Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32689 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. II, 12/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 12/12/2019), n.32689

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORIAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16147-2018 proposto da:

CONGRESS ITALIA s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore M.M., rappresentata e difesa dagli Avvocati

BRUNO FORTE e MASSIMO FICHERA, ed elettivamente domiciliata, presso

lo studio dell’Avv. Maria Cuozzo, in ROMA, VIA GUALTIERO SERAFINO

20;

– ricorrente –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, presso

la quale domicilia ex lege in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 4302/2017 della CORTE d’APPELLO di VENEZIA,

depositato il 27/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/09/2019 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con ricorso la CONGRESS ITALIA S.R.L. chiedeva alla Corte d’Appello di Venezia l’equa riparazione per l’irragionevole durata di un giudizio civile svoltosi in due gradi di merito.

Con Decreto n. 2356 del 2017, all’esito della fase monitoria, la Corte d’Appello rigettava il ricorso, ritenendo che alcun indennizzo poteva essere riconosciuto alla parte ricorrente, attesa la sua consapevolezza, quanto meno sopravvenuta, dell’infondatezza delle domande proposte. Rilevava la Corte che la durata del giudizio di primo grado (17.12.2004 – 13.5.2007) non aveva ecceduto il termine di ragionevole durata di 3 anni e che l’eccezione di inammissibilità dell’appello, proposto dalla Congress Italia s.r.l. oltre il termine di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, era stata formulata dall’appellata in data 24.12.2007, per cui la Congress aveva acquisito la consapevolezza dell’inammissibilità dell’impugnazione ben prima che il procedimento presupposto avesse superato il termine di ragionevole durata del procedimento di primo e secondo grado.

Avverso detto decreto proponeva opposizione la ricorrente censurando l’operato della Corte di merito, che aveva valutato solo la fase di appello senza tenere conto che le ragioni coltivate in primo grado non erano state ritenute manifestamente infondate.

Con decreto n. 4302/2017, depositato in data 27.11.2017, la Corte d’Appello di Venezia rigettava anche l’opposizione ritenendo che l’opponente dovesse conoscere l’intervenuta decadenza dalla facoltà di impugnare, per i motivi esplicitati nella sentenza n. 2026/2015 della Corte d’Appello di Venezia, in presenza di specifica eccezione formulata da una parte appellata già in limine litis.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione la Congress Italia s.r.l. sulla base di due motivi; resiste il Ministero della Giustizia con controricorso.

1. – Con il primo capitolo, la società ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 2, comma 2-quinquies”. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 6, par. 1 CEDU. – Violazione, errata e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dei principi in materia di onere della prova”, osservando che il giudizio di appello (del processo presupposto) si era risolto nella valutazione circa la tempestività della notificazione della sentenza di primo grado, intervenuta presso un domicilio legale non più valido perchè tempestivamente e ritualmente variato nel corso del giudizio di primo grado. La circostanza che la controparte (in quel giudizio) avesse dedotto la tardività dell’appello fin dalla comparsa di costituzione lasciava la Corte d’Appello libera di aderire alle eccezioni, ragioni e conclusioni della Congress, ritenendo l’appello ammissibile. Invece, la Corte di merito aveva rigettato la domanda di equa riparazione sull’erroneo e indimostrato presupposto che la domanda azionata in quel processo sarebbe stata inammissibile e destinata a essere rigettata fin dall’inizio del giudizio di appello. In questo modo la Corte territoriale sconfinava indebitamente in un campo di valutazione alla stessa precluso (quello del merito del giudizio a quo). La ricorrente evidenzia che la Suprema Corte, già nella vigenza della precedente normativa, aveva affermato il principio – ora previsto nell’art. 2, comma 2-quinquies – per cui il diritto all’equa riparazione spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica e/o importanza del giudizio, salvo i casi di lite temeraria, restando irrilevante la consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria. Quanto poi alla dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., essa sottolinea che dell’esistenza delle situazioni accennate deve dare prova puntuale l’Amministrazione.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – Sebbene sia consolidato (di recente, Cass. n. 595 del 2019) il principio secondo cui il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto, deve tuttavia osservarsi che il paterna da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorchè la parte rimasta soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria (ovvero l’abbia proseguita nonostante la sopravvenuta inconsistenza delle ragioni addotte), difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza (ex plurimis, Cass. n. 22150 del 2016; Cass. n. 21315 del 2015; ma v. anche Cass. n. 10500 del 2011; Cass. n. 25595 del 2008 e Cass. n. 17650 del 2002).

Peraltro, una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall’incertezza dell’esito della lite può essere originaria o sopravvenuta, secondo che la consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio (Cass. 22150 del 2016, cit.; Cass. n. 4890 del 2015).

1.3. – La Corte territoriale ha specificamente rilevato come fosse evidente che la parte dovesse aver conosciuto l’intervenuta decadenza della facoltà di impugnare, per i motivi esplicitati nella sentenza n. 2026 del 2015, resa nel giudizio presupposto, in presenza di specifica eccezione formulata da parte appellata già in limine litis in data 24.12.2007. Ed ha soggiunto che l’opponente non avesse dunque motivo per dolersi circa i tempi di definizione del giudizio di appello di detto processo, “dovendo aver maturato fin da allora (dicembre 2007) la consapevolezza dell’esito del giudizio mediante ineludibile pronuncia in rito”, allorquando la Corte di merito aveva provveduto a rigettare l’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza ed a fissare l’udienza di precisazione delle conclusioni.

Sicchè, indipendentemente dalle sue originarie aspettative, l’odierna ricorrente era comunque divenuta consapevole della preclusione processuale in cui era incorsa, attesa la consumazione della facoltà di impugnare, e dunque della “sopravvenuta” situazione contemplata dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. a), per effetto di decadenza “e ciò ben prima che il processo avesse superato il termine di durata ragionevole” (decreto impugnato, pagine 3 e 4).

Trattasi, all’evidenza, di una valutazione di fatto delle risultanze istruttorie congrua e plausibile (e senza alcuna inversione dell’onere della prova); come tale, sottratta al sindacato di legittimità. Invero, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione un fatto, la cui esistenza sia soggetta alla rilevata sussistenza o meno di prove a sostegno, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

1.4. – Per completezza motivazionale si osserva, poi, che in base al alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, dal citato D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. a), n. 3), le conclusioni non cambiano, nel senso che l’abuso del processo per effetto della temerarietà della lite osta al riconoscimento dell’equo indennizzo anche in mancanza di un provvedimento di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto l’elencazione contenuta in detto comma 2-quinquies non ha carattere tassativo.

Milita a favore di tale affermazione, innanzi tutto, l’assenza di elementi d’indole letterale idonei a supporre che l’indennizzo, fermo il danno (presunto o accertato), sia ammesso in ogni altra ipotesi diversa da quelle elencate dalla norma; in secondo luogo, la lett. f) del comma 2 – quinquies cit. lascia intendere che il legislatore, tipizzate alcune ipotesi di abuso (nelle lett. da a) ad e)), abbia voluto lasciare aperta la possibilità di individuarne altre di pari livello. La tipizzazione delle ipotesi di cui al comma 2-quinquies cit. reagisce sulla fattispecie concreta attraverso il vincolo che pone all’interprete: in particolare, va osservato che detta norma sottrae al giudice, in presenza di una condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., ogni possibilità di apprezzare il caso specifico, di guisa che il diritto all’indennizzo è senz’altro escluso; correlativamente, l’assenza di un provvedimento di condanna per responsabilità aggravata restituisce al giudice il potere di valutare la condotta tenuta dalla parte nel processo presupposto e di pervenire se del caso ad un giudizio di temerarietà della lite non formulato dal giudice di quella causa.

L’inesistenza nel giudizio presupposto di una condanna per responsabilità aggravata ben può dipendere, infatti, da fattori del tutto accidentali, quali l’assenza di domanda o il difetto di prova del danno, nelle ipotesi dei primi due commi dell’art. 96 c.p.c., ovvero il mancato esercizio del potere officioso ma discrezionale che il comma 3 di detta norma assegna al giudice. In questi casi nulla autorizza a ritenere che la parte soccombente non abbia agito o resistito in giudizio con la consapevolezza del proprio torto: semplicemente, non vi è stato alcun accertamento al riguardo. Del resto sarebbe del tutto illogico sopprimere nel procedimento d’equa riparazione ogni altro rilievo della mala fede processuale (non già esclusa, ma) non valutata nel giudizio presupposto, vincolando il giudice ad un giudizio di non temerarietà della lite non altrimenti motivato e motivabile.

Se ne deve, quindi, concludere che l’ipotesi di abuso del processo di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e b, non esaurisce l’incidenza della temerarietà della lite sul diritto all’equa riparazione, essendo consentito al giudice di pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento e, pertanto, il giudice del procedimento ex L. n. 89 del 2001 può valutare – e poteva farlo anche nella previgente disciplina – anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. D’altra parte, il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato sostanzialmente recepito dal legislatore il quale, appunto, con la L. n. 208 del 2015, ha modificato la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, prevedendo che “non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c.” (Cass. n. 595 del 2019).

2. – Con il secondo motivo, la società ricorrente deduce la “Violazione degli artt. 117 e 111 Cost., – Violazione degli artt. 6 par. 1, 13 e 41 CEDU. – Violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e 3 e del rinvio della stessa legge alla CEDU Violazione dell’art. 13 della CEDU e omessa immediata e diretta applicabilità della stessa in Italia – Violazione e falsa applicazione dell’art. 34 CEDU (nozione di vittima)”, in quanto la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere a rilevare l’an dell’eccessiva durata e della sussistenza del danno utilizzando le disposizioni internazionali e la loro elaborazione giurisprudenziale come validi criteri di interpretazione delle norme interne.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – In tema di ricorso per cassazione, va rilevato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

2.3. – La censura si risolve, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze emerse nel corso del procedimento, deducendo la lesione di varie norme nazionali e convenzionali. Ma il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento delle risultanze istruttorie motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

Così facendo, però, la ricorrente mostra di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e e le vicende processuali, quanto gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi, e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018). Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Non va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 1.500,00, oltre a spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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