Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32642 del 17/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 17/12/2018, (ud. 10/10/2018, dep. 17/12/2018), n.32642

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. – Agenzia delle Entrate ricorre avverso una sentenza delle Commissione Tributaria regionale della Campania, che, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto gravare sul Fisco la dimostrazione delle esterovestizione di una società.

In particolare, I.G. ha conferito nella società inglese Gabry Ltd. beni immobili di sua proprietà (siti in Italia) a contropartita dell’aumento di capitale.

Il notaio rogante ha applicato al conferimento del bene la tariffa agevolativa, in misura fissa, prevista (D.P.R. n. 131 del 1986, art. 4) per i casi in cui la società destinataria del conferimento ha sede in uno Stato membro dell’Unione Europea.

Secondo il Fisco, la Gabry solo apparentemente è società estera, avendo invece il centro principale dei suoi interessi in Italia, con la conseguenza che al conferimento andava applicato il regime ordinario, a tassazione proporzionale e non fissa.

2. – I giudici di merito hanno entrambi accolto il ricorso del I. (soggetto conferente e dunque tenuto alla imposta) sostenendo che l’onere di dimostrare che la società è in realtà solo apparentemente estera gravava sul Fisco, che non vi ha però adempiuto appieno.

Agenzia delle Entrate ricorre con un motivo, con cui fa valere violazione di legge (art. 2697 c.c.) in tema di onere della prova, sostenendo che il D.P.R. n. 9017 del 1986, art. 73, fa gravare tale onere sul contribuente.

V’è controricorso del contribuente. Quest’ultimo ha rinunciato al motivo di appello incidentale, che concerneva l’omessa notifica dell’avviso di liquidazione e, nel merito, ha chiesto il rigetto del ricorso principale.

3. – Il motivo di ricorso è inammissibile.

Agenzia delle Entrate deduce un’erronea interpretazione del D.P.R. n. 9017, art. 73 e dell’art. 2967 c.c., sostenendo che i giudici di merito hanno errato nel ritenere gravante sul Fisco l’onere di provare la esterovestizione.

Questa censura però è infondata.

Invero l’art. 73 cit. (“ai fini delle imposte sui redditi si considerano residente le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”) non è una regola sulla distribuzione dell’onere probatorio, ma una regola che pone una presunzione di esterovestizione in presenza di alcuni indici. In pratica la norma consente al Fisco di giovarsi di una presunzione per dimostrare che la società è solo apparentemente estera, ma in realtà opera in Italia.

Il fatto che una norma consenta al Fisco di avvalersi di una presunzione non vuol dire che fa gravare l’onere della prova sulla controparte (che ovviamente, ma è questione diversa, ha semmai l’onere di vincere la presunzione); ha piuttosto proprio il significato contrario di assegnare tale onere al Fisco, consentendogli però di assolverlo mediante una presunzione favorevole in presenza di alcuni indici.

Altro discorso, si ripete, è che poi l’onere di vincere la presunzione gravi sul contribuente.

La sentenza impugnata correttamente ritiene che l’onere della prova gravi sul Fisco, e che quest’ultimo, per vincerla, può avvalersi di presunzioni, conformemente del resto ad un orientamento di questa Corte, per il quale è necessario l’accertamento in concreto della artificiosità della collocazione estera di una società per poter ritenere che la sede effettiva è invece in Italia (Cass. n. 2869 del 2013).

Agenzia delle Entrate invero fa questione diversa, ritenendo implicitamente di avere assolto l’onere della prova, allegando elementi presuntivi della fittizietà della collocazione estera, e ritenendo che il contribuente non ha smentito tale presunzione. Ma questa è una questione diversa da quella che riguarda, in astratto, la ripartizione dell’onere probatorio iniziale, oggetto del motivo di ricorso. Ed è una questione che non coglie la ratio della decisione impugnata, la quale non fa gravare, in modo errato, l’onere della prova sul Fisco, piuttosto ritiene che il Fisco non l’abbia assolto adeguatamente.

Il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di 4100,00 Euro, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2018

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