Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32597 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2019, (ud. 11/10/2019, dep. 12/12/2019), n.32597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4587/15 R.G. proposto da:

M.M., rappresentato e difeso, giusta procura a margine

del ricorso, dagli avv.ti Sebastiano Stufano e Massimo Scardigli,

con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Viale

Angelico n. 36/B;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria del Veneto n.

1051/18/14 depositata in data 23 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 11 ottobre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

M.M. propone sette motivi di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata con la quale la Commissione tributaria regionale del Veneto, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto legittimo l’accertamento, con metodo sintetico, di maggiore IRPEF in relazione all’anno d’imposta 2006 notificatogli in esito ad un processo verbale di constatazione del 2 febbraio 2009, con il quale la Guardia di Finanza aveva dato atto del rinvenimento, sulla persona del contribuente, della somma di Euro 50.000,00 in banconote e di quattro fogli attestanti la detenzione all’estero di somme, nonchè in esito a successivo processo verbale di constatazione del 25 novembre 2010, fondato su una segnalazione delle autorità fiscali francesi, dalla quale risultava una scheda intestata al contribuente presso la filiale di Ginevra dell’istituto HSBC Bank.

I giudici regionali, in particolare, hanno ritenuto che l’Agenzia delle Entrate avesse correttamente utilizzato l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, avendo l’indagine preso le mosse da fatti certi (le banconote ed i fogli rinvenuti in possesso del contribuente) che attestavano in modo inequivocabile disponibilità finanziarie dalle quali potevano presumersi redditi non dichiarati.

Hanno rilevato che il contribuente non aveva prodotto alcuna prova documentale idonea a giustificare la natura di tali proventi, tanto che aveva negato la loro esistenza e solo dopo l’accertamento aveva prodotto una lettera della Banca svizzera, inattendibile perchè contraddetta dalle ripetute negazioni del contribuente, e hanno considerato del tutto legittima l’acquisizione delle informazioni trasmesse dall’autorità francese in ossequio ai canali di collaborazione internazionale previsti dalla direttiva 77/799/CEE; hanno infine respinto il motivo di gravame concernente le sanzioni, considerando corretto il computo fatto dall’Ufficio.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di censura il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, lamentando che la motivazione resa dalla Commissione regionale, nella parte in cui nega rilevanza ed attendibilità al documento emesso dall’istituto bancario elvetico, risulta del tutto omessa o soltanto apparente ed è comunque viziata da manifesta illogicità.

1.1. La censura è infondata.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. n. 22232 del 3/11/2016).

Ciò non ricorre nel caso in esame, laddove la Commissione regionale, sia pure con motivazione sintetica, nel confermare l’atto impositivo, ha ritenuto sussistenti i presupposti richiesti per il ricorso al metodo di accertamento sintetico di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e non rilevante la prova contraria offerta dal contribuente, considerando inattendibile la lettera proveniente dalla Banca svizzera.

Trattasi di motivazione che esplicita le ragioni della decisione, per cui i profili di genericità ed apoditticità della motivazione, pure censurati con il mezzo in esame, non viziano tale motivazione in modo così radicale da renderla meramente apparente e da escludere l’idoneità della stessa ad assolvere la funzione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4, 5 e 6, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 50 e del D.Lgs. n. 360 del 1998, art. 1, nonchè degli artt. 23 e 53 Cost., per avere i giudici di appello ritenuto corretta la ricostruzione sintetica operata dall’Ufficio.

Ribadisce che nel giudizio di merito ha dimostrato l’insussistenza dei presupposti di applicazione dell’accertamento sintetico del reddito, atteso che il solo rinvenimento (in data 10 luglio 2008) di un documento anonimo, composto da quattro fogli dattiloscritti, privi di intestazione e di indicazioni, non costituisce fatto-indice certo, ma può solo fornire indizi circa la riconducibilità delle disponibilità finanziarie al contribuente; si tratta, peraltro, di documento che non attesta l’effettuazione di una spesa per incrementi patrimoniali, ma che rappresenta una presunta situazione contabile statica, dato che fotografa gli investimenti finanziari esistenti, senza indicare movimentazioni finanziarie in entrata o in uscita.

L’Ufficio, ad avviso del ricorrente, ha inoltre confusamente ripartito le disponibilità finanziarie, desunte dalla documentazione acquisita, in dieci anni e per importi diversi in assenza dei requisiti previsti dal quarto e dal comma 5 dell’art. 38 citato.

2.1. Occorre premettere che l’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, nel disciplinare il metodo di accertamento sintetico del reddito, nel testo vigente ratione temporis (ossia tra la L. n. 413 del 1991 ed il D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010), prevede, al comma 4, la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento, e, al comma 5, contempla le “spese per incrementi patrimoniali” sostenute per l’acquisto di beni destinati ad incrementare in modo durevole il patrimonio del contribuente.

2.2. La disponibilità dei beni – indice costituisce una presunzione di “capacità contributiva” da qualificare “legale” ai sensi dell’art. 2728 c.c., perchè è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto certo di tale disponibilità la esistenza di una “capacità contributiva” e, pertanto, il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici “elementi indicatori di capacità contributiva” esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali “elementi” la capacità presuntiva “contributiva” che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perchè già sottoposta ad imposta o perchè esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma (Cass. n. 16284 del 23/7/2007; Cass. n. 17487 del 1/9/2016).

2.3. Ai sensi dell’art. 38 cit., comma 6, resta salva la facoltà, per il contribuente, di offrire la prova contraria, consistente nella dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, con riguardo alla complessiva posizione reddituale dell’intero suo nucleo familiare (Cass. n. 5365 del 7/3/2014) e comunque nella prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass. n. 9539 del 19/4/2013).

2.4. Tale onere va assolto dimostrando l’esistenza e l’entità di una pregressa e legittima disponibilità finanziaria, oltre alla durata del possesso della stessa (Cass. n. 8995 del 18/4/2014; Cass. n. 25104 del 26/11/2014; Cass. 6396 del 30/3/2015; Cass. n. 14885 del 16/7/2015), in quanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, prevede anche che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

2.5. Al fine di delineare i confini della prova contraria a carico del contribuente, questa Corte ha precisato (Cass. n. 8995 del 18/4/2014; Cass. n. 25104 del 26/11/2014) che “la norma chiede qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenuta alla fonte), e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). In tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico, quali, ad esempio, un ulteriore investimento finanziario, perchè in tal caso essi non sarebbero ovviamente utili a giustificare le spese e/o il tenore di vita accertato, i quali dovrebbero pertanto ascriversi a redditi non dichiarati”.

2.6. Nel caso in esame, la Commissione regionale ha ritenuto che l’accertamento svolto dall’Ufficio si fondi su fatti certi – ossia le banconote ed il documento composto da quattro fogli, contenenti appunti riferiti a specifiche operazioni finanziarie, rinvenuti in possesso del contribuente – e che sia provata la riferibilità al contribuente delle disponibilità finanziarie estere emergenti dalle annotazioni contenute nella medesima documentazione, trattandosi di maggiori redditi non dichiarati di cui il contribuente non ha saputo fornire giustificazione.

Ha, in sostanza, considerato che la legittimità dell’accertamento sintetico discende dalla prova, piena e inconfutabile, della titolarità degli importi esteri in capo al contribuente, facendo a tal fine applicazione del principio secondo cui la comprovata disponibilità, da parte del contribuente, di un determinato cespite rilevante ex art. 2728 c.c. non consente al giudice tributario di negare a tale elemento il valore presuntivo di capacità contributiva direttamente derivante dalla legge, ma gli impone soltanto di valutare la eventuale prova contraria offerta in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per conseguire e mantenere tale disponibilità.

2.6. L’apprezzamento svolto non contrasta con il disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, se si considera che i giudici di merito hanno attribuito rilevanza probatoria alle annotazioni apposte dallo stesso contribuente a margine dei quattro fogli trovati in suo possesso, “contenenti appunti riferiti a specifiche partite, accantonamenti, depositi e operazioni finanziarie”, sulla base dei quali l’Amministrazione finanziaria aveva ricostruito la cronologia degli incrementi patrimoniali, e hanno al contempo escluso che la prova fornita dal contribuente, ossia la lettera della Banca elvetica – dalla quale emergeva una disponibilità di capitale in capo al contribuente già dal 1997 – in difetto di ulteriori riscontri – potesse da sola essere idonea a scalfire le risultanze a cui era pervenuto l’Ufficio e, quindi, a dimostrare l’avvenuta acquisizione di disponibilità finanziarie estere in epoca diversa ed incompatibile con le rettifiche operate dall’Ufficio sul reddito relativo all’anno d’imposta in contestazione.

L’accertamento svolto dai giudici di appello non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, se non nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non essendo consentito alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere da parte del giudice di legittimità la revisione degli accertamenti di fatto già compiuti dal giudice di merito, sicchè le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito o investire la ricostruzione della fattispecie concreta o comunque riflettere un apprezzamento dei fatti o delle prove difformi da quello dato dal giudice (Cass. n. 13954 del 14/6/2007).

3. Con il terzo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 191 c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70, nonchè dell’art. 53 Cost., per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto utilizzabili i dati desunti dalla cd. “lista Falciani” illecitamente acquisiti.

4. Con il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e lamenta che la decisione impugnata si è limitata a ritenere utilizzabile la Lista Falciani senza illustrare il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione di riconoscere alla stessa rilevanza probatoria.

5. Il terzo motivo è infondato.

5.1. Questo Collegio intende dare continuità ai principi di diritto enunciati da questa Corte con le ordinanze gemelle n. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, non sussistendo valide ragioni logico-giuridiche per discostarsene.

Va ribadito, in linea generale, che il diritto interno, sia in materia di imposte dirette sia in materia di imposta sul valore aggiunto, consente l’acquisizione nel corso dell’accertamento fiscale e, successivamente, nel processo tributario, di elementi comunque acquisiti e, dunque, di prove atipiche, o di dati ottenuti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni tipici della prova per presunzioni.

Gli elementi assunti a fonte di presunzioni non debbono, peraltro, essere plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purchè preciso e grave, mentre la valutazione della sua rilevanza non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e non contraddittoria (Cass. n. 656 del 15/1/2014).

La prova per presunzioni può, pertanto, essere costituita anche da acquisizioni provenienti da una autorità straniera nell’ambito di direttive comunitarie o di accordi bilaterali.

5.2. Nel caso di specie, la fonte è costituita dalla direttiva 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte.

Come è stato chiarito dalla Corte di giustizia – Corte Giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, la direttiva 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, dato che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme; ne discende che il contribuente può contestare le informazioni che lo riguardono trasmesse all’amministrazione fiscale dello Stato membro richiedente secondo le norme e le procedure applicabili nello Stato membro interessato e spetta al giudice nazionale stabilire il valore probatorio che deve essere riconosciuto, nel caso specifico, all’informazione comunicata da uno Stato membro in base alla direttiva 77/799.

Occorre rammentare che la direttiva 77/799/CEE (art. 8) non impone l’obbligo di trasmettere informazioni quando la legislazione o la pratica amministrativa non autorizza l’autorità competente dello Stato che dovrebbe fornire le informazioni a raccogliere o utilizzare dette informazioni o quando porterebbe a divulgare un segreto commerciale, industriale o professionale o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico.

Conseguentemente la cooperazione informativa non incontra un limite nel cd. segreto bancario, come chiarisce la direttiva 2011/16/UE, all’art. 18 (“…non può in nessun caso essere interpretato nel senso di autorizzare l’autorità interpellata di uno Stato membro a rifiutare di fornire informazioni solamente perchè tali informazioni sono detenute da una banca, da un altro istituto finanziario, da una persona desigata o che agisce in qualità di agente o fiduciario o perchè si riferiscono agli interessi proprietari di una persona”); e ciò è del tutto coerente con il diritto interno stante la disciplina in materia di accesso ai dati bancari introdotta dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, non costituendo il segreto bancario, anche nel regime anteriore, un principio inderogabile (Cass. 21580 del 7/11/2005).

5.3. Anche se i dati costituenti il frutto di cooperazione informativa intracomunitaria restano contestabili dal contribuente, il quale può, dunque, mettere in discussione, nell’ambito di un procedimento tributario nazionale, la correttezza delle informazioni fornite da altri Stati membri ai sensi della direttiva 77/799/CEE, art. 2 e pur dovendo negarsi che la mera acquisizione di informazioni mediante lo strumento di cooperazione comunitaria abbia la capacità di “purgare” gli elementi acquisiti da eventuali illegittimità o vizi per la sola derivazione da autorità estere, deve parimenti escludersi la inutilizzabilità degli elementi trasmessi dall’autorità fiscale francese in ragione della loro provenienza illecita – ossia dal trafugamento dei dati bancari da parte di un ex dipendente della banca svizzera HSBC, F.H..

La cooperazione informativa in tema di disponibilità bancarie presso istituti esteri non trova, infatti, ostacolo nel fatto che i dati sensibili siano forniti alle autorità italiane dalle autorità di un Paese membro dell’UE che le riceva da un dipendente di una banca che li abbia illecitamente sottratti dai relativi archivi informatici.

La Corte Europea, esaminando il profilo relativo alla legittimità, ai sensi dell’art. 6 CEDU, dell’utilizzo all’interno del processo della prova così acquisita, ha affermato che l’utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per se stessa violazione convenzionale dovendosi valutare se la procedura nel suo insieme avesse rispettato i canoni del giusto processo ed i diritti della difesa (caso Heglas c. Repubblica Ceca); analoghe soluzioni sono state adottate nei casi P.G. e J.H. c. Regno Unito e Khan c. Regno Unito.

Nella giurisprudenza nazionale, la Cassazione penale (Cass. n. 34294 del 21/8/2008, Cassano) afferma che vi è lesione di diritti fondamentali solo nel caso di acquisizione e utilizzo di prove che siano in contrasto con il principio basilare del divieto di influire sulla libertà di autodeterminazione e che pregiudichino la libertà morale.

Peraltro, questa Corte, con la ordinanza n. 8605/15, ha già avuto modo di chiarire che la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio, sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. n. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20), ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 12/11/2010; Cass. n. 13121 del 25/7/2012). Si riconosce quindi, generalmente, che “… non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) (cfr. Cass. n. 24923 del 2011). Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 c.p.p., a norma del quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”.

Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che, in materia tributaria, la irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento non comporta, di per sè e in assenza di specifica previsione, la loro inutilizzabilità, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (Cass. 4066 del 27/2/2015; Cass. 27149 del 16/12/2011); di contro, alla base della riservatezza dei rapporti tra banche e clienti non ci sono valori della persona umana da tutelare, ma ci sono solo interessi patrimoniali ed istituzioni economiche.

5.4. Neppure può farsi discendere la inutilizzabilità degli elementi desunti dalla cd. “lista F.” dalla condotta illecita a monte dell’azione dell’Ufficio fiscale francese, essendo essa riferibile personalmente al solo F.H..

Sul punto questa Corte con le ordinanze gemelle nn. 8605 e 8606 del 28/4/2015 ha precisato che “…l’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista – questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia (v. art. 7 c.p. rispetto alle ipotesi delittuose per le quali è astrattamente profilabile una competenza del giudice italiano in relazione a condotte commesse all’estero) – e comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi – v. sul punto, la pronunzia della Cassazione penale francese del novembre 2013 (Cour de Cassation criminelle, 27.11.2014, ric. 13-85042) che ha espressamente riconosciuto l’utilizzazione – addirittura in ambito penale – della Lista F. sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubblica”.

5.5. Va, pertanto, ribadito il principio di diritto già espresso da questa Corte con la sentenza n. 16951 del 19 agosto 2015, secondo cui “L’amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, senza che assuma rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’istituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, che non godono di copertura costituzionale e di tutela legale nei confronti del fisco medesimo. Spetta al giudice di merito, in caso di rilievi avanzati dall’Amministrazione, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro delle contestazioni mosse dal contribuente”.

La Commissione regionale, ritenendo legittimamente acquisiti i dati e le informazioni trasmesse dall’autorità fiscale francese, si è uniformata ai principi di diritto sopra richiamati.

6. Anche il quarto motivo è infondato.

6.1. Come già sopra evidenziato, si ha motivazione omessa o apparente quando il giudice di merito, in violazione dell’obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost.), omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi di fatto e di diritto da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro disamina logico-giuridica tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. Sez. U, n. 22232 del 3/11/2016; Cass. n. 14927 del 15/6/2017).

6.2. Nel caso di specie, i giudici di appello, con motivazione adeguata ed esaustiva, uniformandosi ai principi sopra richiamati, hanno evidenziato che l’acquisizione delle informazioni provenienti dalle autorità francesi è del tutto legittima, perchè rispondente ai canali di collaborazione informativa internazionale previsti dalla direttiva 77/799/CEE, recepiti nel nostro ordinamento con il D.P.R. n. 506/1992, e che esula dalle competenze del giudice di merito verificre se il percorso attraverso il quale le informazioni siano state acquisite dalle autorità straniere siano corrispondenti alle disposizioni legislative dei paesi di provenienza; richiamando precedenti di questa Corte di legittimità (Cass. n. 326 del 2019 e Cass. n. 8273 del 2011), hanno pure sottolineato che nel processo tributario rileva soltanto l’attendibilità delle prove e non i modi in cui le stesse sono state acquisite, sicchè, ove l’acquisizione non sia conforme alle regole, tale irregolarità non determina l’inutilizzabilità delle prove stesse.

7. Con il quinto e con il sesto motivo il ricorrente, con i quali si denucia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, il contribuente deduce che dalla decisione impugnata non emergono le ragioni di fatto e di diritto che hanno condotto i giudici di secondo grado alla conclusione di riconoscere rilevanza probatoria agli elementi posti a fondamento dell’avviso di accertamento e che i giudici di appello neppure hanno reso una motivazione rispetto allo specifico motivo di gravame con il quale si contestava che l’Ufficio avesse operato una ricostruzione sintetica dei redditi diversa dalle ricostruzioni operate con riguardo agli anni 2002 e 2003.

7.1. Entrambe le censure sono infondate, considerato che la motivazione resa dalla Commissione regionale consente di comprendere le ragioni ed il percorso argomentativo seguito per addivenire al riconoscimento di piena legittimità dell’atto impositivo.

Peraltro, tenuto conto della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv, in L. 7 agosto 2012, n. 134, può essere denunciata in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, dovendosi escludere qualsiasi rilevanza al semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7 aprile 2014).

8. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e lamenta che i giudici di appello, a fronte del motivo di gravame con il quale era stata rilevata l’errata determinazione delle sanzioni irrogate per infedele dichiarazione, in ragione della violazione della cd. “continuazione” prevista dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, hanno reso una motivazione carente, considerato che in giudizio erano stati depositati gli avvisi di accertamento emessi per gli anni 2002 e 2004, con i quali l’Ufficio aveva contestato le medesime violazioni indicate nell’avviso di accertamento emesso per l’anno 2006.

8.1. La censura è infondata.

Alla luce del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22232 del 3 novembre 2016, la motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alle sanzioni applicate, non integra una ipotesi di motivazione apparente, in quanto non omette di illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta.

Infatti, affrontando la questione, la Commissione regionale ha spiegato che il beneficio previsto dal citato art. 12 era stato riconosciuto in favore del contribuente con riguardo agli accertamenti relativi agli anni d’imposta dal 2004 al 2006, in quanto le violazioni contestate avevano la stessa natura, ma non poteva comprendere anche le contestazioni elevate in relazione agli anni 2002 e 2003, poichè esse riguardavano violazioni diverse fondate sull’esistenza di giacenze finanziarie presso una banca estera e sulla redditività non dichiarata.

Tali argomentazioni estrinsecano il percorso argomentativo che ha indotto i giudici di appello a respingere il motivo di gravame.

9. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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