell’assenza di limiti temporali predeterminati, in base ad orientamenti costanti di questa Corte, il termine previsto dall’art. 14 cit., comma 2 non può essere dilatato al punto di ritenere non necessaria una adeguata motivazione ogni qualvolta il tempo impiegato per le indagini risulti particolarmente ampio a fronte di operazioni da collocare in un ambito cronologicamente ben definito e oggettivamente di facile esecuzione;

che in detti casi è necessario che il giudice del merito effettui un accertamento puntuale circa le ragioni della congruità di termine più lungo di quello stabilito dal legislatore e ne dia adeguata giustificazione;

che, invece, come rilevano i ricorrenti, nella specie la Corte d’appello si è discostata da tali principi per le suddette ragioni, sicchè la motivazione in forma apodittica con la quale ha respinto l’eccezione di decadenza risulta corrispondere alla nozione di “motivazione apparente” accolta dalla giurisprudenza di questa Corte, la cui denuncia rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis;

che, infatti, la motivazione della sentenza impugnata sul punto relativo alla non irragionevolezza del termine per l’accertamento – considerata di per sè e messa in rapporto con le specifiche censure dei ricorrenti (non utilmente contestate) nonchè con l’articolata motivazione, di segno contrario, del primo Giudice – rende del tutto incomprensibili le ragioni della pronuncia, perchè non ne mostra il percorso logico-giuridico seguito, trascurando di indicare i motivi per i quali non sussisterebbero le dedotte ingiustificate lungaggini burocratiche da parte degli organi competenti derivanti dalla non complessità delle indagini, non essendo certamente utile al riguardo l’affermazione della complessità delle verifiche, effettuata in modo del tutto generico e privo dei dovuti riscontri specifici e puntuali e senza neppure dare rilievo all’avvenuto riconoscimento della commissione dei fatti da parte degli attuali ricorrenti;

che la conseguente impossibilità di individuare l’effettiva ratio decidendi rende meramente apparente la motivazione della sentenza impugnata sul punto, alla stregua della richiamata nozione di “motivazione apparente” (vedi, per tutte: Cass. 17 gennaio 2017, n. 952 e Cass. 5 agosto 2016, n. 16599 nonchè Cass. 3 maggio 2016, n. 8687 cit.);

che, infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte tale fattispecie ricorre allorchè la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico-giuridico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice;

che in questo senso possono citarsi numerose pronunce che convergono nella indicata nozione, talora variamente accentuandone i diversi elementi (ex plurimis, Cass. n. 4891 del 2000; n. 1756 e n. 24985 del 2006; n. 11880 del 2007; n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009; n. 4488 del 2014; Sezioni unite n. 8053 e n. 19881 del 2014);

che l’apparenza della motivazione comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione, in quanto integra un error in procedendo del giudice di merito;

che ne consegue che, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve riconoscersi nulla, sul punto indicato, e va conseguentemente cassata;

che, per effetto di tale accoglimento, il quarto motivo di ricorso va dichiarato assorbito;

che, in sintesi, il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso devono essere accolti e il quarto motivo va dichiarato assorbito;

che la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo, assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2018

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