Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32556 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2019, (ud. 30/04/2019, dep. 12/12/2019), n.32556

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 390-2014 proposto da:

JABIL CIRCUIT LIMITED, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DI

VILLA MASSIMO 57, presso lo studio dell’avvocato GUIDO BROCCHIERI,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati BARBARA FAINI,

FRANCESCO FLORENZANO, GIANFRANCO DI GARBO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 329/2013 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

PESCARA, depositata il 16/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/04/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. FRANCESCO SALZANO che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

RILEVATO

che:

La Jabil Circuit Limited (Jabil Uk) ricorre per la cassazione della sentenza n. 329/10/13, depositata il 16.05.2013 dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, Sez. Staccata di Pescara, con la quale era confermato il diniego di rimborso del credito d’imposta, richiesto per i tributi dovuti sui dividendi percepiti dalla società partecipata Jabil It, ai sensi della Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10, comma 4, lett. b), stipulata tra l’Italia ed il Regno Unito il 21.10.1988.

Ha rappresentato che, deliberata nel 2003 la distribuzione degli utili accantonati dalla controllata Jabil IT, questa non applicò alcuna ritenuta alla fonte, conformemente a quanto previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, norma introdotta in attuazione della Dir. n. 90/435/CEE, (cd. direttiva Madre-Figlia). Ricevuti gli utili, la Jabil UK richiese il rimborso del 50% del credito d’imposta ad essi relativo ai sensi della citata Convenzione, art. 10, rinunciando alla esenzione alla tassazione in Italia secondo la predetta direttiva.

In particolare con istanze del 1 luglio 2003 e del 13 gennaio 2004 richiese al Centro Operativo di Pescara il rimborso del credito d’imposta. Dopo quattro anni l’Ufficio interpellato emise il provvedimento di diniego di rimborso, accertando inoltre la debenza delle ritenute non effettuate dalla Jabil IT al momento del pagamento dei dividendi.

Nel contenzioso seguitone la Commissione Tributaria Provinciale di Pescara rigettò il ricorso dell’Ente con sentenza n. 264/01/2011, mentre la Commissione Tributaria Regionale, con la decisione ora impugnata, accolse l’appello della società con riguardo all’accertamento delle ritenute non effettuate, confermando invece la decisione di primo grado relativamente al diniego del rimborso. In sintesi i giudici d’appello negavano il diritto al rimborso del credito d’imposta perchè, mediante il riconoscimento del credito d’imposta interno al sistema fiscale inglese (double taxation relief) i dividendi distribuiti dalla società controllata italiana non erano stati assoggettati effettivamente ad imposizione. Inoltre affermava che la stessa contribuente aveva dichiarato che non fosse stata applicata alcuna ritenuta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, comma 3. Da ciò discendeva l’impossibilità di fruizione di un doppio beneficio, quello previsto dalla Direttiva Madre-Figlia e quello regolato dalla Convenzione Italia-Regno Unito.

La ricorrente censura con due motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione della Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10, comma 4, lett. b), e art. 24, comma 2, lett. a) e b), stipulata tra l’Italia e il Regno Unito il 21.10.1988, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente interpretato le regole sulla doppia imposizione giuridica e la doppia imposizione economica;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, comma 4, nel testo ratione temporis vigente, che recepiva la Dir. Madre-Figlia, art. 7, comma 2, per aver erroneamente interpretato la disciplina in tema di doppia imposizione economica internazionale degli utili societari.

Ha chiesto pertanto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione.

Si è costituita l’Agenzia, che ha contestato i motivi del ricorso, chiedendone il rigetto.

Diritto

CONSIDERATO

che:

I motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè connessi e volti a censurare la decisione, che ha confermato il diniego di rimborso del credito d’imposta reclamato dalla società ai sensi della disciplina invocata, sono infondati.

Premesso che la vicenda processuale trae origine da una domanda di rimborso del credito di imposta ai sensi della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, art. 10, comma 4, la società ritiene di essere in possesso di tutti i requisiti per il rimborso previsto dalla Convenzione.

La questione si inserisce nel delicato tema della doppia imposizione economica degli utili societari e dei rimedi adottati per superare il fenomeno. Va qui appena accennato che la doppia imposizione economica internazionale emerge quando non solo vi sia una duplice tassazione degli utili in capo a soggetti passivi diversi, la società ed il socio, sulla base di titoli impositivi distinti, ossia il possesso dell’utile in capo alla società e il possesso del dividendo in capo al socio, ma anche che i titoli impositivi in forza dei quali socio e società sono tassati siano determinati e disciplinati dalle leggi di Stati diversi.

Gli strumenti essenzialmente utilizzati per far fronte alla doppia imposizione sono l’esenzione da imposta nello Stato fonte dell’utile oppure il credito d’imposta della società estera cui i dividendi vengono attribuiti. Nella prima fattispecie si colloca la Dir. cd. madre-figlia 23 luglio 1990, n. 435, (poi modificata dalle Dir. 22 dicembre 2003, n. 123 del 2003, e Dir. 20 novembre 2006, n. 98 del 2006), la quale, in estrema sintesi, assicura che quando in un raggruppamento di imprese una società madre, che partecipa del capitale sociale di altra società – società figlia – avente sede in un diverso Stato membro – “riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia”, lo Stato della società madre ha due alternative: a) astenersi dal sottoporre tali utili ad imposizione; b) sottoporli ad imposizione, ma autorizzando detta società madre a dedurre dalla sua imposta “la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia” (art. 4). La direttiva in ogni caso fa salva “l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica del dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta a beneficiari dei dividendi”. Nel caso di specie, il diritto al rimborso del credito di imposta, di cui la Jabil UK ha fatto istanza invocando la Convenzione Italia/Regno Unito 21 ottobre 1988, sarebbe dunque basata sul principio secondo cui “I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato” (art. 10, par. I). Nondimeno, è possibile che tali dividendi siano “tassati anche nello Stato contraente in cui la società che paga i dividendi è residente ed in conformità alla legislazione di detto Stato ma, se la persona che percepisce i dividendi ne è l’effettivo beneficiario, l’imposta così applicata non può eccedere il 5% dell’ammontare lordo dei dividendi se l’effettivo beneficiario è una società che controlla, direttamente o indirettamente, almeno il 10 per cento del potere di voto della società che paga i dividendi” (art. 10, comma 2, lett. a). In tale ipotesi dunque la società controllante residente nel Regno Unito destinataria dei dividendi attribuiti dalla società figlia italiana, “ha diritto, ad un credito di imposta pari alla metà del credito di imposta cui una persona fisica residente in Italia avrebbe diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista al sub-paragrafo A del paragrafo 2 del presente articolo, ed a condizione che la società la quale riceve i dividendi sia a tale titolo soggetta all’imposta del Regno Unito”.

Tale credito di imposta, astrattamente riconoscibile alla società beneficiaria degli utili che risieda in altro Stato Europeo, può essere escluso solo se la predetta contribuente non sia assoggettata ad imposta sui dividendi in entrambi gli Stati membri (cfr. C. Giust. CE 374 del 12.12.2006). A tal fine a carico della società non intenzionata a subire la doppia imposizione – che dunque voglia conseguire il rimborso di quanto già pagato- si rende necessaria la prova di due essenziali elementi: a) che la società del Regno Unito destinataria dei dividendi ne sia la “beneficiaria effettiva”; b) che essa sia soggetta all’imposta nel Regno Unito”.

Infatti, ancor più nello specifico, il credito di imposta riconosciuto alla società madre dalla Convenzione può ritenersi sussistente solo in fattispecie di effettiva duplicazione di imposta. A tal fine si è affermato che “laddove manca quest’ultima, …. non può neppure esservi riconoscimento alcuno del correlato credito di imposta.” (cfr. Cass., sent. n. 4164/2013).

La ricorrente sostiene che per l’applicazione della Convenzione non si rende necessario che nel Paese di residenza il beneficiario sia stato sottoposto effettivamente al pagamento dell’imposta, essendo invece sufficiente che i redditi percepiti siano assoggettabili a tassazione. A tal fine sostiene di aver dato prova che i dividendi incassati in Italia erano stati regolarmente contabilizzati nel Regno Unito, così assoggettati a tassazione. A fronte di ciò non avrebbe pertanto alcuna rilevanza la circostanza che la normativa fiscale del Regno Unito, riconoscendo un credito d’imposta interno (cd. double taxation relief) avrebbe in concreto escluso un effettivo versamento d’imposte in quello Stato.

Sennonchè questa Corte, con orientamento ormai consolidato a cui il Collegio intende dare continuità, ha affermato che il diritto al rimborso delle ritenute alla fonte sugli utili percepiti da una società residente in uno Stato membro dell’Unione Europea, che sia titolare di partecipazione qualificata nel capitale sociale di società residente in Italia, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, “ratione temporis” vigente, richiede, quale necessario presupposto, la produzione della certificazione, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero, relativamente alla soggezione non in astratto, ma in concreto, della società ad uno dei tributi indicati nella Dir. 435/90/CEE del Consiglio, trovando applicazione la regola generale desumibile dal precedente medesimo D.P.R., art. 27, comma 3, (Cass., sent. n. 4771/2017; 23367/2017, relativa alla Convenzione Italia – Francia; cfr. anche 4165/2013 e, con riferimento proprio alla Convenzione Italia – Regno Unito, cfr. 4568/2019).

La giurisprudenza ora citata non si pone in contrasto con quella invocata dal ricorrente, e d’altronde una diversa interpretazione condurrebbe ad effetti distorsivi nell’ambito della concorrenza del mercato, incidendo e violando principi e normative comunitarie.

Si è infatti affermato che “è evidente che a radicare il diritto al credito di imposta non può bastare, nei rapporti transfrontalieri tra società madre e società figlia, la mera astratta soggezione della prima all’imposizione sui redditi di impresa nel Regno Unito, occorrendo la prova che i dividendi percepiti dalla società distributrice italiana siano stati concretamente sottoposti a tassazione in tale Paese. La ratio della Convenzione tra i due Stati non è – per vero – quella di creare un’esenzione a favore della società inglese percettrice di dividendi, ma solo quella di non discriminarla rispetto ai percettori italiani di tali dividendi; il che – com’è ovvio – presuppone che essa sconti, al pari cli questi ultimi – la doppia imposizione degli utili, sia a carico della società erogante, sia in capo socio che li percepisce.” (Cass., sent. n. 4164 cit.). In conclusione non possono apprezzarsi le argomentazioni articolate dalla società.

Così come non possono apprezzarsi tali argomentazioni quando a supporto del preteso diritto al credito d’imposta la società invoca le regole della Convenzione, non sono condivisibili le ulteriori argomentazioni spese dalla medesima difesa quando ricorre anche ai principi affermati dalla direttiva madre-figlia. Sul punto peraltro la decisione impugnata correttamente evidenzia la alternatività dei due sistemi non potendosi sommare “… i benefici dell’una (detassazione nello Stato della fonte) con quelli dell’altra (credito d’imposta)”.

Il ricorso va dunque rigettato.

Considerato che:

Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di causa, nella misura specificata in dispositivo. Sussistono inoltre i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art., comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 17.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Condanna la ricorrente al pagamento dell’ulteriore importo, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art., comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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