Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32592 del 17/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 17/12/2018, (ud. 24/09/2018, dep. 17/12/2018), n.32592

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17762-2013 proposto da:

P.M.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

V.FILIPPO NICOLAI 22, presso lo studio dell’avvocato MARCO

CERICHELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO BUSIRI VICI;

– ricorrente –

contro

AMBITO TERRITORIALE INTEGRATO N. (OMISSIS) DELL’UMBRIA (ATI N.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8,

presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, rappresentato e

difeso dall’avvocato ALARICO MARIANI MARINI;

AMBITO TERRITORIALE INTEGRATO N. (OMISSIS) DELL’UMBRIA (ATI N

(OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8,

presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, rappresentato e

difeso dall’avvocato FABIO AMICI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 151/2012 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 09/08/2012 R.G.N. 26/2011.

Fatto

FATTO E DIRITTO

RILEVATO CHE:

1. La Corte di appello di Perugia, con sentenza depositata il 9 agosto 2012, accogliendo l’impugnazione proposta dall’Ambito Territoriale Integrato n.(OMISSIS) dell’Umbria, ha riformato la sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Perugia aveva condannato l’A.T.I. al pagamento, in favore della dipendente P.M.R., della somma di Euro 18.469,20 a titolo di risarcimento del danno da demansionamento.

2. La lavoratrice aveva dedotto che l’A.T.I., in corrispondenza del suo rientro dal congedo per maternità (giugno 2003), l’aveva di fatto esclusa da buona parte dei suoi compiti originari, relegandola alla gestione del settore scarichi, e che nel dicembre 2004 le aveva attribuito un diverso settore del servizio, privandola anche dell’unità subordinata prevista dal relativo organico, lasciandola senza indicazioni circa le mansioni rientranti nella astratta previsione organizzativa, sicchè i suoi compiti si erano sostanzialmente ridotti al riscontro dei periodici controlli da effettuarsi sulle acque per garantirne la fruibilità.

3. La Corte di appello ha invece accreditato la tesi di parte convenuta secondo cui il mutamento di mansioni era giustificato dalla circostanza che, durante l’assenza dal lavoro della P., i compiti dell’Ente erano mutati in ragione dell’avvenuto completamento del Piano d’Ambito ed erano ormai rivolti principalmente all’attività di controllo e vigilanza sulla gestione dei servizi idrici.

In sintesi, per quanto ancora qui rileva, la Corte territoriale ha osservato che, con la delibera n. 3 del 19.3.2003, l’ATI aveva rimodulato la propria organizzazione interna in funzione della diversa attività cui far fronte e che le attività assegnate all’ing. P. riguardavano la verifica degli standard qualitativi del servizio idrico in conformità alla convenzione e alla carta dei servizi, il controllo dei programmi e delle politiche di contenimento delle perdite, la cura dell’aggiornamento dei regolamenti di gestione e il rapporto con gli utenti con istruttoria delle relative pratiche, lo svolgimento delle statistiche e la rilevazione dei dati gestionali nonchè la predisposizione dei programmi pubblici di investimento. Ha aggiunto che l’avvenuta sottrazione di un’unità in organico presso tale servizio non poteva costituire, di per sè, un demansionamento e che, inoltre, la presenza della P. al lavoro era limitata a undici ore settimanali, circostanza anch’essa non priva di incidenza sulle mansioni svolte.

4. Per la cassazione di tale sentenza P.M.R. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui resiste ATI 1 e ATI 2 dell’Umbria con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. (inserito dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1, lett. f, conv. in L. n. 25 ottobre 2016, n. 197).

CONSIDERATO CHE:

1. Entrambi i motivi del ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5), censurano la sentenza per: a) travisamento dei fatti di causa in relazione all’affermazione della limitata presenza al lavoro della ricorrente, posto che solo nel settembre 2004 avvenne la trasformazione dell’orario di lavoro in part-time; b) omessa considerazione delle risultanze dell’istruttoria testimoniale che, se valorizzate, avrebbero fatto emergere che l’ing. P.M.R. si occupava solo delle “non conformità”, attività per la quale impiegava pochi minuti a settimana, situazione sovrapponibile ad uno svuotamento delle mansioni; c) omessa verifica comparativa tra le mansioni svolte anteriormente al periodo di astensione dal lavoro e quelle assegnate successivamente, pur tenendo conto delle modifiche nel frattempo intervenute. Si assume che tale comparazione avrebbe consentito di rilevare la non equivalenza ai sensi dell’art. 2103 cod. civ.: l’ing. P. fino al giugno 2003 ricopriva un ruolo di primissimo piano all’interno dell’A.T.I. n. (OMISSIS) dell’Umbria, partecipava alle riunioni e al processo decisionale, coordinava i dipendenti della struttura, rappresentava l’Ente in occasione degli incontri anche ufficiali con le istituzioni e con i privati; successivamente, ha lavorato in assoluta solitudine, non è stata portata a conoscenza delle strategie e degli obiettivi dell’Ente e le è stato assegnato solamente il compito semplice di segnalare le c.d. “non conformità”, senza aver alcun margine di autonomia nè di possibilità di sfruttamento del proprio bagaglio culturale e di esperienze maturato in oltre dieci anni di attività lavorativa.

2. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la connessione delle relative questioni giuridiche, sono infondati.

3. In punto di diritto, va osservato che la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale.

In questa ottica, il D.Lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all’art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1).

La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto di equivalenza “formale”, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A..

3.1. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l’art. 2103 cod. civ., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica e alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396 del 2011; Cass. n. 18283 del 2010; Cass. Sez. Un. n. 8740 del 2008; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016).

3.2 Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo. Condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).

Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l’equivalenti, sono esigibili e l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.

Resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa. Trattasi di questione che, tuttavia – giova rimarcare esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonchè Cass. n. 687 del 2014).

4. Alla stregua della sentenza impugnata, risulta positivamente accertato che la posizione organizzativa attribuita all’ing. P. con il riassetto organizzativo attuato dall’Ente corrispondesse, nell’organizzazione degli uffici, al pari di quelle in precedenza assegnate, alla categoria di inquadramento posseduta dalla ricorrente (Funzionario tecnico cat. D3). La circostanza non è neppure stata oggetto di specifica contestazione dinanzi al giudice di merito, essendo sostanzialmente pacifica.

Anche nel giudizio di legittimità la tesi della ricorrente è incentrata sull’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ. e sulla necessità della comparazione tra le mansioni svolte prima e dopo il riassetto organizzativo, tesi errata in diritto per tutto quanto sopra osservato.

5. Escluso il diritto del dipendente pubblico a permanere in un determinata posizione alla stregua di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, l’assegnazione alle nuove mansioni, ritenute corrispondenti nel mutato assetto organizzativo al livello di inquadramento posseduto dalla ricorrente, in quanto ritenute dai giudici di merito formalmente equivalenti, non costituisce violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52.

6. In ordine alla presunta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. In L. n. 134 del 2012, non applicabile ratione temporis), Vale ricordare che il vizio di motivazione può rilevare solo nei limiti in cui l’apprezzamento delle prove – liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto – si sia tradotto in un iter formativo di convincimento affetto da vizi logici o giuridici, restando altrimenti insindacabile.

La decisione del giudice di appello si è basa sul contenuto di due delibere, la n. 3 del 19 marzo 2003, adottata quando la ricorrente era in astensione per maternità, mediante la quale l’Ente rimodulò la propria organizzazione interna a seguito dell’approvazione del Piano d’Ambito, e la delibera n. 53 del 20 dicembre 2004, nella quale furono indicate le mansioni assegnate alla ricorrente in conseguenza della riorganizzazione del personale disposta dal Direttore. Nessun vizio logico è stato denunciato circa l’ordine argomentativo della sentenza impugnata, in quanto la presunta omessa motivazione si risolve nel tentativo di opporre una diversa ricostruzione dei fatti mediante la valorizzazione di elementi diversi da quelli indicati dal giudice di appello o di opporre una diversa interpretazione di quelli valorizzati da tale giudice.

6.1. Come è noto, l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v., ex plurimis, Cass. n. 6288 del 2011).

6.2. L’ipotizzato svuotamento completo delle mansioni non è ravvisabile nella ricostruzione fattuale compiuta dal giudice di appello, che ha viceversa evidenziato come le mansioni assegnate al rientro dal periodo di astensione per maternità non fossero assenti o meramente apparenti, ma coerenti con le nuove esigenze del servizio scaturenti dal mutato assetto organizzativo e altresì con il ridotto impegno orario della P..

7. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

8. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.500,00 per compensi professionali e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2018

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