Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32552 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2019, (ud. 10/10/2019, dep. 12/12/2019), n.32552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – est. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12249/2012 R.G. proposto da:

Pamet s.r.l., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e

difesa, dall’avv.to Domenico D’Arrigo, giusta procura in calce al

ricorso, elettivamente domiciliato in Roma, Via Prestinari n. 13,

presso lo studio dell’avv.to Paola Ramadori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, ope legis, dall’Avvocatura Generale

dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia (di seguito, per brevità CTR) n. 33/67/12, depositata il

07/02/2012 non notificata;

udita la relazione della causa svolta, nella pubblica udienza del

10/10/2019, dal Consigliere Dott.ssa Rosita D’Angiolella;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Fabrizio Urbani Neri;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale,

Dott.ssa Rita Sanlorenzo, che ha concluso per l’accoglimento dei

motivi di ricorso nn. 2, 3, 4.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di verifica della Guardia di Finanza, l’Agenzia delle entrate, emetteva, per gli anni 2004 e 2005, due avvisi di accertamento nei confronti della società Pamet s.r.l., con i quali veniva contestata la contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, relative a cessione di rottami, emesse da varie società cartiere (tra cui, Cometal s.r.l., Ketal s.r.l., Ornet s.r.l., Palladio di D.M., etc.).

In particolare, con l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), anno 2004, veniva accertato, a carico della società, un reddito di impresa di Euro 2.875.144,00 al posto di quello dichiarato pari ad Euro 121.221,00, con maggiore IRES per Euro 908,795,00, una maggiore IRAP per Euro 117.041,00, ed una maggiore IVA per Euro 550.782,00, oltre sanzioni. Con l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), anno 2005, veniva accertato un reddito di impresa di Euro 6.569.885,00 al posto di quello dichiarato pari ad Euro 160.737,00, con maggiore IRES per Euro 2.115.019, 00, una maggiore IRAP per Euro 272.389,00, ed una maggiore iva per Euro 1.281,830, oltre sanzioni.

La società contribuente impugnava gli accertamenti con due distinti ricorsi innanzi alla Commissione Provinciale di Brescia che, disposta la riunione dei procedimenti, li rigettava integralmente. Eguale esito aveva l’appello proposto dalla società avverso la sentenza di primo grado, in quanto la Commissione Tributaria Regionale adita, con la sentenza di cui in epigrafe, confermava integralmente la decisione di primo grado, rigettando integralmente l’appello.

Avverso tale sentenza ricorre la società contribuente affidandosi a sette motivi.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso – rubricato: “motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5,” – la società ricorrente deduce che la CTR avrebbe, sulla base di un percorso argomentativo deficiente, ritenuto la sussistenza di operazioni inesistenti attribuendo valenza univoca a fatti – come i prelievi in nero o le intercettazioni telefoniche – astrattamente compatibili anche con le contestazioni della società. Riporta all’uopo le contestazioni formulate nei giudizi di merito e richiama la documentazione allegata con le memorie ivi prodotte del 18 maggio 2010 (pagg. 20 e ss. ricorso).

2. Con il secondo – rubricato: “violazione e falsa applicazione di legge del TUIR, artt. 56 e 109, ex art. 360 c.p.c., n. 3,” deduce l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto che gli acquisti da soggetto diverso dal fornitore indicato in fattura (falsità soggettiva delle operazioni), non sono deducibili a prescindere dall’effettiva sussistenza ed inerenza del costo. A sostegno del motivo, riporta le deduzioni difensive dei giudizi di merito e i documenti allegati nella memoria del 18 maggio 2010.

3. Con il terzo motivo, lamenta nuovamente la motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, quale la deduzione di costi sostenuti per l’acquisto di merci poi rivendute, anche se acquistate da soggetti differenti da quelli indicati in fattura, fatto dedotto e allegato tramite idonea documentazione ma non tenuto in considerazione dai secondi giudici. Anche in relazione a tale motivo, riporta, in ricorso, le deduzioni difensive dei giudizi di merito e i documenti allegati nella memoria del 18 maggio 2010.

4. Col quarto motivo, deduce la violazione di legge ed in particolare della L. 24 dicembre 19930, n. 597, art. 14, comma 4 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, disciplina che, se rettamente applicata dai secondi giudici, avrebbe escluso dal proprio campo di applicazione, la fattispecie dell’utilizzazione di fatture per operazione cd. soggettivamente inesistenti.

5. Col quinto motivo, lamenta la violazione di legge del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ex art. 21, e art. 74, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non aver la CTR applicato il principio, desumibile da tali disposizioni, secondo il quale in caso di fattura soggettivamente inesistente, relativa ad operazioni per le quali opera il regime del reverse charge, il pagamento dell’imposta dovuta in base alla fattura spetta esclusivamente all’emittente.

6. Con il sesto motivo denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per mancato esame del motivo dedotto in appello di illegittimità degli avvisi per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, in relazione ai principi previsti dalla Direttiva CEE, tempestivamente dedotto in primo grado ed in appello. Riporta, all’uopo, le censure dedotte in appello (v. pag. 113 del ricorso), con richiamo alla giurisprudenza di questa Corte (n. 22195 del 1998 e 6620 del 2009), sull’irrilevanza, nel caso di operazioni inesistenti, dello stato soggettivo della buona fede del contribuente.

7. Col settimo motivo, reitera la denuncia di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per mancato esame del motivo dedotto in appello di illegittimità degli avvisi per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, tempestivamente dedotto in primo grado ed in appello.

8. L’esame dei motivi rende opportuno, preliminarmente, l’inquadramento della fattispecie oggetto di causa.

8.1. I fatti di causa originano da una verifica fiscale della Guardia di Finanza, avviatasi nell’ambito d’indagini penali, che aveva ipotizzato una serie di operazioni fittizie sottostanti a fatture emesse a favore della Pamet da varie società fornitrici, fraudolentemente compiute al fine di coprire acquisti di materiali ferrosi di provenienza illecita.

8.2. I giudici della CTR, con la sentenza impugnata, hanno ritenuto sussistente il meccanismo fraudolento basandosi su prove presuntive nonchè su prove acquisite nel processo penale – quali le risultanze delle intercettazioni telefoniche e di prelievi di denaro “in nero” – elementi tutti che, con espressione significativa, la CTR ha definito “muro probatorio insuperabile” (v. sentenza pag. 3: “…abbiamo anche il supporto di intercettazioni telefoniche che da un lato collegano direttamente dette cartiere con gli amministratori che via via hanno gestito la Pamet Srl e abbiamo anche la prova icastica di come i titolari di queste scatole vuote, una volta ricevuti corposi bonifici correlati alle fatture emesse… Facessero seguito con altrettanti prelievi per i contanti (viene documentato il caso di un prelievo per contanti di Euro 330.000) destinati come da copione alla restituzioni brevi manu agli utilizzatori delle fatture, salva la lieve, modesta trattenuta del costo dell’operazione. L’insistenza difensiva su una mancanza di prove della fittizietà delle fatture recuperate dall’Agenzia delle Entrate nei confronti Pamet s’infrange quindi contro un muro probatorio insuperabile.”).

8.3. Quanto ai costi portati nelle fatture e di cui la società ne ha dedotto l’effettività, la CTR, dopo aver escluso l’applicabilità della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, e dopo aver escluso la violazione di diritti costituzionalmente garantiti (art. 53 Cost.), – pur essa oggetto di doglianza dell’appello della società contribuente -, ha affermato che i costi in parola non avevano alcun rilievo fiscale, in quanto la deduzione dei costi correttamente contabilizzati “…è legata comunque alla prova effettiva dei costi stessi, ciò che manca in radice nel caso in concreto” (v. sentenza pag. 3).

8.4. Quanto all’iva e all’ulteriore questione oggetto dell’appello della società contribuente, della non imponibilità per effetto del cd. “reverse charge”, la CTR ha evidenziato l’inapplicabilità di tale meccanismo, ritenendo che trattasi di operazioni imponibili (e non esenti) sulle quali prevale l’accertamento della finalità antielusiva (v. sentenza pag.3, ultimo cpv.: “…l’obiezione non a pregio perchè non toglie che si tratti di operazione imponibile (siamo infatti percentualmente fuori dal campo delle operazioni esenti) e non senza sottolineare che l’interesse del legislatore tributario alla persecuzione delle fatture anche solo soggettivamente fittizie e quello di non vedersi frustato nell’attività di controllo del volume degli affari imponibili del cedente (vero).”.

9. Iniziando con l’esame dei motivi di ricorso afferenti al vizio di omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, del tutto inconferenti appaiono le censure di cui ai motivi primo e terzo.

9.1. E’ principio consolidato di questa Corte che non sussiste il vizio di omesso esame di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, allorquando il fatto storico, rilevante e decisivo, rispetto al quale è denunciato l’omesso esame, è stato preso in debita considerazione dal giudice di merito – cui è riservata la (libera) valutazione degli elementi probatori rilevanti ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie o, comunque, non abbia proceduto ad un esame specifico delle allegazioni dell’una e dell’altra parte. La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere interpretata, cioè, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” della legittimità sulla motivazione, con esclusione di qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831-01).

9.2. Del tutto inconferente, dunque, è la doglianza di cui al primo motivo riguardante la deficienza del ragionamento logico seguito dalla CTR per non aver esaminato anche le allegazioni della parte contribuente (v. ricorso pag. 33), essendo evidente dalla motivazione della sentenza che la costruzione della fattispecie inerente alla fatturazione di operazioni inesistenti è scaturita proprio dall’esame del fatto storico di cui agli atti di causa e delle rispettive contestazioni.

9.3. Egualmente, per il terzo motivo di gravame – con il quale la ricorrente deduce il mancato esame della doglianza, afferente al fatto controverso e decisivo, della deducibilità dei costi rappresentati in fattura – avendo la CTR escluso la sussistenza del costo in quanto non provato.

9.4. Infine, non può mancarsi di rilevare che, a fronte della compiutezza delle ragioni della decisione qui gravata, le censure della società appaiono volte più che altro a dolersi della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito perchè non rispondente alla prospettazione di essa ricorrente, segnatamente con riguardo alla valutazione delle risultanze documentali (v. ricorso pagg. 32-33), sottendendo, quindi, un’inammissibile richiesta di revisione delle valutazioni raggiunte dal giudice di merito, insindacabili in questa sede. 10. Il secondo motivo di ricorso, è infondato.

10.1. Occorre in primo luogo evidenziare che la questione dell’inerenza dei costi, è circostanza non sfiorata dal giudice di appello che ha affermato l’indeducibilità del costo non per mancanza del requisito d’inerenza, ma per mancanza di documentazione idonea a dimostrare l’effettiva utilità dei maggiori costi fatturati, sicchè è con riguardo a quest’ultimo aspetto che sì concentra l’esame del motivo (v. sentenza della CTR, pag. 3, ult. cpv.).

10.2. Ed infatti, il giudice di merito ha ritenuto la carenza di prova dei costi (rispetto all’attività di impresa) da parte della società ricorrente per inesistenza soggettiva dell’operazione descritta nelle fatture, facendo, così, retta applicazione dei principi affermati da questa Corte in sequenza giurisprudenziale sostanzialmente univoca (da Sez. 5, Sentenza n. 1709 del 26/01/2007, Rv. 595661-01, Sez. 5, Sentenza n. 5926 del 12/03/2009, Rv. 607667-01, Sez. 6-5, Ordinanza n. 27458 del 09/12/2013, Rv. 629460-01, a Sez. 5, Sentenza n. 21184 del 08/10/2014, Rv. 632824-01, Sez. 6-5, Ordinanza n. 14858 del 07/06/2018, Rv. 649021-01), secondo cui ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, (ora art. 109), comma 5, e di detraibilità della relativa iva, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 633, ex art. 19, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili, ed a tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa.

10.3. Se, dunque, il contribuente è tenuto a dimostrare, nell’ipotesi di contestazione da parte dall’Amministrazione finanziaria, anche la coerenza economica dei costi rispetto ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (potendo a tal fine integrare il contenuto generico della fattura con idonei elementi di prova), e se, il giudice di merito – con valutazione rimessa al suo insindacabile apprezzamento – ritiene mancante detta prova, non può censurarsi l’operato della CTR meneghina che ha fatto retta applicazione di tale meccanismo probatorio, valutando, secondo un apprezzamento insindacabile in questa sede, come mancante “in radice” prova dei costi nei requisiti imprescindibili dell’effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1.

11. Il quarto motivo è infondato.

11.1. Questa Corte ha stabilito che “In tema d’imposte dei redditi, ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, (nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012), che opera in ragione del comma 3 della stessa disposizione, quale “ius superveniens” con efficacia retroattiva “in bonam partem”, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1, (v. relazione ministeriale di accompagnamento al citato D.L.), ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo.” (cfr. Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 17788 del 06/07/2018, Rv. 649801-01; Cass. n. 26461 del 2014, Rv. 633708-01).

11.2. La sentenza impugnata ha fatto retta applicazione dello ius superveniens più favorevole al contribuente, escludendo la deducibilità dei costi laddove il contribuente non ha provato che il bene acquistato sia stato reimpiegato nell’esercizio dell’attività d’impresa e che non sia stato utilizzato in concreto per il compimento di un delitto non colposo (Sez. 5, Sentenza n. 13800 del 18/06/2014, Rv. 631533-01; Sez. 5, Sentenza n. 16719 del 09/08/2016, Rv. 640632-01) o comunque non vi sia stato il diretto utilizzo dei costi ai fini del compimento dell’attività delittuosa (cfr. Sez. 6-5, Ordinanza n. 5342 del 04/03/2013, Rv. 625406-01; Sez. 5, Sentenza n. 26461 del 17/12/2014).

12. Il quinto motivo di gravame è fondato. La ricorrente lamenta, in sostanza, che, trovando applicazione nei suoi confronti, per le operazioni di cui trattasi (cessione di rottami), il regime del reverse charge in forza del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, comma 8, come sostituito dal D.L. n. 269 del 2003, art. 35, ha errato la CTR a ritenere che al pagamento dell’imposta prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, sia tenuto il cessionario nonostante l’iva, per gli anni in contestazione, non sia stata incassata e quindi non detratta, e a ritenere, quindi, che l’Ufficio potesse recuperarla.

12.1. La questione dell’operatività del reverse charge interno, riguardante operazioni soggettivamente inesistenti relative a cessione di rottami, ha già interessato questa Corte (cfr. sentenza n. 16679 del 09/08/2016, seguita, in parte, da Sez. 5, Ordinanza n. 2862 del 31/01/2019, Rv. 652333-01) che ha enunciato il principio di diritto secondo cui in tema d’iva, le operazioni di cessione compiute in regime d’inversione contabile (cd. “reverse charge”), ancorchè effettuate sotto l’apparente osservanza dei requisiti formali, sono indetraibili in caso di violazione degli obblighi sostanziali, ove venga meno la corrispondenza, anche soggettiva, dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata, con conseguente inesistenza dell’obbligo di corrispondere l’imposta indicata in fattura.

12.2. Fermo restando il principio enunciato, che qui si condivide e si fa proprio, la questione posta all’esame va risolta alla luce dei più favorevoli trattamenti fiscali sanzionatori introdotti dallo ius superveniens in materia d’inversione contabile nelle operazioni soggettivamente inesistenti e, cioè, dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, norma applicabile retroattivamente anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (v. infra par. n. 13 e seguenti).

12.3. Tale decreto legislativo, al fine di armonizzare le sanzioni con il concreto disvalore dell’illecito commesso dal contribuente, modulando la sanzione in base alla maggiore o minore gravità della condotta, ha introdotto rilevanti modifiche ad alcune disposizioni contenute nel D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, che disciplina le sanzioni amministrative in materia d’imposte dirette, iva, e riscossione dei tributi.

12.4. In particolare, il decreto in parola, art. 15, comma 1, lett. f), ha modificato le sanzioni amministrative in materia di documentazione e registrazione delle operazioni iva, previste nel D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, intervenendo, soprattutto, nella disciplina sanzionatoria dell’inversione contabile per la quale ha previsto un trattamento sanzionatorio più lieve (è stato riscritto dall’art. 6 cit., comma 9-bis, e sono stati introdotti tre nuovi commi 9-bis.1, 9-bis.2 e 9-bis.3).

12.5. Venendo alle operazioni soggettivamente inesistenti che qui interessano, la disciplina del D.Lgs. cit., comma 9-bis.3, le include espressamente nel più favorevole trattamento sanzionatorio. Ed infatti, tale norma, nella prima parte, dispone in linea generale, che in sede di accertamento venga espunto sia il debito che il credito computato nelle liquidazioni dell’imposta (eliminando così gli effetti dell’operazione contabilizzata), come già previsto per le operazioni esenti, non imponibili e non soggette cui è stato erroneamente applicato il sistema dell’inversione contabile (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9 bis. 3: “se il cessionario committente applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggetti a imposta, in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta, che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando il di ritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2”. La medesima norma, nel secondo periodo, stabilisce, con carattere eccezionale, le sanzioni applicabili nel caso di operazioni inesistenti, di misura compresa tra il 5 e il 10 per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 Euro (v. D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9 bis.3: “la disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione compresa tra il cinque ed il 10 per cento dell’imponibile con un minimo di 1.000 Euro”).

12.6. Per opinione unanime di dottrina e giurisprudenza, le disposizioni introdotte nel 2015 sono coerenti con i principii sanciti dalla giurisprudenza comunitaria in materia di reverse charge, secondo cui le violazioni degli obblighi formali non possono escludere di per sè il diritto alla detrazione del contribuente, pena la violazione del principio di neutralità dell’imposta (Ecotrade, cause riunite C-95/07 e 96/07, Idexx, causa C-590/13; Equoland, causa C-272/2013), principi cui si è uniformata da tempo questa Corte (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 5072 del 2015; Sez. 5, Sentenza n. 7576 del 2015; Sez. 5, Sentenza n. 4612 del 09/03/2016, Rv. 639034-01).

13. Orbene, non v’è dubbio che il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9 bis. 3, – norma, si ripete, di carattere eccezionale che definisce gli aspetti procedimentali della violazione e stabilisce le sanzioni ad essa applicabili – si applica, nel rispetto del principio del favor rei, anche alle violazioni commesse prima del 1 gennaio 2016, sempre che gli atti di recupero non siano ancora definitivi (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 8243 del 31/03/2008, Rv. 602524-01, secondo cui ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n. 18/12/1997, n. 472, che ha esteso il principio del “favor rei” anche al settore tributario, sancendone l’applicazione retroattiva, le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo; nello stesso senso cfr. Sez. 5, Sentenza n. 23564 del 20/12/2012, Rv. 624738-01).

14. Per le operazioni inerenti al commercio di rottami – che riguarda il caso di specie – la disciplina nazionale prevede che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizionì di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 e seg., e con l’indicazione, di cui al cit. D.P.R., art. 74, comma 8, che si tratta di operazione con iva non addebitata in via di rivalsa (la fattura è quindi integrata dal cessionario, che diviene soggetto passivo d’imposta).

14.1. Ora, poichè è pacifico tra le parti che la società contribuente abbia regolarmente effettuato l’inversione contabile a suo carico e reso neutrali le operazioni ritenute soggettivamente inesistenti dalla CTR e poichè rimane ancora in contestazione l'”an” della violazione tributaria e sussiste ancora controversia sulla debenza delle sanzioni, non v’è dubbio che al caso all’esame s’impone l’applicazione del più favorevole regime sanzionatorio sopravvenuto, applicabile retroattivamente, anche d’ufficio, trattandosi di norme sanzionatorie sopravvenute più favorevoli. In tal senso, si è orientata anche l’Agenzia delle entrate con la Circolare n. 16/E/2017.

15. L’accoglimento del quinto motivo rende superfluo l’esame dei motivi sesto e settimo con i quali la società ricorrente denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per mancato esame del motivo dedotto in appello di illegittimità degli avvisi per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, in relazione ai principi previsti dalla Direttiva CEE (sesto motivo) e per mancato esame del motivo dedotto in appello di illegittimità degli avvisi per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, (settimo motivo).

15.1. In ogni caso essi sono infondati, considerato che non ricorre il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo d’impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo (cfr. Sez. L, Sentenza n. 16788 del 21/07/2006, Rv. 592097-01; Sez. I, Sentenza n. 13425 del 2016, Rv. 640949-01; Sez. I, Sentenza n. 17956 del 2015, Rv. 63677101; Sez. 2, Ordinanza, n. 20718 del 2018, Rv. 650016-01; Sez. 6. Ordinanza, n. 15255 del 04/06/2019, Rv. 654304-01).

16. In conclusione, rigettati i primi quattro motivi, accolto il quinto, ed assorbiti i restanti, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, affinchè proceda ad un nuovo esame della controversia alla luce del nuovo assetto sanzionatorio di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, confacente alla fattispecie concretamente accertata, nonchè perchè provveda alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quinto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione; dichiara assorbiti il sesto ed il settimo motivo; rigetta nel resto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V sezione civile, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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