Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 326 del 10/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 10/01/2017, (ud. 29/09/2016, dep.10/01/2017),  n. 326

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17295/2014 proposto da:

I.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTON

GIULIO BARRILLI 49, presso io studio dell’avvocato DANIEL DE VITO,

rappresentato e difeso dall’avvocato VALERIO FREDA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4486/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 20/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/09/2016 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito l’Avvocato FREDA Valerio, difensore del ricorrente che si

riporta agli atti;

udito l’Avvocato TORTORA Fabio, (Avv. Generale dello Stato) difensore

del resistente che si riporta agli atti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. I.O. ha proposto ricorso contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze per la cassazione della sentenza con cui la corte d’appello di Napoli, riformando la sentenza del Tribunale di Ariano Irpino, ha rigettato l’opposizione da lui proposto avversa l’ordinanza ingiunzione con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze gli aveva applicato una sanzione pecuniaria di ammontare pari al 5% dell’importo delle transazioni in contanti da lui effettuate tra il 2003 ed il 2004 presso la Cassa Arianese di Mutualità (di seguito, C.A.M.), della quale era socio, ritenendolo responsabile dell’illecito amministrativo di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 1, convertito in legge con la L. n. 197 del 1991; tale articolo (abrogato nell’ambito della revisione della disciplina antiriciclaggio operata con il D.Lgs. n. 231 del 2007, ma applicabile alla fattispecie ratione temporis) vietava le transazioni finanziarie in contanti senza il tramite di intermediari abilitati per importi eccedenti il limite di Euro 12.500 (originariamente, Lire 20.000.000).

Il ricorso si articola su cinque motivi.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha resistito con controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 29.9.16, per la quale non sono state depositate memorie illustrative ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tre la parti ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Al riguardo il ricorrente deduce che:

con uno specifico motivo di appello incidentale egli aveva riproposto in secondo grado un motivo di opposizione, su cui il tribunale non si era pronunciato, concernente il difetto di prova delle violazioni contestategli e, in particolare, il rilievo che la Guardia di Finanza aveva fondato il proprio accertamento esclusivamente sulle risultanze della “prima nota cassa”, documento non costituente scrittura contabile obbligatoria e non contenente la prova che le somme ivi registrate fossero state trasferite in contanti;

la corte partenopea ha disatteso la suddetta doglianza, giudicandola, per un verso, inammissibile, in quanto tardiva, affermando che in primo grado l’opponente non aveva specificamente contestato l’effettuazione delle operazioni in contanti; per altro verso, infondata, affermando che tali operazioni erano state accertate dalla Guardia di Finanza sulla base della documentazione rinvenuta presso la stessa società (libri sociali, registri cartacei ed archivio informatico);

la motivazione della sentenza di secondo grado dovrebbe giudicarsi viziata in quanto nella stessa, per un verso, si trascura il fatto storico che nel ricorso introduttivo era stato specificamente contestato che le operazioni in questione potessero integrare un trasferimento di denaro in contante e, per altro verso, si trascura il fatto storico che la documentazione sulla cui base la Guardia di Finanza aveva operato le proprie valutazioni non era stata acquisita agli atti di causa, avendo l’Amministrazione prodotto esclusivamente il verbale di accertamento con, allegate, le prime note di cassa.

Il motivo deve essere disatteso.

Premesso che nel presente procedimento trova applicazione, in ragione della data di deposito della sentenza gravata, il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con la L. n. 134 del 2012, il Collegio osserva:

per un verso, che la censura relativa all’omesso esame del fatto che l’effettuazione delle operazioni in questione era stata specificamente contestata nel ricorso introduttivo si risolve nella manifestazione di un dissenso sulle conclusioni della disamina che la corte distrettuale ha operato in ordine al contenuto delle difese della parte ricorrente;

per altro verso, che il fatto storico della mancata acquisizione agli atti di causa della documentazione sulla cui base la Guardia di Finanza aveva riscontrato le prime note di cassa (libri sociali, registri cartacei, archivio informatico della C.A.M.) è privo del carattere della decisività, perchè non risulta autonomamente in grado di infirmare il giudizio della corte territoriale secondo cui le conclusioni tratte dalla Guardia di Finanza dal riscontro delle prime note di cassa (allegate al verbale di accertamento) con la documentazione reperita presso la C.A.M. (libri sociali, registri cartacei, archivio informatico) dovevano ritenersi, in difetto di specifiche contestazioni sul verbale di accertamento, idonee a dimostrare l’effettuazione delle operazioni in contanti.

Il motivo di ricorso, quindi, lungi dal prospettare un’omessa disamina di fatti decisivi, mira piuttosto a contestare la valutazione di idoneità probatoria dei mezzi di prova che il giudice di merito ha ritenuto di porre a fondamento della propria decisione, risolvendosi in una censura che, anche alla luce della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sarebbe stata preclusa in sede di legittimità (in tal senso si veda il costante principio per il quale i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, cfr. Cass. n. 20518/08; Cass. n. 22901/05; Cass. n. 15693/04; Cass. n. 11936/03).

Con il secondo motivo di ricorso – riferito al vizio di violazione di legge, in relazione al D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, art. 4, commi 1 e 2 e art. 6, commi 1 e 4 bis, in relazione al disposto di cui all’art. 106 T.U.B. – il ricorrente censura la statuizione della sentenza gravata che ha ritenuto che la C.A.M. non fosse abilitata allo svolgimento di operazioni extra soglia in denaro contante ai sensi del D.L. n. 143 del 1991, art. 4 (ora abrogato dal D.Lgs. n. 231 del 2007, ma applicabile alla fattispecie ratione temporis), sul rilievo che la stessa non rientrava tra i soggetti abilitati ex lege ai sensi del comma 1, di tale articolo e non aveva ricevuto I’ abilitazione ministeriale di cui al comma 2 del medesimo articolo.

Nel mezzo di gravame si argomenta che la C.A.M. – poichè già effettuava le suddette operazioni in contanti alla data entrata in vigore del D.L. n. 143 del 1991 (essendo stata costituita l’1 marzo 1989) – doveva ritenersi abilitata alla movimentazione extra soglia di denaro contante in base al disposto del D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis (“Gli intermediari di cui ai commi 2 e 2 bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del presente decreto possono continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”). Secondo il ricorrente, in sostanza, la preesistenza della società rispetto all’emanazione del D.L. n. 143 del 1991, implicherebbe che la stessa, con la semplice comunicazione all’U.I.C., avrebbe potuto ottenere non soltanto la possibilità di continuare ad esercitare le attività di cui dell’art. 6, commi 2 e 2 bis di tale decreto legge, venendo iscritta nell’elenco, previsto dello stesso art. 6, comma 1, degli intermediari abilitati all’esercizio in via prevalente delle attività indicate nell’art. 4, comma 2 del medesimo D.L. (“concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzione di partecipazioni; intermediazione in cambi; servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito”); ma anche la possibilità di (continuare a) compiere operazioni di movimentazione di denaro contante oltre i limiti imposti del ripetuto D.L. n. 143 del 1991, art. 1.

La tesi del ricorrente non può trovare accoglimento, perchè risulta in contrasto con il tenore letterale delle disposizioni in questione. Infatti, posto che l’elenco di cui dell’art. 6, comma 1 (successivamente sostituito dall’elenco di cui al D.Ls. n. 385 del 1993, art. 106 T.U.B.) serviva a definire i soggetti che potevano giovarsi della qualifica di intermediari di cui dell’art. 4, comma 2, l’inserimento in tale elenco (consentito, alla condizione di una semplice comunicazione all’U.I.C., ai soggetti che già prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 143 del 1991, esercitavano le attività di cui dello stesso art. 6, commi 2 e 2 bis, giusta il disposto del comma 4 bis del medesimo articolo) non implicava l’automatico riconoscimento della possibilità di poter effettuare operazioni di trasferimento di contante.

La legittimità delle operazioni in contanti extra soglia postulava infatti uno specifico provvedimento ministeriale abilitativo e nessun appiglio letterale consente di interpretare del D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis, nel senso che la comunicazione all’U.I.C. ivi contemplata facoltizzasse i soggetti che già prima dell’entrata in vigore del decreto legge esercitavano le attività di cui dello stesso art. 6, commi 2 e 2 bis, non soltanto a continuare ad esercitare tali attività (venendo iscritti nell’elenco di cui dello stesso art. 6, comma 1) ma anche a continuare ad effettuare operazioni in contanti extra soglia senza l’abilitazione ministeriale di cui dell’art. 4, comma 2.

Nè la nota 13.2.92 con la quale l’U.I.C. comunicò alla C.A.M. l’avvenuta iscrizione nell’elenco degli intermediari di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 1, poteva essere intesa alla stregua di un’implicita abilitazione ex art. 4, comma 2, dello stesso D.L., giacchè, come accertato nella sentenza impugnata, tale nota conteneva alcun “riferimento agli obblighi dettagliatamente indicati dai primi tre articoli della più volte richiamata L. n. 197 del 1991, che, specificamente, riguardano le operazioni di trasferimento di denaro contante” (pagina 10, secondo cpv, della sentenza gravata); e, ciò, a prescindere dal rilievo, di per se stesso tranciante, che detta nota proveniva dall’U.I.C., mentre l’Amministrazione competente al rilascio dell’abilitazione all’effettuazione di operazioni in contanti extra soglia era il Ministero del Tesoro.

Del resto, dal dettato del D.L. n. 143 del 1991, art. 4, comma 2, emerge chiaramente, laddove si prevedeva che l’abilitazione all’effettuazione di trasferimento di contanti andasse rilasciata “su richiesta”, l’inesistenza di un nesso necessario tra l’esercizio prevalente di una delle attività elencate in tale comma (e quindi l’iscrizione nell’elenco di cui dell’art. 6, comma 1 dello stesso D.L., ora sostituito dall’elenco di cui all’art. 106 T.U.B) e la titolarità dell’abilitazione (che l’intermediario poteva anche non richiedere) all’effettuazione di operazioni in contanti extra soglia; d’onde l’insostenibilità dell’assunto secondo cui tutti gli intermediari che esercitavano le attività di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, commi 2 e 2 bis, già all’epoca dell’emanazione di tale decreto legge si sarebbero dovuti ritenere automaticamente abilitati all’effettuazione di operazioni in contanti sol perchè essi, con la tempestiva comunicazione all’U.I.C. di cui del D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis, potevano continuare ad esercitare le attività di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, commi 2 e 2 bis, ed essere iscritti nell’elenco di cui al comma 1 dello stesso articolo.

Da ultimo, milita in senso contrario alla tesi prospettata dal ricorrente anche l’interpretazione teleologica delle norme, in quanto la finalità del D.L. n. 143 del 1991, era quella di porre un freno all’utilizzo del contante in vista del contrasto alle operazioni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita, aumentando di conseguenza le garanzie di trasparenza e tracciabilità delle operazioni di movimentazione del contante; tale ratio legis risulterebbe palesemente vanificata da una interpretazione della normativa che ammettesse la possibilità di continuare ad effettuare operazioni di trasferimento di denaro contante, senza una previa abilitazione da parte del Ministero, per gli intermediari di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 4, comma 2, già operanti alla data di entrata in vigore del decreto legge.

Il motivo pertanto deve essere rigettato.

Con il terzo ed il quarto motivo del ricorso – rispettivamente riferiti al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tre la parti ex art. 360 c.p.c., n. 5, ed al vizio di nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4, per motivazione apparente – si censura la statuizione della corte d’appello che, disattendendo l’assunto dell’opponente secondo cui la violazione era stato compiuta per errore scusabile, ha ritenuto sussistente, nella specie, l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo.

In particolare, con il terzo motivo il ricorrente argomenta che la corte partenopea sarebbe incorsa in un errore di prospettiva, giudicando la fattispecie come se fosse stato dedotto un errore di diritto, laddove nell’opposizione all’ordinanza ingiunzione si invocava un incolpevole errore di fatto, ossia un errore sul fatto che la C.A.M. fosse abilitata alla movimentazione extra soglia di denaro contante. Secondo il ricorrente tale errore di prospettiva avrebbe indotto la corte territoriale a trascurare l’esame di elementi di fatto decisivi quali:

a) il fatto, di per se stesso dimostrativo della incertezza obiettiva del dato normativo, che tre sentenze del Tribunale di Ariano Irpino avevano riconosciuto alla C.A.M. la qualifica di intermediario abilitato;

b) il fatto, desumibile da una perizia giurata in atti, che la C.A.M. aveva effettuato oltre 39.000 operazioni in contanti nel periodo dal 1993 al 2004; fatto idoneo, secondo il ricorrente, a ingenerare la convinzione che si trattasse di una pratica legittima e che, quindi, la C.A.M. fosse regolarmente autorizzata al relativo esercizio;

c) il fatto, desumibile da una perizia disposta in sede penale, che nel periodo in contestazione la C.A.M. aveva tenuto una condotta pienamente osservante degli obblighi formali imposti dalla normativa antiriciclaggio, omettendo la segnalazione delle operazioni in contanti solo in 5 casi (qualificati come errore materiale dallo stesso perito del Pubblico Ministero) su 1.190;

d) il fatto, che, come contestato alla stessa C.A.M. dall’U.I.C., nei locali della società non erano stati rinvenuti avvisi o fogli informativi e, d’altra parte, l’uso della denominazione “Cassa” era idonea a trarre in inganno sulla legittimazione della stessa C.A.M. al compimento di attività bancaria.

e) Il fatto che l’opponente aveva effettuato soltanto quattro delle 1.205 operazioni in contanti contestate alla C.A.M..

Il motivo non può trovare accoglimento.

Premesso che, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, la sentenza gravata ha messo precisamente a fuoco che l’errore in cui il ricorrente assumeva di essere incolpevolmente incorso concerneva non l’esistenza del divieto legale di movimentazione di contanti extra soglia ma il fatto che la C.A.M. fosse munita dell’ abilitazione a tale movimentazione (si veda, in particolare, pag. 12, ultimo rigo, della sentenza gravata, ove appunto si afferma che un’attenta lettura del D.L. n. 143 del 1991, avrebbe consentito di comprendere che la semplice iscrizione nell’elenco di cui al comma 1 del relativo articolo 6 non equivaleva ad un’abilitazione al compimento di operazioni in contanti), risulta determinante la considerazione che le circostanze di fatto di cui si lamenta l’omesso esame, sopra sintetizzate, non posseggono il requisito della decisività di cui al nuovo testo (applicabile ratione temporis nel presente giudizio, come già sopra precisato) dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

I fatti sopra elencati nei punti da a) ad e) dell’elenco che precede non possono infatti ritenersi idonei, di per se stessi, a sovvertire l’accertamento della corte distrettuale secondo cui l’errore dell’opponente sulla abilitazione della C.A.M. all’effettuazione di operazioni in contanti non poteva ritenersi incolpevole, perchè anche l’esistenza di una consolidata prassi di esecuzione di tali operazioni, quand’anche effettivamente nota all’opponente, non avrebbe comunque giustificato l’errore commesso da “chi abbia fatto cieco affidamento sul comportamento altrui, presumendo lecito solo perchè usuale, soprattutto se tenuto da chi, come la C.A.M., non svolge funzioni pubbliche” (pag. 14, terzo cpv, della sentenza gravata).

La censura proposta con il terzo mezzo di ricorso si risolve dunque, in definitiva, nella prospettazione di doglianze di puro merito, atteggiandosi con una inammissibile richiesta alla Corte di cassazione di sostituirsi alla corte territoriale nell’apprezzamento e nella valutazione delle emergenze istruttorie. Al riguardo va ricordato che, per integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è necessario – come questa Corte aveva chiarito già in relazione al testo di tale disposizione anteriore alla modifica recata dal D.L. n. 83 del 2012, enunciando principi validi a fortiori dopo tale modifica – che i fatti in ordine ai quali si lamenta l’omessa o insufficiente motivazione (o di cui, nei procedimenti in cui si applica il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si lamenta l’omesso esame) siano “di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito” (così Cass. nn. 25756/14, 24092/13, 14973/06).

La ampiezza e diffusività della motivazione della sentenza gravata consente poi di escludere la fondatezza del quarto motivo di ricorso, avendo la corte distrettuale, esaminato i vari elementi addotti dal ricorrente a giustificazione della tesi circa la carenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, escludendone la fondatezza, con motivazione immune da vizi logici, nell’esercizio dei poteri di apprezzamento del fatto propri del giudice di merito.

Con il quinto motivo di ricorso, anch’esso riferito al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, il ricorrente attinge la statuizione di rigetto del motivo di appello incidentale con cui l’opponente aveva reiterato la richiesta, già avanzata in prime cure, di riduzione dell’importo della sanzione.

La corte di appello ha disatteso detta doglianza ritenendo la percentuale del 5% delle somme oggetto di trasferimento proporzionata alla gravità soggettiva della violazione ed assumendo che quello della gravità soggettiva era, tra i criteri fissati dall’articolo 11 della L. n. 689 del 1981, per la determinazione dell’entità delle sanzioni amministrative pecuniarie, l’unico che nella specie potesse essere preso concretamente in considerazione a favore dell’opponente, “nulla di particolare emergendo dalle risultanze processuali quanto agli altri” (pag. 15, secondo cpv, della sentenza gravata).

Il ricorrente lamenta che la sentenza gravata non abbia considerato che la misura percentuale della sanzione a lui applicata risultava uguale a quella applicata per la determinazione della sanzione irrogata alla C.A.M. ed abbia conseguentemente omesso di valutare che esso opponente:

aveva compiuto pochissime operazioni in contanti, a fronte delle oltre mille operazioni compiute dalla C.A.M.;

non era un operatore professionale del settore di riferimento;

aveva una consistenza patrimoniale non paragonabile a quella della C.A.M.. In definitiva, nel mezzo di ricorso, si lamenta che la corte distrettuale abbia trascurato i parametri di valutazione dell’entità della sanzione, indicati dalla L. n. 689 del 1981, art. 11, relativi alla gravità della violazione, alla personalità del trasgressore ed alle sue condizioni economiche.

Il motivo non può trovare accoglimento.

Costituisce infatti orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte, quello per il quale (cfr. Cass. n. 9255/2013), in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, nè la Corte di Cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta (conf. Cass. n. 5877/04; Cass. n. 6778/15; Cass. n. 2406/16).

Ne consegue che, poichè la corte distrettuale ha applicato la sanzione nel rispetto dei limiti edittali ed ha dato conto di aver compiuto una valutazione legata ai criteri previsti per legge per la graduazione della sanzione (affermando specificamente, come sopra riportato, che l’unico criterio concretamente utilizzabile risultava essere quello della gravità soggettiva, giacchè in relazione agli altri criteri nulla di rilevante emergeva dagli atti di causa) la doglianza non può trovare accoglimento.

Può inoltre aggiungersi, sempre alla luce del nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che l’identità tra la percentuale sanzionatoria applicata all’opponente e quella applicata alla C.A.M. non costituisce fatto decisivo, il cui esame avrebbe certamente indotto il giudice di merito a conclusioni diverse in punto di quantificazione della sanzione, giacchè proprio il ben più rilevante importo delle operazioni poste in essere dalla C.A.M. assicura, a parità di percentuale sanzionatoria, la maggiore afflittività della sanzione alla stessa irrogata In definitiva tutte i motivi ricorso vanno disattesi.

Le spese del giudizio di legittimità si compensano in ragione della mancanza di precedenti di legittimità sulla questione di diritto posta con il secondo motivo del ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, D.Lgs. n. 546 del 1992, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, D.Lgs. n. 546 del 1992, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2017

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