Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32590 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2019, (ud. 09/10/2019, dep. 12/12/2019), n.32590

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6905/2015 R.G. proposto da:

R.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Nicola Pagnotta e

dall’Avv. Stefania Martin, con domicilio eletto presso lo studio del

primo, in Roma, Via Francesco Denza n. 15, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 1274/24/2014, depositata il 29 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 ottobre

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.L’Agenzia delle entrate, a seguito di processo verbale di constatazione, emetteva avviso di accertamento nei confronti di R.C., dipendente della Guardia di finanza, ritenendo che questi, negli anni dal 2003 al 2006, avesse svolto attività di procacciatore di affari nel settore immobiliare, per conto di alcune società a responsabilità limitata, in due delle quali sua moglie era socia con partecipazione dell’8 %. In particolare, a seguito dell’accesso in sede (con il rinvenimento di un computer sito presso una società e nella disponibilità del contribuente) e delle dichiarazioni dei titolari delle società e di alcuni clienti, veniva attribuita d’ufficio la partita Iva al contribuente, con la conseguente verifica del conto corrente bancario intestato al R. ed alla moglie e con la individuazione di movimenti ritenuti non corrispondenti alle retribuzioni del primo, percepite come dipendente della pubblica amministrazione, nè attribuibili alla moglie. Per l’anno 2006, i versamenti erano di Euro 40.450,00, mentre i prelevamenti erano di Euro 56.300,00, con recupero a tassazione ai fini Irpef, Irap ed Iva.

2.11 R. presentava ricorso deducendo, tra l’altro, per quel che qui ancora rileva, l’illegittimità della pretesa fiscale perchè priva di supporto probatorio, l’attribuzione dei movimenti sul conto cointestato ai coniugi, l’insussistenza del, carattere di continuità della sua collaborazione, trattandosi, al più, di attività solo occasionale, l’illegittimità della presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in qualità di lavoratore dipendente, la non applicabilità dell’Irap, in assenza del presupposto della autonoma organizzazione.

3.La Commissione tributaria provinciale di Padova accoglieva in parte il ricorso, non riconoscendo le riprese a tassazione per Iva e Irap, in assenza di esercizio di attività di impresa, per la mancanza di attività organizzata ed abituale, stante l’assenza di collaboratori e di mezzi, essendo il R. un lavoratore dipendente. Non si potevano sommare, poi, i versamenti ed i prelevamenti, siccchè si confermavano come ricavi i soli versamenti sii conto non giustificati per la somma complessiva di Euro 40.450,00.

4.Proponeva appello l’Agenzia delle entrate rilevando che il contribuente aveva svolto attività di impresa di procacciatore di affari, desumibile dalle dichiarazioni dei titolari delle società e degli acquirenti degli appartamenti. Inoltre, evidenziava che era a carico del contribuente la dimostrazione della insussistenza dell’autonoma organizzazione ai fini Irap. I risultati degli accertamenti bancari, poi, costituivano una presunzione legale iuris tantum sicchè il contribuente non aveva fornito la prova contraria della irrilevanza reddituale delle movimentazioni bancarie rinvenute sul conto cointestato.

5.Proponeva appello incidentale il contribuente che contestava l’illegittimo accesso presso la sua abitazione, l’illegittima estensione dell’indagine alla autovettura ed al computer, l’illegittima attribuzione d’ufficio della partita Iva, l’occultamento di un numero rilevante di dichiarazioni di terzi che escludevano la partecipazione del R. all’attività delle società immobiliari. Il contribuente, poi, rilevava che le operazioni di cui alle movimentazioni bancarie erano riferibili alla moglie cointestataria dei medesimi conti correnti, socia di due delle società, peraltro, a ristretta base.

6.La Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva l’appello principale proposto dall’Ufficio e rigettava l’appello incidentale del contribuente, rilevando che il R. aveva svolto attività di procacciatore di affari nel settore immobiliare in modo continuativo, come emergeva dalle dichiarazioni dei soci e dei collaboratori della FP Service, oltre che da quelle dei clienti, dal rinvenimento presso la FP Service di un computer recante il nominativo “carmelor”, dalla presenza di un cellulare che compariva nelle trattative di affari. Il contribuente non aveva fornito la prova contraria in ordine alla presunzione legale relativa di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in relazione alle operazioni rinvenute nel conto corrente bancario cointestato. Nè era stata prodotta documentazione che attestava l’esistenza di avvisi di accertamento nei confronti delle società, per redditi occulti, riferibili, quindi, anche alla moglie del R., quale socia di società a ristretta base partecipativa. I prelevamenti potevano essere sommati ai versamenti, trattandosi di attività di impresa.

7.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, depositando anche memoria scritta.

8.Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, violazione del diritto di difesa L. n. 212 del 2000, ex art. 12, e norme costituzionali e comunitarie”, in quanto la verifica fiscale ha violato i principi di imparzialità, oggettività, correttezza, lealtà e buona fede dell’azione amministrativa, avendo la Guardia di finanza occultato, non allegandole al processo verbale di constatazione, un numero rilevante di dichiarazioni di terzi, tali da privare di ogni fondamento le pretese erariali. Il contribuente ha, comunque, allegato le dichiarazioni di 5 clienti, rinvenute fortuitamente. La Guardia di finanza deve, invece, raccogliere sia prove a carico del contribuente sia prove a discarico. Inoltre, ai sensi dell’art. 41, comma 2, primo paragrafo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione eurpea, vi è il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio.

2.Con il secondo motivo di impugnazione (rubricato sub 1 bis a pagina 19 del ricorso per cassazione) il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, le nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36,1 e 61”, in quanto la Commissione regionale non ha pronunciato sullo specifico motivo di appello in ordine alla illegittimità dell’atto impugnato per violazione dei principi di rango costituzionale di imparzialità, oggettività, correttezza, lealtà e buona fede (artt. 3 e 97 Cost.), oltre che di inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e di collaborazione (L. n. 212 del 2000, art. 10).

2.1.1 motivi primo e secondo, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

2.2.Invero, deve premettersi che la Commissione regionale ha accolto in toto l’appello principale proposto dalla Agenzia delle entrate, mentre ha rigettato l’appello incidentale del contribuente, sicchè le doglianze da questi avanzate sono state rigettate tutte, anche in modo implicito.

Infatti, per questa Corte non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass., 29191/2017).

Inoltre, si evidenzia che il giudice di appello ha fornito risposta sulla questione della asserita mancata allegazione al processo verbale di constatazione delle ulteriori dichiarazioni rese dai clienti delle società, che avrebbero escluso la partecipazione del R. all’attività di collaborazione con le stesse quale procacciatore di affari. Il giudice di appello ha ritenuto che non vi era prova della esistenza di tali ulteriori dichiarazioni e che, comunque, quelle in atti consentivano di dimostrare che il R. svolgeva attività professionale di procacciatore di affari (“le eccezioni del contribuente relative alla probabile presenza di numerose altre dichiarazioni di clienti favorevoli allo stesso non esibite dai verificatori non sono probabilmente infondate, ma comunque si tratta di affermazioni non provate. In ogni caso le suddette testimonianze sono sufficienti a provare l’esistenza di una attività di procacciatore di affari svolta in maniera abituale e non occasionale”).

Peraltro, non v’è stata neppure la dedotta violazione del diritto comunitario per la mancata partecipazione preventiva del contribuente al procedimento prima dell’emissione dell’avviso di accertamento.

Infatti, da un lato, si rileva che il R. è stato sentito in ordine alla attività imprenditoriale contestatagli (cfr. incontro del 4-8-2008), tanto che ha fornito elementi per confutare tale tesi, presi in esame dall’Amministrazione al momento della predisposizione dell’avviso di accertamento.

Dall’altro, si evidenzia che per questa Corte, a sezioni unite, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Cass., sez.un.,24823/2015).

3.Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato sub 2 a pagina 20 del ricorso per cassazione) il ricorrente deduce “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, nella parte in cui la Commissione regionale ha accertato l’esistenza di un’attività svolta dal contribuente riconducibile a quella di procacciatore di affari nel settore immobiliare, senza considerare una serie di fatti storici. Il giudice di appello ha tenuto conto soltanto delle dichiarazioni provenienti da tre persone (titolari della società F.B. ed un collaboratore della stessa) e da cinque clienti, ma non ha tenuto conto della prova contraria fornita dal contribuente, con le dichiarazioni testimoniali del T., che ha riferito solo che il R. “ci dà una mano ogni tanto”, del Canella, che ha dichiarato di aver corrisposto al R. al massimo Euro 4.000 o 6.000,00 per tutti i quattro anni, del B., che ha composto il numero di telefono di una utenza intestata alla Emmegibi, oltre che delle dichiarazioni dei

6 clienti, non prodotte dalla Agenzia, ma dal contribuente, attestanti il ruolo “passivo” del R. nelle trattative. Inoltre, non si è tenuto conto delle risultanze bancarie, in quanto alla moglie del R. sono imputabili redditi da partecipazione, per utili occultati, trattandosi di società a ristretta partecipazione, di importi molto simili a quelli che compaiono sui conti correnti cointestati con il marito. E’ più logico, quindi, ipotizzare che i risultati dei conti siano riferibili alla moglie.

3.1.Tale motivo è infondato.

Invero, il giudice di appello è giunto alla conclusione che il R. svolgesse una attività professionale e continuativa di procacciatori di affari sulla scorta di vari elementi, tutti compiutamente indicati in motivazione. In particolare, si è fatto riferimento alle dichiarazioni testimoniali dei soci e dei collaboratori della F.P. Service, da cui risultava che il contribuente frequentava la società di servizi (“veniva due o tre volte alla settimana”), collaborando alla conclusione di affari per le società immobiliari, con particolare riguardo alla Immobiliare Salata ed alla Immobiliare Emmegibi. Inoltre, si è valorizzato il rinvenimento presso la sede FP Service di un computer nella disponibilità del R., con il nominativo “carmelor”, come pure la presenza di un cellulare intestato al R., che compare nelle trattative di affari.

Il giudice di appello ha anche affermato che non era dimostrata l’esistenza di altre dichiarazioni dei clienti favorevoli al R., ma non allegate al processo verbale di constatazione, nè prodotte in giudizio dal contribuente, e che non vi era prova neppure dei redditi occulti delle società a ristretta base partecipativa, di cui faceva parte la moglie del contribuente.

Il ricorrente, invece, pretende una nuova valutazione degli elementi istruttori già presi in esame dal giudice del merito, preclusa in questa sede. Il giudice di appello ha dimostrato di avere compiuto un esame analitico ed approfondito di tutti gli elementi istruttori in atti e di essere giunto ad una decisione del tutto coerente con la valutazione degli elementi di prova.

Non v’è stato, dunque, alcun omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, avendo il giudice di appello tenuto conto di tutte le prove in atti, pur avendo precisato che non è stata dimostrata l’esistenza di altre dichiarazioni testimoniali favorevoli al contribuente, nè di redditi occulti distribuiti alla moglie del R. da parte di società a ristretta base partecipativa.

4.Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38-39; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55; artt. 2927-2929 c.c.; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32”, in quanto il giudice di appello ha qualificato l’attività svolta dal contribuente come impresa, con un uso illegittimo degli elementi presuntivi, per poi dedurre che le movimentazioni annotate sul conto corrente bancario cointestato al R. ed alla moglie, erano riferibili esclusivamente all’attività di impresa del contribuente. Gli accertamenti bancari sono consentiti solo nei confronti di chi esercita attività di impresa e non, quindi, nei confronti del contribuente che è lavoratore dipendente della pubblica amministrazione.

4.1.Tale motivo è infondato.

Invero, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione dello strumento presuntivo, in quanto ha desunto la tipologia di attività del contribuente, quale procacciatore di affari per conto delle società immobiliari, dalle dichiarazioni rese dai titolari delle società, da quelle fornite dai clienti, dalla presenza di un personal computer, con il codice identificativo “carmelor”, presso una di tali società e dall’utilizzo del telefono cellulare, presente nella pubblicità delle società, cui rispondeva il R. per le trattative commerciali.

Una volta dimostrato che il contribuente era un imprenditore, gli è stata attribuita d’ufficio la partita Iva e si è proceduto all”accertamento sui conti correnti bancari intestati al R. ed alla moglie ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

Va chiarito, sul punto, che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, “sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate all’art. 32, comma 2, lett. b e c, che eccedono i limiti stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa”. Inoltre, al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 2, si prevede che “sono, inoltre considerati redditi d’impresa: a)i redditi derivanti dall’esercizio di attivitò organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi, che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”.

Del resto, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 1, stabilisce che “per esercizio di impresa s’intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, nonchè l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”.

Pertanto, è evidente che le attività di cui all’art. 2195 c.c., sono qualificate come espressioni dell’esercizio di impresa commerciale, indipendentemente dal fatto che siano organizzate in forma di impresa. L’esercizio delle attività di cui all’art. 2195 c.c., determina sempre la sussistenza di una impresa commerciale, ai fini del TUIR, indipendentemente dall’assetto organizzativo scelto per l’esercizio dell’attività; ciò, quindi, deroga alla previsione civilistica di cui agli artt. 2082 e 2195 c.c., per il quale le attività di cui all’art. 2195 c.c., integrano i presupposti della impresa commerciale solo se sono organizzate. La scelta del legislatore tributario è stata detta dall’esigenza di semplificare l’attività di accertamento da parte dell’amministrazione, che deve limitarsi a valutare l’esistenza dello svolgimento di una delle attività di cui all’art. 2195 c.c., senza dover valutare le concrete modalità di esercizio dell’attività ai fini della sua qualificazione.

E’ necessario, invece, che sussiste il requisito della abitualità, che va intesa come attività stabile nel tempo, con riguardo al periodo temporale rilevante ai fini dell’imposizione sui redditi, quindi al periodo di imposta.

Tra le imprese ausiliarie, di cui all’art. 2195 c.c., n. 4, che sono quelle che agevolano, direttamente o indirettamente, l’esercizio di altre attività d’impresa, svolgendo funzioni complementari vanno ricomprese l’agente di commercio (Cass., 1516/1973), lo spedizioniere doganale (Cass., 5718/1979), il promotore finanziario (Cass., 18135/2002; Cass., 15285/2018), il mediatore (Cass., 443/1977), come pure il procacciatore di affari (Cass., 7 dicembre 1999, n. 13660, in tema di revocatoria fallimentare proposta dal curatore del fallimento di un procacciatore di affari in relazione ai versamenti da questo compiuti nel periodo sospetto di cui all’art. 67 L. Fall.).

In particolare per questa Corte la mediazione, in quanto attività economica professionalmente organizzata al fine dello scambio di beni o di servizi, costituisce una impresa commerciale ausiliaria, diretta ad agevolare obbiettivamente l’attività industriale della produzione e la circolazione dei prodotti, indipendentemente da un normale e concreto collegamento con l’attività di singole imprese commerciali nel settore industriale o commerciale strictu sensu (Cass., Cass., 28 gennaio 1977, n. 443).

Va evidenziato anche che, in tema di rapporti tra mediazione e contratto atipico di procacciamento di affari, dette figure, pur accomunate dallo svolgimento di un’attività di intermediazione diretta a favorire la conclusione di un affare tra terzi, con conseguente applicazione di alcune identiche disposizioni in materia di diritto alla provvigione, divergono tra loro in quanto il mediatore presta la propria opera in posizione di imparzialità tra le parti, mentre il procacciatore di affari agisce, al contrario, nell’esclusivo interesse di una di esse, sia pur in virtù di un rapporto di collaborazione privo del carattere della stabilità, con conseguente applicazione analogica, nei confronti dello stesso, delle disposizioni del contratto d’agenzia, ivi comprese quelle in materia di prescrizione del diritto al compenso (Cass., 20 dicembre 2016, n. 26370).

4.2.Nè è applicabile alla controversia in esame la pronuncia di questa Corte, invocata dal ricorrente (Cass., 11 novembre 2009, n. 23852), in quanto in quella vicenda la Corte ha accolto il ricorso per cassazione della contribuente, perchè gli accertamenti bancari di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che si possono svolgere solo nei confronti di professionisti e di imprenditori, erano stati espletati sui conti della contribuente, lavoratrice dipendente, in base alla sola disponibilità dei conti correnti, con attribuzione della qualifica di lavoratrice autonoma proprio sulla base della sussistenza di tali conti “senza dimostrare se aliunde fosse legittimo l’accertamento a suo carico”.

Nella controversia in esame, invece, dapprima l’Agenzia delle entrate, sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali e dei clienti, tutte concordi nell’affermare che il R. collaborava all’attività di vendita degli immobili delle società (accompagnando i clienti a visionare gli appartamenti, anche in una occasione percependo somme, rispondendo alle telefonate, ricevendo dei compensi, avendo la disponibilità di un computer presso una delle società), ha dimostrato lo svolgimento di una attività commerciale di procacciatore di affari ai sensi dell’art. 2195 c.c. e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, e, solo successivamente, ha attribuito al contribuente la partita Iva ed ha proceduto all’accertamento bancario ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1972, art. 32.

5.Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui la Commissione non considera la richiesta istruttoria, dimessa in primo grado e coltivata in appello, avanzata dalla parte quanto all’esibizione di dichiarazioni assunte dalla Guardia di Finanza e non allegate al p.v.c.”.

Il giudice di appello, per il ricorrente, non ha accolto l’istanza di esibizione di documenti (altre e diverse dichiarazioni dei clienti) in possesso della Guardia di Finanza.

5.1.Tale motivo è inammissibile.

Infatti, il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione ad una questione giuridica, espressamente affrontata e risolta dalla Commissione regionale, la quale ha affermato che “le eccezioni del contribuente relative alla probabile presenza di numerose altre dichiarazioni di clienti favorevoli allo stesso non esibite dai verificatori non sono probabilmente infondate, ma comunque si tratta di affermazioni non provate”.

Peraltro, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27415; Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053).

Va poi considerato che, in tema di contenzioso tributario, a seguito dell’abrogazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 3, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti, dovendo, invece, essergli riconosciuto il potere di ordinarne “ex officio” l’esibizione ai sensi dell’art. 210 cod. proc. Civ. (Cass., 11 giugno 2014, n. 13152; Cass., 18 dicembre 2015, n. 25464) o dell’art. 213 c.p.c. (Cass., 22 giugno 2010, n. 14966). Infatti, le nuove prove che il giudice di appello può disporre d’ufficio sono quelle stesse che il giudice di primo grado può ordinare ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, non potendosi ritenere che il giudice di secondo grado abbia poteri istruttori officiosi diversi e maggiori rispetto a quelli del giudice di prime cure.

Pertanto, nel processo tributario, il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova non può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento dell’onere probatorio a proprio carico, ma solo, in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti (Cass., 19 giugno 2018, n. 16171; Cass., 27 dicembre 2018, n. 33506).

Va, peraltro, osservato che l’ordine di esibizione presuppone la certezza della materiale esistenza del documento di cui si chiede l’acquisizione (Cass., 02/11709; 92/590; 87/1123), con onere della prova della materiale esistenza a carico della parte istante (Cass., 94/2951; Cass., 80/2989).

La prova della certezza della esistenza di ulteriori dichiarazioni dei clienti acquisite dalla Guardia di finanza, diverse da quelle già prodotte in giudizio sia dal ricorrente che dalla Agenzia delle entrate, non è stata fornita dal contribuente.

Inoltre, per questa Corte, nel processo tributario la Guardia di finanza, in quanto soggetto che agisce su delega dell’Amministrazione finanziaria, non può essere destinataria da parte del giudice di una richiesta di documenti ex art. 213 c.p.c., atteso che la stessa può essere disposta solo nei confronti di un soggetto terzo e non anche della parte pubblica in causa (Cass., 30 aprile 2019, n., 11432).

Peraltro, l’esercizio del potere, di cui all’art. 213 c.p.c., di richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo, costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità (Cass., 11/3720; 98/5794; 86/3835).

Si è anche affermato che il giudice, benchè sollecitato dalla parte, non è tenuto ad accedere alla richiesta di ulteriore attività istruttoria allorchè ritenga che gli elementi acquisiti siano sufficienti per la decisione (Cass., 82/1331). Nel caso in esame il giudice di merito ha ritenuto, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, che non vi era la prova della sussistenza delle dichiarazioni testimoniali di altri clienti (diverse da quelle già oggetto di produzione in giudizio) e che le dichiarazioni già in atti dimostravano lo svolgimento della attività di procacciatori di affari svolta dal contribuente (“in ogni caso le suddette testimonianze sono sufficienti a provare l’esistenza di un’attività di procacciatore di affari svolta in maniera abituale e non occasionale”).

6.Con il sesto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, e connessa norma Iva, così come inciso dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014 per illegittima applicazione della presunzione ivi indicata all’attività di procacciatore di affari”. Poichè il giudice di appello ha affermato l’insussistenza dell’organizzazione da parte del contribuente, non poteva ritenersi sussistente l’attività di impresa di procacciatore di affari, con esclusione della possibilità di avvalersi dell’accertamento bancario di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

6.1.Tale motivo è infondato.

6.2.Invero, ai fini della sussistenza della qualifica di imprenditore commerciale, ai fini delle imposte dirette, è sufficiente che l’attività esercitata (nella specie di procacciatore di affari) rientri tra quelle di cui all’art. 2195 c.c., senza che occorra l’ulteriore requisito della organizzazione, richiesto dall’art. 2082 c.c., ma solo ai fini civilistici e per la sussistenza del requisito soggettivo ai fini della fallibilità ai sensi dell’art. 1 L. Fall..

Il giudice di appello, peraltro, non ha escluso la sussistenza della organizzazione, ma ha affermato che “si può presumere che, in qualche modo, il R. si avvalesse della organizzazione della società di servizi, a cui erano appoggiate sul piano amministrativo le varie società immobiliari, per le quali svolgeva l’attività di procacciatore di affari”.

6.3.Invero, costituisce principio consolidato quello per cui il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e, a fronte della quale, il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Cass., 5 maggio 2017, n. 11102; Cass., 30 novembre 2011, n. 25502).

In sostanza, nei casi previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, l’onere dell’amministrazione di provare la sua pretesa è soddisfatto per volontà di legge attraversi i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari (Cass., 21302/2013), in quanto la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili resta associata ad una valutazione direttamente posta dal legislatore in ordine alla rilevante probabilità che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui dispone per le rimesse ed i prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività.

Il contribuente, quindi, deve dimostrare, con una prova analitica per ogni versamento, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass., 29 luglio 2016, n. 15857; Cass., 11 marzo 2015, n. 4829).

Si è anche affermato che soltanto dopo che il contribuente abbia fornito i chiarimenti richiesti, grava sull’Amministrazione l’onere di contestarne in modo specifico la completezza, la veridicità, l’idoneità probatoria, mentre dopo l’adempimento di tale onere di contestazione, sorge in capo al contribuente l’onere di provare le circostanza di fatto rilevanti per smentire le contestazioni dell’ufficio (Cass., 5 maggio 2011, n. 9892, Cass., 17250/2013).

Tali prove non sono state fornite dal contribuente.

6.4.Peraltro, trattandosi di imprenditore commerciale, ai fini delle imposte dirette, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 e art. 2195 c.c., vanno considerati come redditi di impresa non solo i versamenti, ma anche i prelevamenti, in quanto i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati dall’imprenditore si presume siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività, con produzione di ulteriore reddito (Corte Cost., ottobre 2014, n. 228, che limita la presunzione in ordine ai prelevamenti solo agli imprenditore, con esclusione dei lavoratori autonomi, restando invariata la presunzione in ordine ai versamenti, come da Cass., 9 agosto 2016, n. 16697). 7.Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. nullità della sentenza per falsa applicazione del D.Lgs. n. 442 del 1997, artt. 2 e 3, all’attività di procacciatore di affari”, in quanto l’attività di procacciatore di affari è assimilabile a quella libero professionale, esclusa dalla applicazione dell’imposta Irap. Il ricorrente rileva che l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata, diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi, ricorre solo se il contribuente sia il responsabile dell’organizzazione ed impieghi beni strumentali, eccedenti per quantità o valore, il minimo generalmente ritenuto indispensabile per l’esercizio della professione, o si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. L’argomentazione della sentenza in cui si presume che il R. utilizzava la struttura presso cui operava è affetta da falsa applicazione della norma.

7.1.Tale motivo è inammissibile.

Invero, il giudice di appello, sulla base delle dichiarazioni dei titolari delle società e dei clienti, oltre che dalla disponibilità di un computer presso una di tali società, con (‘identificativo di accesso “carmelor”, e di un telefono cellulare, ha desunto che “il R. si avvalesse della organizzazione della società di servizi, a cui erano appoggiate sul piano amministrativo le varie società immobiliari, per le quali svolgeva l’attività di procacciatore di affari”.

Il ricorrente non ha indicato in alcun modo le ragioni specifiche e concrete per cui la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di appello era errata, avendo formulato un motivo di impugnazione del tutto astratto e disancorato dagli elementi istruttori in atti, quindi carente del requisito della specificità.

Deve anche evidenziarsi che per questa Corte l’esercizio della attività di piccolo imprenditore ex art. 2082 c.c., è escluso dalla applicazione dell’imposta solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata (Cass., 24 novembre 2016, n. 24000). Infatti, il requisito della autonoma organizzazione deve essere accertato in concreto per i piccoli imprenditori (Cass., 19 luglio 2018, n. 19329), tanto che si è ritenuto che l’attività di agente di commercio è soggetta ad Irap solo ove ricorra il requisito della autonoma organizzazione (Cass., 31 ottobre 2018, n. 27898).

Nella specie, il giudice di appello ha fornito una compiuta e congrua motivazione sulla sussistenza della autonoma organizzazione da parte del contribuente che svolgeva l’attività di procacciatore di affari avvalendosi della struttura organizzativa delle sei società di costruzione, senza che il ricorrente abbia dedotto elementi in grado di inficiare tale ricostruzione.

8.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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