Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32700 del 18/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 18/12/2018, (ud. 18/09/2018, dep. 18/12/2018), n.32700

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11674-2017 proposto da:

N.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI

NICOTERA 29, presso lo studio dell’Avvocato GIORGIO PIRANI

unitamente agli Avvocati CINZIA GORDINI e TEA POLI dalle quali

rappresentata e difesa giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ASSOCIAZIONE IL PELLICANO, in persona del legale rapp.te pt,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LIEGI N.35/B, presso lo

studio dell’Avvocato ANDREA BANDINI, unitamente all’Avvocato SILVIA

SCOTA dalla quale è rappresentata e difesa in virtù di delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 977/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 02/01/2017; R.G.N. 1008/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/09/2018 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del quarto

motivo del ricorso;

udito l’Avvocato CINZIA GORDINI;

udito l’Avvocato ANDREA BANDINI per delega Avvocato SILVIA SCOTA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 320/2014, ha respinto la domanda proposta da N.M., nei confronti dell’Associazione “Il Pellicano” – Casa di Riposo -, di cui era stata dipendente in qualità di operatrice socio-sanitaria (OSS) 4^ livello CCNL ANASTE dal 15.11.2007 al 21.6.2012 (data in cui aveva rassegnato le dimissioni per giusta causa), diretta: a) all’accertamento della illegittimità delle sanzioni disciplinari irrogatele il 15.11.2010, 27.7.2011, 27.4.2012 e 22.5.2012, con conseguente diritto a percepire quanto indebitamente trattenuto; b) all’accertamento circa la giustificatezza delle assenze alle visite fiscali del 19.11.2011, 26.2.2012, 31.3.2012, 27.4.2012 e 29.4.2012, con conseguente diritto a percepire l’indennità di malattia per intero e con condanna di parte datoriale a corrispondere tutte le somme indebitamente trattenute; c) all’accertamento della giusta causa delle dimissioni rassegnate, con riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di preavviso; d) all’accertamento della condotta mobbizzante adottata nei suoi confronti dall’Associazione e, conseguentemente, al riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni tutti da essa patiti.

2. A seguito di gravame la Corte di appello di Bologna, con la pronuncia n. 977/2016, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato l’illegittimità delle sanzioni disciplinari impugnate e, per l’effetto, ha condannato l’Associazione “Il Pellicano” a restituire alla N. la somma di Euro 64,11, oltre accessori; ha dichiarato, altresì, la carenza di legittimazione passiva dell’Associazione in ordine alla domanda inerente all’indennità di malattia e, nel resto, ha respinto l’appello.

3. Avverso la decisione di secondo grado N.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

4. Ha resistito con controricorso l’Associazione “Il Pellicano”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la nullità della gravata sentenza, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè la Corte di appello, valutando insieme la domanda relativa all’accertamento della giusta causa di dimissioni e la domanda relativa alla violazione dell’art. 2087 cc, aveva omesso di pronunciarsi sulla prima richiesta stante l’autonomia della stessa, in quanto le dimissioni sarebbero state rassegnate anche per eventi estranei alla condotta datoriale e, precisamente, per motivi di salute.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sempre relativamente alt domanda di accertamento della giusta causa di dimissioni, per avere la Corte territoriale ritenuto che anche le suddette dimissioni avevano ad oggetto la condotta datoriale e non, invece, la grave malattia psichiatrica contratta dalla N., che costituiva giusta causa impeditiva della prosecuzione del rapporto di lavoro.

4. Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., art. 81 c.p.c., art. 100 c.p.c., art. 24 Cost., artt. 54 e 55 CCNL ANASTE, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ordine alla domanda di restituzione delle indennità di malattia trattenute dall’azienda perchè la Corte di merito, a fronte di una situazione in cui l’azienda non aveva mai negato di avere ricevuto le somme erogate dall’INPS e in cui solo in appello aveva eccepito la propria carenza di legittimazione passiva, non interpretando in modo esatto le norme della contrattazione collettiva, avrebbe dovuto ritenere correttamente rivolta la domanda nei confronti del datore di lavoro, sia con riferimento all’indennità dovuta dall’INPS che con riferimento a quella integrativa dovuta in via esclusiva dall’azienda.

5. Con il quarto motivo N.M. contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2087 c.c. e art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la sentenza impugnata non aveva dato ingresso alle prove da essa articolate, pur avendo ritenuto ammissibili taluni capitoli ma non avendoli assunti con l’argomentazione secondo cui il relativo onere probatorio non gravava sulla lavoratrice, così violando sia il combinato disposto delle disposizioni in materia di assolvimento sull’onere della prova sia per non avere consentito di provare punti decisivi della controversia che avrebbero determinato l’accoglimento della domanda.

6. Con il quinto motivo si eccepisce la nullità della sentenza ai sensi del combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4, art. 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., per apoditticità, contrarietà e omissione della motivazione e/o motivazione apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui era stata esclusa totalmente l’assunzione delle prove per testi dedotte dalla ricorrente, nonchè la richiesta di rinnovo della CTU medico-legale, sul presupposto – a parere della N. non fondato su alcun riscontro oggettivo – secondo cui, pur ammettendo l’esistenza di una concausa lavorativa che avrebbe provocato la fase acuta della patologia, tuttavia non si sarebbe potuto comunque giungere alla conclusione di ritenere la lavoratrice vittima di una condotta persecutoria o vessatoria finalizzata alla sua emarginazione.

7. Con il sesto motivo la N. lamenta la nullità della sentenza, ai sensi del combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4, art. 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., art. 11 Cost., per apoditticità, contrarietà e omissione della motivazione e/o motivazione apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte relativa alla domanda riguardante le singole condotte datoriali, indipendentemente dalla configurazione delle fattispecie di “mobbing” o di straining”, per non essere stato esplicitato, nè essendo desumibile, il percorso logico che avevano seguito i giudici di secondo grado per respingere la domanda di accertamento della responsabilità della azienda per le condotte poste in essere in violazione degli obblighi generali di tutela previsti e sanciti dall’art. 2087 c.c., anche con riguardo ai singoli comportamenti tenuti dalla stessa azienda, in relazione alla patologia psico-fisica contratta dalla lavoratrice.

8. Con il settimo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,2104,2105,2106 e 2087 c.c. e dell’art. 2087c.c. e dell’art. 41 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la gravata sentenza aveva escluso l’illegittimità delle singole condotte datoriali, anche in assenza della particolare fattispecie denominata “mobbing”; deduce che la presenza di un uso strumentale delle sanzioni disciplinari e delle visite fiscali comunque sarebbe stata idonea a configurare la violazione dell’art. 2087 c.c., con il conseguente accoglimento della formulata domanda risarcitoria.

9. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro interdipendenza logico-giuridica, sono inammissibili.

10. Invero, a fronte del denunziato vizio di omessa pronuncia in ordine alla domanda di accertamento della giusta causa di dimissioni rapportata non alla condotta datoriale, bensì a motivi estranei ad essa e, in particolare, a ragioni di salute, la ricorrente avrebbe dovuto specificare il “dove” ed il “quando” la suddetta questione era stata sottoposta i giudici del merito negli esatti e precisi termini con i quali è stata oggetto del ricorso per cassazione (cfr. Cass. 13.6.2018 n. 15430). Invero, tutta la impostazione difensiva della lavoratrice, sia in sede disciplinare che giurisdizionale, fu su tale punto impostata sulla censura del comportamento datoriale quale giusta causa delle dimissioni e non su altre ragioni.

11. La doglianza di cui al primo motivo è, invece, estremamente generica e la problematica prospettata investe, pertanto, una questione che può definirsi nuova, non ammissibile in sede di legittimità perchè non rientrante in questioni rilevabili di ufficio o nell’ambito di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto (in termini Cass. n. 4787/2012; Cass. n. 3881/1998), in quanto richiedente l’espletamento di nuovi accertamenti e l’analisi di nuovi temi di indagine.

12. Ne consegue la sua inammissibilità e l’assorbimento della dedotta violazione di legge di cui all’art. 2119 c.c. fondata sul medesimo presupposto di fatto.

13. Anche il terzo motivo è inammissibile.

14. In primo luogo, infatti, difetta di specificità perchè nel ricorso non viene riportato il testo delle disposizioni contrattuali collettive al fine di indicare il dato letterale posto a sostegno della opzione interpretativa secondo la quale la legittimazione passivà restituire le somme trattenute e poi erogate a titolo di indennità di malattia sarebbe in capo alla società e non all’INPS. Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata della loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, con la conseguenza che il motivo di ricorso deve possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione (cfr. Cass. 21.4.2005 n. 8296; Cass. 13.2.2006 n. 3075).

15. In secondo luogo, deve evidenziarsi che non risulta censurato l’assunto della Corte di merito secondo cui i provvedimenti di giustificazione dell’INPS, per le assenze della lavoratrice, erano tutti intervenuti a rapporto di lavoro già concluso (21.6.2012), di talchè non era possibile ipotizzare una legittimazione passiva del datore di lavoro che non avrebbe potuto trattenere alcunchè a titolo di indennità di malattia non essendo la dipendente ritenuta assente a tale titolo.

16. Il quarto motivo è infondato.

17. I giudici di seconde cure hanno, con una motivazione logica e completa, esaminato la ammissibilità e la rilevanza di tutti i capitoli di prova per testi articolati dalla originaria ricorrente.

18. In particolare, alcuni sono stati ritenuti (con la precisa indicazione numerica di essi) inammissibili perchè generici o perchè implicanti giudizi rimessi al testimone ovvero perchè gli elementi che si intendeva dimostrare già risultavano da documenti: tale valutazione non è stata confutata specificamente, essendosi la N. limitata a reiterare l’ammissibilità dei capitoli medesimi.

19. Altri sono stati effettivamente, come sostiene la ricorrente, considerati ammissibili, ma non assunti (le circostanze inerenti gli addebiti disciplinari), sul presupposto che l’onere probatorio non gravava sulla lavoratrice: ma sul punto la ricorrente non può dolersi perchè comunque dalla Corte territoriale è stata affermata, in riforma della sentenza di primo grado, l’illegittimità delle sanzioni disciplinari irrogate, per cui dalla loro mancata ammissione alcun pregiudizio ne è derivato all’istante; nè, come si vedrà in seguito relativamente al 7 motivo, l’eventuale ammissione avrebbe determinato con un giudizio di certezza e non di mera probabilità l’invalidità delle altre risultanze istruttorie (in termini Cass. n. 13959/2014; Cass. n. 5377/2011).

20. Altri, infine, con una valutazione insindacabile in sede di legittimità perchè attinente, in sostanza, ad un apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie, sono stati ritenuti irrilevanti in quanto, anche se ammessi, non sarebbero stati idonei a dimostrare la tesi di una volontà di emarginazione o di mobbing, da parte del datore di lavoro, nei confronti della N..

21. Le dedotte violazioni di legge, nei termini indicati nella doglianza, non sono quindi ravvisabili.

22. Il quinto ed il sesto motivo, connessi perchè con entrambi si censura l’apoditticità, contrarietà e omissione della motivazione e/o motivazione apparente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, sia in ordine alla esclusione della articolata prova per testi o alla richiesta di rinnovo della ctu, sia con riguardo alla domanda relativa alle singole condotte datoriali, indipendentemente dalla configurazione delle fattispecie di “mobbing” o di “straining”, non sono meritevoli di pregio.

23. Invero, in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli un’obiettiva carenza nell’indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, rinviando genericamente e per relationem al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, nè disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. 21.12.2010 n. 25866).

24. La conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, infatti, non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di una adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata.

25. Nel caso in esame, a differenza di quanto sostiene la ricorrente, non è assolutamente evincibile la violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 perchè la gravata pronuncia, sotto il profilo motivazionale, ha un thema e una ratio decidendi chiaramente intellegibile sui punti oggetto delle censure, sicchè non se ne può affermare la nullità alla luce dei richiamati principi di diritto.

26. Il settimo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.

27. E’ infondato perchè, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nella illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, di modo che la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perchè, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata (cfr. Cass. 10.11.2017 n. 26684).

28. Correttamente, quindi, la Corte territoriale ha valorizzato e ha considerato necessaria anche la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo.

29. E’ inammissibile perchè, ancorchè sotto il profilo della violazione di legge, le censure si sostanziano nella critica della ricostruzione fattuale operata dalla Corte territoriale, insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di un controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

30. E sotto questo profilo la Corte ha svolto un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite ed immune da contraddizioni e vizi logico-giuridici, escludendo la possibilità di evincere dagli atti e dalle prove articolate una volontà di emarginazione della lavoratrice o comunque condizioni lavorative stressanti e “stressogene”.

31. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

32. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

33. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2018

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