Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32544 del 12/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 12/12/2019), n.32544

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18109-2013 proposto da:

AXA MPS ASSICURAZIONI VITA SPA, in persona dell’Amministratore

delegato e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA VIALE BRUNO BUOZZI 102, presso lo studio

dell’avvocato GUGLIELMO FRANSONI, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati FRANCESCO PADOVANI, PASQUALE RUSSO, giusta

procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 108/2013 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 06/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/07/2019 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

UMBERTO DE AUGUSTINIS che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato FRANSONI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso a questa Corte del 17.7.2013 la Axa Mps Assicurazioni Vita spa esponeva che, a seguito di una verifica della Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate nei confronti dell’allora Montepaschi Vita spa, alla quale essa era succeduta, veniva rettificato il reddito ai fini ires ed irap per l’anno 2004, contestandosi la minusvalenza da avvenuta svalutazione operata sui titoli della Sicav lussemburghese Monte Sicav Equity Global, o Montesicav, da essa ricorrente posseduti.

In particolare, alcuni titoli già posseduti ed iscritti nel comparto “durevole”, il 31.12.2004 erano stati trasferiti nel comparto “non durevole”; sugli stessi era stata operata una svalutazione di Euro 35.244.091,47, e la relativa minusvalenza utilizzata in deduzione.

La società, infatti, aveva dato rilievo, sia ai fini ires che irap, alla suddetta minusvalenza, per quanto non realizzata, considerando Montesicav un Organismo di Investimento Collettivo del Risparmio (OICR), mentre secondo l’Agenzia la minusvalenza non avrebbe dovuto avere rilievo fiscale, non essendosi realizzata, e dovendosi considerare la partecipazione in Montesicav come una vera e propria partecipazione societaria, attesa la mancanza di fatto dei requisiti previsti dalla legge per le partecipazioni nelle Sicav.

L’ufficio emetteva, pertanto, l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), che la società impugnava, e dal quale derivava il presente giudizio.

La CTP di Roma, davanti alla quale era impugnato il suddetto avviso, respingeva il ricorso; la società proponeva appello, che veniva ugualmente respinto dalla CTR del Lazio.

Contro quest’ultima sentenza ricorre, quindi, a questa Corte le ricorrente sulla base di dodici motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia.

La società ha presentato memoria datata 4.7.2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società deduce violazione della L. n. 358 del 2001, art. 7, comma 13, e del D.Lgs. 300 del 1999, art. 61, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Con il secondo motivo deduce falsa applicazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61, da solo o in combinato disposto con il Reg. dell’Agenzia delle Entrate 30 novembre 2000, n. 4, art. 4 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Con il terzo motivo deduce falsa applicazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, artt. 61 e 62, e violazione del principio di legalità (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Con tale gruppo di motivi la ricorrente deduce, in sostanza, che l’avviso di accertamento sarebbe illegittimo perchè basato su una previa attività di verifica compiuta dalla Direzione centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate la quale, però, non avrebbe avuto il relativo potere ispettivo.

I motivi sono infondati.

Questa Corte, sulla medesima questione sottoposta, peraltro, in maniera leggermente diversa sotto il profilo formale, ha avuto modo di affermare (sez. V, n. 20345 del 2019):

Quanto al merito della questione, attinente alla possibilità per la Direzione Centrale di effettuare verifiche fiscali e di redigere il processo verbale di constatazione, al pari delle Direzioni Regionali, non rileva il contenuto della L. n. 358 del 2011, art. 7, comma 13, dopo la modifica apportata dal D.P.R. n. 107 del 2001, art. 23, (“Le attività di verifica e di ispezione nei confronti dei contribuenti sono attribuite alla esclusiva competenza degli uffici indicati nel comma 10, e dei reparti della Guardia di finanza”). Prima di tale modifica, infatti, le attività di verifica e di ispezione erano demandate esclusivamente ai reparti della Guardia di finanza ed agli uffici di cui al medesimo art., comma 10, ossia ai soli uffici periferici (art. 10 “..le funzioni operative dei dipartimenti sono svolte, in periferia, dai seguenti uffici unificati: a) centro di servizio delle imposte dirette ed indirette…b)ufficio delle entrate, cui spettano le attribuzioni in materia di accertamento e riscossione dei tributi di competenza del Dipartimento delle entrate…c)ufficio del territorio…”).

Si precisava, quindi, che “restano tuttavia ferme le competenze attribuite in materia al Servizio centrale degli ispettori tributari”. Dopo la modifica di cui al D.P.R. n. 107 del 2001, art. 23, è stata soppressa la L. n. 358 del 1991, art. 7, comma 10, sicchè è venuto meno il rimando agli uffici periferici per quanto attiene alle attività di verifica ed ispezione, che resta comunque ai reparti della guardia di finanza.

La norma, nata per chiarire che sia la guardia di finanza che gli uffici della Agenzia delle entrate (periferici), potevano svolgere attività di verifica ed ispettiva, dopo la novella di cui al D.P.R. n. 107 del 2001, art. 23, ha perso tale significato, in quanto non è più possibile il rinvio al comma 10, per l’individuazione degli uffici periferici della Agenzia delle entrate.

Pertanto, la norma non è più utilizzabile per distinguere le attività degli uffici periferici rispetto a quelle degli uffici centrali, in quanto gli uffici finanziari sono stato organizzati unitariamente come Agenzia delle entrate.

Del resto, il D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61, prevede che “Le agenzie fiscali hanno personalità giuridica di diritto pubblico. In conformità con le disposizioni del presente decreto legislativo e dei rispettivi statuti, le agenzie fiscali hanno autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria”.

Sulla base della riconosciuta autonomia regolamentare, è stato adottato il Reg. 30 novembre 2000, n. 4, con la previsione delle attività consentite sia alla Direzione Centrale che alle Direzioni Regionali.

Nè si può sostenere che l’Agenzia delle entrate non potesse utilizzare il suo potere regolamentare solo perchè solo successivamente, e quindi con la L. finanziaria 2008, art. 1, comma 360, è stato previsto espressamente che “al fine di rafforzare l’attività di controllo dell’Agenzia”, attraverso il regolamento di cui al D.Lgs. n. 309 del 1999, potessero essere individuati “gli uffici competenti a svolgere le attività di controllo e di accertamento”. In raltà, la nuova norma del 2008 non fa altro che specificare e chiarire che con il regolamento di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, era già possibile organizzare delle attività della Agenzia delle entrate.

La L. n. 358 del 1991, art. 7, commi 13, è rimasto solo come norma attributiva della competenza ispettiva alla Guardia di Finanza, senza più distinguere competenze all’interno della Agenzia delle entrate.

Ritiene il collegio che, partendo da quest’ultima conclusione, secondo cui la L. n. 358 del 1991, art. 7, comma 13, mantiene tuttora un senso, anche dopo l’abrogazione del comma 10, per la parte relativa alla attribuzione delle funzioni accertatrici alla GdF, ed una volta che è stata istituita l’Agenzia delle Entrate e definiti i suoi compiti con una legge (L. n. 399 del 1999, art. 62, che menziona espressamente tra i compiti dell’Agenzia quello di assicurare l’adempimento degli obblighi fiscali “attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l’evasione fiscale”), la ripartizione interna delle competenze possa anche essere compiuta con atto regolamentare, come affermato dalla CTR. A tal proposito, il Reg. n. 4 del 2000, prevede, all’art. 3, che la Direzione Centrale Grandi Contribuenti possa, tra le altre attività, “curare lo svolgimento di indagini e controlli di particolare rilevanza e complessità”.

I motivi devono, pertanto, essere rigettati.

Occorre, quindi, passare all’esame dei motivi di merito della questione, con una premessa di fondo:

l’ambito della presente causa è, come in tutti i giudizi tributari, determinato originariamente dalla impugnazione di un atto ben individuato. Nel caso di specie, si tratta dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), che riguarda specificamente l’irap, e non l’ires, come espressamente rappresentato a pag. 2 dello stesso, dove, in maniera inequivoca, si afferma che “il presente atto riguarda: imposta regionale sulle attività produttive”. Del resto, la stessa intestazione della sentenza impugnata riporta come oggetto della controversia: irap 2004. L’ires per lo stesso anno di imposta (2004) è stato oggetto, infatti, di separato avviso di accertamento, avente n. (OMISSIS), da cui è scaturito altro procedimento, nel quale la sentenza della CTR del Lazio è la n. 87/37/13, depositata il 19.3.2013, impugnata davanti a questa Corte, dando origine al procedimento 25545/13, chiamato anch’esso all’udienza odierna, e nel quale il contribuente ha depositato istanza di sospensione per la definizione agevolata, ai sensi del D.L. n. 118 del 2019, art. 6, con conseguente sospensione dello stesso.

Se è vero, quindi, che entrambi gli avvisi di accertamento, ai fini irap ed ires, derivano dal medesimo processo verbale di constatazione, che evidentemente conteneva rilievi ai fini di entrambe le imposte, è anche vero che l’atto impugnato, che delimita l’ambito della controversia, è il primo e non il secondo.

L’oggetto del presente procedimento è, pertanto, come detto, l’irap, e non l’ires, come erroneamente riporta il ricorrente a pag. 2 del ricorso.

Riguardo alla determinazione della base imponibile irap, l’avviso di accertamento impugnato compie, in sostanza, il seguente ragionamento: se i titoli in questione non fossero stati trasferiti di comparto il 31.12.2004 (restando, così, nel comparto “durevole”), certamente non avrebbero concorso alla formazione della base imponibile irap ai sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 7; nonostante il trasferimento di comparto e la determinazione della plusvalenza, l’ufficio ritiene che ugualmente quest’ultima non concorra alla formazione della base imponibile irap in virtù del cit. D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, (c.d. principio di correlazione). Solo “ad abundatiam”, per corroborare una conclusione alla quale è già giunto, l’avviso completa, poi, la motivazione, richiamando le considerazioni del processo verbale di constatazione dal quale sono derivati sia il presente accertamento ai fini irap, sia quello separato ai fini ires, sottolineando la indeducibilità della minusvalenza anche ai fini ires ed utilizzando tale argomento sempre ai fini dell’oggetto dell’atto specifico, e cioè per confermare la indeducibilità ai fini dell’irap, anche qualora tali componenti concorressero alla formazione della base imponibile.

Ciò premesso, si deve ritenere, quindi, che tutte le argomentazioni esposte ed i motivi proposti attinenti al rilievo della minusvalenza ai fini ires, che riguardano, quindi, la qualificazione della partecipazione e, ancora più, l’applicazione o meno del regime della “participation exemption” siano, in realtà, subordinati nel contesto della controversia che, riguardando l’irap, si esaurisce in realtà, all’interno dell’avviso di accertamento, già con l’affermazione secondo cui, se i beni non fossero stati trasferiti nel comparto non durevole non avrebbero concorso alla formazione della base imponibile irap, e, pur essendo stati trasferiti, sono ritenuti ugualmente irrilevanti sulla base dell’interpretazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11.

Poi, certo, il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11-bis, afferma che I componenti positivi e negativi che concorrono alla formazione del valore della produzione, così come determinati ai sensi degli artt. 5, 6, 7, 8 e 11, si assumono apportando ad essi le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi, ma se un componente non concorre a formare il valore della produzione netta (cioè della base imponibile) ai sensi dell’art. 7, (ed art. 11), come nel caso di specie sono stati ritenuti tali titoli, ritenendosi irrilevante lo spostamento nel comparto “non durevoli”, viene meno il rilievo del riferimento alle variazioni previste dal tuir.

In ogni caso, la direzione presa dalla causa la ha portata ad essere incentrata quasi prevalentemente sulle tematiche più propriamente attinenti all’ires, come si evince anche visivamente dalla sentenza impugnata in cui, su oltre sette pagine di parte motiva, solo una e mezza è dedicata specificamente all’irap, mentre per tutto il resto la motivazione affronta problemi attinenti più specificamente all’ires.

E’ vero che il giudizio tributario è ormai generalmente riconosciuto come di “impugnazione merito” anzichè di “impugnazione annullamento”, ma questo non significa trascurare il fatto che la materia del contendere è pur sempre delimitata in primo luogo dalla pretesa manifestata nell’avviso di accertamento, soprattutto quando gli argomenti relativi all’altra imposta sono contenuti in un altro apposito atto, ugualmente impugnato.

Per questo, preliminare a tutti i motivi di merito deve essere l’undicesimo, che attiene specificamente all’irap.

Con l’undicesimo motivo, dunque, la società ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 7 e 11, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La CTR ha errato nell’approvare il comportamento dell’ufficio che ha escluso la minusvalenza dalla base imponibile ai fini irap.

La sostanza del motivo è che, secondo il contribuente, la svalutazione andava dedotta dalla base imponibile irap ai soli sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 7, senza fare ricorso al cit. decreto, art. 11.

Dagli atti si comprende che in origine la partecipazione era iscritta nel comparto “durevoli” fin dal 2001, e successivamente (al 31.12.2004) era stata trasferita nel comparto “non durevoli”; secondo il contribuente, per il 2004 bisognava fare riferimento semplicemente all’iscrizione conseguente al trasferimento di comparto avvenuto proprio alla fine di quell’anno (nei beni “non durevoli”), per cui la stessa avrebbe concorso alla formazione della base imponibile irap, atteso che, secondo l’art. 7, nella versione vigente per tale anno di imposta:

“per le imprese di assicurazione la base imponibile è determinata dalla differenza tra la somma: a) dei premi e degli altri proventi tecnici, b) dei proventi derivanti da investimenti in terreni e fabbricati, da altri investimenti diversi da quelli costituiti da azioni o quote, da riprese di rettifiche di valore su investimenti non durevoli, nonchè da profitti sul realizzo di investimenti mobiliari non durevoli, e la somma: c) delle provvigioni, comprese quelle di incasso, e delle altre spese di acquisizione, d) degli oneri relativi sinistri, comprese le spese di liquidazione, e) degli oneri di gestione degli investimenti, degli interessi passivi, delle rettifiche di valore su investimenti non durevoli; nonchè delle perdite sulle realizzo di investimenti mobiliari non durevoli…”.

Secondo la CTR, invece, poichè in origine la partecipazione era iscritta nei beni durevoli, questo era sufficiente ad escludere sempre la svalutazione dalla base imponibile irap; questo, per assicurare “una situazione di continuità ed omogeneità nella determinazione dell’imposta”, il cui spirito si ritroverebbe anche nel cit. decreto, art. 11.

Il motivo è infondato nei termini che seguono.

Questa Corte, su questione analoga, ha avuto modo di affermare nella già citata sentenza n. 20345 del 2019 (relativa all’anno 2003), che In realtà, sebbene sia possibile il mutamento di destinazione dell’investimento da durevole a non durevole e viceversa, tuttavia il passaggio da titolo rientrante nelle attività finanziarie immobilizzate a quelle non immobilizzate può discendere da ragioni, quali il mutamento di strategia aziendale realizzato in seguito al rinnovo dell’organo amministrativo oppure il cambiamento di proprietà dell’azienda. Il trasferimento non può in alcun caso essere giustificato da politiche di bilancio finalizzate ad obiettivi legati al risultato d’esercizio o dall’andamento del mercato (in tal senso anche OIC 20 del 2016 ed OIC 20 del 2005). Peraltro, l’art. 2427 c.c., comma 1, n. 2, prevede che nella nota integrativa siano indicati “i movimenti delle immobilizzazioni…gli spostamenti da una ad altra voce”, tanto che nei principi OIC 20 si chiarisce che tali informazioni sono corredate dalla indicazione dei titoli, con relativo importo, che hanno costituito oggetto di cambiamento di destinazione e le relative ragioni…. (omissis)… Peraltro, secondo la società, il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, consente, comunque di ampliare le componenti deducibili in base al principio di correlazione. L’art. 11 citato, infatti, dispone che “al fine della determinazione della base imponibile di cui agli artt. 5, 6 e 7, concorrono anche i proventi e gli oneri classificabili fra le voci diverse da quelle indicate in detti articoli, se correlati a componenti positivi e negativi del valore della produzione di periodi di imposta precedenti o successivi”. Non è possibile, allora, dopo avere operato una scelta per la iscrizione nel comparto “durevole”, irrilevante ai fini della determinazione del reddito per Irap, poi procedere ad uno spostamento nel comparto “non durevole”, quindi rilevanti ai fini Irap, senza addurre alcuna giustificazione, diversa dalle politiche di bilancio finalizzate ai risultati di esercizio. Il D.Lgs. n. 466 del 1997, art. 11, dunque, risponde all’obiettivo di ristabilire una situazione di continuità e di omogeneità nella determinazione dell’imponibile. Tale disposizione evita altresì, specie in presenza di componenti di origine valutativa, inopportune divergenze tra i valori fiscali rilevanti ai fini delle imposte sul reddito e quelli rilevanti ai fini del tributo regionale (in tal senso anche la circolare dell’Agenzia delle entrate 148 E del 26-7-2000). Del resto, l’art. 11, comma 4, prevede che “indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, i componenti positivi e negativi sono accertati in ragione della loro corretta classificazione”. Pertanto, anche il principio di correlazione si fonda sulla “corretta classificazione” dei componenti positivi e negativi del conto economico, essendo necessaria l’esposizione, anche in nota integrativa, delle ragioni del mutamento della collocazione in bilancio dei titoli, dalle immobilizzazioni materiali (durevoli) al capitale circolante (non durevole), e quindi rilevante ai fini Iva.

Ora, a parte la notazione per cui, dal tenore letterale di tale sentenza che riguardava lo stesso contribuente, emerge come in quel caso quest’ultimo abbia invocato l’art. 11 proprio per sostenere la deducibilità del componente di bilancio che veniva in rilievo in quel caso (contrariamente a quanto invocato nella presente controversia, anche se ciò è evidentemente frutto di una leggermente diversa situazione di fatto), la CTR ha espresso un concetto solo in parte analogo laddove ha affermato che l’iscrizione nel comparto durevole ha determinato l’esclusione dall’Irap dei componenti positivi e negativi “con vincolo di definitività”, trattandosi di scelta che ha effetto anche per gli esercizi successivi, essendo diversamente, lasciata sostanzialmente alla discrezionalità del contribuente la determinazione della base imponibile per ogni anno di imposta, in base alle proprie esigenze.

Ha, poi, precisato che l’art. 11-bis, ha lo scopo, in sostanza di permettere al bilancio fiscale di dare una rappresentazione il più possibile fedele della realtà dell’azienda, anche in relazione a componenti che hanno concorso a determinare l’imponibile in periodo di imposta diversi, e, come detto, di assicurare la stabilità della base imponibile.

Il contribuente evidenzia che nella relazione di accompagnamento al D.L. n. 176 del 1999, che ha modificato l’art. 11, è affermato chiaramente che tale norma serve a colmare eventuali carenze di altre norme ai fini della determinazione della base imponibile irap (in particolare rispetto a quella ires), ma ciò non dovrebbe condurre alla possibilità di modificare i criteri fissati nelle norme specifiche, per cui, nel caso di specie, non dovrebbe essere applicabile, sussistendo già l’art. 7, che disciplina la rilevanza dei beni non durevoli ai fini della base imponibile irap.

In effetti, la definitività dell’iscrizione che la CTR pone a base del proprio ragionamento non emerge dal diritto positivo, dovendosi, piuttosto, evidenziare come secondo il principio contabile OIC-20, non mutato in questa parte dal 1996, “Titoli e partecipazioni”, paragrafo “cambiamento di destinazione” (che, seppure senza essere fonte di diritto, ha comunque funzione interpretativa ed integrativa) “In circostanze presumibilmente rare, i titoli possono essere oggetto, durante il periodo di possesso da parte dell’impresa, di una destinazione economica diversa rispetto a quella originariamente loro attribuita dall’organo amministrativo; nel senso che un titolo, inizialmente iscritto nel bilancio tra le attività finanziarie non immobilizzate, in un esercizio successivo può essere successivamente destinato a un investimento durevole e quindi riclassificato tra le immobilizzazioni finanziarie; oppure, al contrario, un titolo in precedenza classificato tra le immobilizzazioni finanziarie viene iscritto tra le attività finanziarie non immobilizzate”.

In dottrina si afferma il principio per cui il regime fiscale ai fini irap delle componenti reddituali non dovrebbe essere legato esclusivamente al dato formale dell’iscrizione in bilancio, ma occorrerebbe valutare la natura intrinseca, oggettiva, di queste, dando rilievo al requisito sostanziale del presupposto impositivo. Il fatto che la base imponibile dell’irap sia ancorata ai valori contabili va coordinato con l’esigenza di tassare l’effettivo valore della produzione, in modo che non venga a generarsi una maggiore capacità contributiva per il solo fatto che il costo venga rilevato inizialmente tra le poste valutative.

In tal senso, ritiene il collegio che, in ogni caso, anche accogliendo tale principio nella tesi più favorevole al contribuente – secondo cui occorre fare riferimento solo all’art. 7, – occorre pur sempre tenere conto, come rilevato da questa Corte nella sentenza sopra citata, dell’ulteriore affermazione del principio 0IC-20, secondo cui “il trasferimento non può in ogni caso essere giustificato da politiche di bilancio finalizzate ad obiettivi legati al risultato d’esercizio o dall’andamento del mercato”. In altri termini, occorre che il trasferimento di un componente da un comparto all’altro del bilancio – pur ritenendolo ammissibile ai fini irap – sia giustificato da dati oggettivi, perchè altrimenti viene meno quell’esigenza di chiarezza che, comunque, il complesso della normativa irap tende a garantire nella formazione della base imponibile, specie quando vengono in rilievo componenti la cui iscrizione ricorre a bilancio in più periodi di imposta.

Tali ragione devono essere esplicitamente e chiaramente esposte in nota integrativa. Di tutto ciò, la società non ha dato conto.

Laddove, quindi, il senso della conclusione della CTR è quello per cui la società non può trasferire a sua discrezione i titoli da un comparto all’altro semplicemente per ragioni contabili e fiscali, che si traducono in sostanza in riduzioni di imposta, la stessa esprime, in realtà, lo stesso concetto di fondo, del quale deve essere affermata la correttezza.

Peraltro, per completezza di analisi occorre analizzare anche i motivi attinenti, però, come si ripete alla tematica subordinata a quella sopra trattata; quella per cui, se anche tali componenti rilevassero, il loro valore ai fini della base imponibile irap andrebbe calcolato secondo i principi del testo unico delle imposte sui redditi.

Con il quarto motivo la società deduce violazione del t.u.f., art. 43 e ss., e/o della L. 20 dicembre 2002, del Lussemburgo (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La CTR ha errato laddove ha parificato la partecipazione in una Sicav ad una partecipazione societaria.

Con il quinto motivo deduce violazione del D.Lgs. n. 58 del 1999, artt. 1, 43 e ss., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La CTR ha errato laddove ha ritenuto che Montesicav, ancorchè costituita in forma di Sicav, non fosse qualificabile come OICR.

Con il sesto motivo deduce violazione della L. n. 218 del 1995, art. 25, e della L. lussemburghese 20 dicembre 2002, art. 27, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Montesicav è una società di diritto lussembrughese, ai sensi della L. 218, art. 25, alle società si applica la legge dello Stato di costituzione (nella specie Lussemburgo), le autorità lussemburghesi hanno certificato che si tratta di Sicav e quindi questo requisito non può essere messo in discussione in Italia.

Con il settimo motivo deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

La CTR non ha tenuto conto del fatto, sottoposto alla sua attenzione, che ancora nel 2007 il preposto organo di vigilanza lussemburghese aveva riconosciuto che Montesicav operava come una Sicav; inoltre del fatto che ancora nel 2003 Montesicav aveva una pluralità di sottoscrittori, e non era sempre stata posseduta da un unico socio (elemento che la CTR ha ritenuto determinante per escluderne la natura di Sicav); inoltre la CTR non ha considerato il fatto, dedotto in giudizio, che Montesicav era amministrata da una SGR; infine la CTR ha dato rilievo al fatto che nello Statuto di Montesicav vi fossero clausole limitative dell’accesso alla compagine sociale senza considerare il fatto, dedotto, che tali clausole erano da sempre presenti nello Statuto e non sono incompatibili con la natura di Sicav.

Anche tali motivi possono essere trattati congiuntamente e riguardano la parte di motivazione della sentenza impugnata che, in sostanza, si può riassumere nei seguenti termini: poichè la partecipazione di Axa in Montesicav era quella di un unico socio, e non di una pluralità, questa partecipazione non si può considerare, in realtà, come se fosse in una Sicav – nonostante formalmente lo sia – perchè quest’ultima presuppone una pluralità di soci; era, pertanto, da considerare una partecipazione in una ordinaria società di capitali. Di conseguenza, afferma la CTR, deve applicarsi la disciplina della c.d. Participation exemption (PEX) che, come prevede la quasi totale detassazione delle plusvalenze, comporta parallelamente la non deducibilità delle minusvalenze, e “non può trovare applicazione la disciplina derogatoria, rispetto al regime di esenzione che è alla base della PEX, per quanto riguarda la deducibilità delle plusvalenze da svalutazione, qualora queste si riferiscano a titoli rappresentativi di investimenti in OICR”.

Le questioni che vengono in rilievo nella sentenza impugnata sono, quindi, le due seguenti:

a) considerare la partecipazione come societaria e non in una Sicav

b) considerare applicabile a tale partecipazione, in caso di minusvalenza, il regime PEX.

I motivi quarto, quinto, sesto e settimo si riferiscono, sotto diversi profili, alla prima questione.

La seconda questione sarà poi oggetto dei motivi ottavo e nono.

La CTR, come detto, ha ritenuto la partecipazione in Montesicav una partecipazione societaria a tutti gli effetti, mentre il contribuente sostiene che non potesse considerarsi tale, data la specificità delle Sicav, e di quella del caso di specie che era oltretutto di diritto estero, per cui non vi poteva essere assoggettamento alle suddette norme fiscali.

I motivi sono infondati.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in caso analogo già citato (sez. V, n. 20345 del 2019)

Il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, nella versione vigente ratione temporis, qualifica la “società di investimento a capitale variabile” (SICAV) come “la società per azioni a capitale variabile con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni”. Si tratta di una forma di investimento finanziario avente, però, natura societaria, a differenza dei fondi comuni di investimento, pur essendo a questi complementari, ma con aspetti del tutto peculiari rispetto alle società per azioni. Infatti, per “fondo comune di investimento” si intende ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 1, lett. j, “il patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte; il patrimonio del fondo, sia aperto che chiuso, può essere raccolto mediante una o più emissione di quote”. Il “fondo aperto” è, poi, quello i cui partecipanti hanno diritto di chiedere, in qualsiasi tempo, il rimborso delle quote secondo le modalità previste dalle regole di funzionamento del fondo (art. 1 comma 1 lett. k), mentre il “fondo chiuso” è quello in cui il diritto al rimborso delle quote viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate (art. 1, comma, 1, lett. i). Sia i fondi comuni di investimento che le Sicav appartengono agli “organismi di investimento collettivo del risparmio” (OICR). La caratteristica principale delle Sicav è quella di consentire l’entrata e l’uscita degli azionisti, con ciò avvicinandosi ai fondi di investimento “aperti”, ma se ne distingue per la disciplina societaria propria delle s.p.a., seppure con alcune importanti specificità. Si tratta di società a capitale variabile, con la necessaria costante uguaglianza del capitale al patrimonio netto detenuto dalla società, sicchè sono inapplicabili le norme in tema di riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c.. Vi è assoluta coincidenza tra patrimonio netto e capitale minimo (effettività del capitale), che deve essere sufficiente a consentire alla società di investimento di esercitare effettivamente la propria attività, permettendole di far fronte alle responsabile ad essa collegate. In ragione della variabilità del capitale sociale, vi è una totale libertà di raccolta di nuove adesioni da parte della società, e vi è la facoltà attribuita al socio di recedere dalla stessa in qualsiasi momento, attraverso il rimborso delle azioni e la conseguente restituzione del proprio apporto. Altra caratteristica delle Sicav è la semplificazione della formazione della volontà dell’assemblea dei soci, proprio in ragione dell’azionariato diffuso, connaturato con la natura di società “aperta” della Sicav (D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 35 sexies, non applicabile alla fattispecie in esame perchè intervenuto successivamente, con il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44, art. 4, comma 5).

Pertanto, proprio in ragione della variabilità del capitale sociale, la necessaria presenza di un azionariato diffuso è la caratteristica peculiare delle Sicav.

Anche nel presente caso, come in quello cui si riferisce la sentenza n. 20345 del 2019, il giudice di appello, dunque, avendo evidenziato che nell’anno di riferimento (2004) l’intero capitale era nella titolarità dell’unico socio Axa, la quale nel dicembre 2003 aveva incorporato anche il secondo socio Ticino Vita s.p.a., ed in assenza di movimentazioni per quell’anno, ha ritenuto che la partecipazione di Axa in Montesicav lussemburghese, per le concrete modalità di svolgimento dell’attività societaria nel periodo di riferimento, non fosse riconducibile ad una partecipazione ad una Sicav, ma si trattasse solo di una partecipazione ad una società ordinaria di “diritto comune” non residente in Italia.

Per il giudice di appello, quindi, “AXA risulta avere il possesso di tutte le azioni di Montesicav, una società formalmente costituita come Sicav. La partecipazione alla totalità delle azioni stante l’inesistenza di altri soggetti investitori, la mancanza di movimentazione dei propri titoli e la conclamata carenza di attività sollecitative dell’investimento presso il pubblico dei risparmiatori, configurano la partecipazione dell’appellante in Montesicav come pura partecipaizone al capitale della società”.

In atti, non è sostanzialmente contestata in capo a Montesicav l’assenza di qualsiasi movimentazione delle partecipazioni, in termini di riscatto e di sottoscrizione di quote, sicchè è assente l’attività di sollecitazione al risparmio di titoli. Al contrario, nel periodo anteriore all’investimento, quindi, nel 2001 vi era grande movimentazione dei titoli relativi al patrimonio della Montesicav. Vi erano, poi, norme statutarie volte a restringere o escludere l’acquisizione da parte di soggetti terzi nell’interesse della Axa s.p.a.

L’essenza del requisito della pluralità di partecipazione in una Sicav, quindi, (quarto motivo) deriva dalla stessa definizione di quest’ultima che, ai sensi del t.u.f., art. 1, comma 1, lett i), è l’Oicr aperto costituito in forma di società per azioni a capitale variabile con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni.

Quanto al fatto che Montesicav fosse stata formalmente riconosciuta come Sicav dalle autorità lussemburghesi (sesto motivo), questa Corte, nella suddetta sentenza, ha già osservato che la L. n. 218 del 1995, art. 25, comma 1, u.p., prevede che “Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti”. Pertanto, non può applicarsi alla fattispecie in esame la legge lussembrurghese, in materia di Sicav. La Dir. 85/611/CEE, art. 4, comma 1, dispone che “per esercitare la propria attività, un oicvm (organismo di investimento collettivo in valori mobiliari) deve essere autorizzato dalle autorità competenti dello stato membro in cui l’oicvm è situato”. Il cit. art., comma 2, prevede, poi, che “tale autorizzazione vale per tutti gli stati membri”. Tuttavia, il rilascio da parte delle autorità di controllo lussemburghesi alla Montesicav ad operare come Sicav non può comportare una presunzione assoluta insuscettibile di prova contraria. Pertanto, per usufruire del trattamento fiscale delle Sicav, non è sufficiente che sussista il riconoscimento del requisito formale di Sicav da parte degli organi deputati ai controlli ed alle verifiche, con il rilascio della relativa autorizzazione, ma è necessario che l’attività svolta in concreto da tali soggetti sia in linea con l’oggetto sociale. Peraltro, solo nel 2003, dopo l’acquisizione di tutte le quote Montesicav da parte di Axa s.p.a. non v’è stata più alcuna movimentazione contabile, sicchè l’autorizzazione iniziale era coerente con la disciplina italiana.

Tale conclusione non appare smentita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza Centros (caso C-212/97), atteso che quest’ultima riguarda la libertà di stabilimento, ed afferma che in nome di tale principio non si può negare ad una società registrata in uno Stato Membro, anche se in esso inoperante, la libertà di aprire una succursale in altro Stato Membro, anche qualora quest’ultima fosse, nelle intenzioni dell’imprenditore, la società realmente attiva, e l’operazione fosse posta in essere per eludere le norme sulla registrazione delle società in questo secondo Stato. Una tematica, quindi, differente da quella della presente controversia.

Il mancato riconoscimento del requisito della pluralità di investitori fa anche venire meno anche la qualifica di OICR (quinto motivo), che nel testo unico finanziario è definito nel seguente modo l’organismo istituito per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonchè investito in strumenti finanziari, crediti, inclusi quelli erogati, a favore di soggetti diversi da consumatori, a valere sul patrimonio dell’OICR, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata.

Va anche ricordato, come già menzionato nella già citata sentenza n. 20345 del 2019, che nessuna equiparazione con i fondi comuni di investimento è possibile, e che tra i principi cardine della Dir. 85/611/CEE, (“concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM)”, vi è l’art. 2, che prevede che “non sono considerati Oicvm assoggettati alla presente direttiva: gli oicvm di tipo chiuso; gli oicvm che raccolgono capitali senza promuovere la vendita delle loro quote tra il pubblico all’interno della Comunità o in qualsiasi parte di essa; gli oicvm la cui vendita delle quote è riservata dal regolamento del fondo o dai documenti costitutivi della società d’investimento al pubblico dei paesi terzi”.

Quanto al settimo motivo, che non riguarda l’interpretazione delle norme che vengono in rilievo, quanto un asserito vizio motivazionale della sentenza, la CTR ha in sostanza considerato tutti gli elementi addotti dalla parte, tendenti ad escludere che si trattasse di una ordinaria partecipazione societaria, ma in una Sicav. Soltanto, non li ha ritenuti idonei a qualificare la partecipazione come in una Sicav.

A partire da pag. 8 della sentenza, infatti, la CTR ha preso in considerazione la composizione societaria di Montesicav, affermando che a partire dal 2001 il gruppo MPS, e poi dal 2003 AXA stessa, a seguito dell’incorporazione della Ticino Vita spa, ha detenuto l’intero patrimonio di Montesicav, ravvisando in ciò una “grave anomalia”. Ciò significa che, indipendentemente da quanto avvenuto in precedenza, ha considerato rilevante il fatto che dal 2003 non vi fosse pluralità di soci in Montesicav.

Ha poi analizzato la rilevanza della normativa lussemburghese, sulla cui base era stato emesso il certificato che qualificava Montesicav come Sicav, ed ha, infine, sottolineato l’esistenza delle norme statutarie che restringevano l’accesso di terzi al possesso del capitale, evidentemente ritenendo irrilevante che tali clausole fossero da sempre presenti nello Statuto, e le ha ritenute incompatibili con la qualificazione di Sicav.

Ai fini del motivo così come dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, dopo la novella del 2012, tali indicazioni sono sufficienti per ritenere insussistente il vizio denunciato.

Con l’ottavo motivo deduce violazione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 82, commi da 17 a 22, del D.Lgs. 23 dicembre 1999, n. 505, art. 8, e dell’art. 23 Cost., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La CTR ha errato laddove, pur considerando Montesicav una Sicav, ha applicato alla sua partecipazione un regime fiscale diverso da quello proprio.

Con il nono motivo deduce violazione del tuir, artt. 85, 87, 92,94,101, del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, e dell’art. 23 Cost., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La CTR ha errato laddove, sul presupposto che Montesicav fosse una società non residente, ha applicato il regime impositivo della “participation exemption” (PEX) con impossibilità di dare rilievo alle minusvalenza non realizzate, mentre nella specie non sussistevano comunque i requisiti per l’applicazione della PEX, ed in particolare l’esigenza di evitare la doppia imposizione.

I motivi sono infondati.

Si tratta della seconda questione relativa al merito della causa, come esposto sopra nell’introduzione dei motivi quarto, quinto, sesto e settimo, ed attiene all’applicazione dell’istituto della “participation exemption”, alla luce del fatto che la partecipazione è stata ritenuta una ordinaria partecipazione in una società di capitali.

Ai fini della decisione degli stessi occorre, in primo luogo, evidenziare che la pretesa impositiva è originata, come già ampiamente affermato, dall’avviso di accertamento.

In esso si afferma che, avendo i titoli della cui svalutazione si discute, le caratteristiche di cui al tuir, art. 85, comma 1, lett. c), del (e cioè quote di partecipazioni, anche non rappresentate da titoli, al capitale di società ed enti di cui all’art. 73, – cioè società di capitali o comunque società soggette ad ires – che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie), la minusvalenza da svalutazione (non, quindi, da realizzo a seguito di cessione) è indeducibile ai sensi del combinato disposto del tuir, art. 101, comma 2, e art. 94, comma 4.

Ora, il TUIR, art. 101, anche dopo la riforma del 2003 (entrata in vigore a partire dall’1.1.2004, e quindi applicabile all’anno di imposta in questione), continua a rinviare alle norme previste in materia di valutazione delle attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni (ossia alle norme recate dall’attuale art. 94). L’art. 101, comma 2, precisa, infatti, che tale rinvio opera per le attività finanziarie immobilizzate consistenti in:

– partecipazioni societarie (azioni o quote), di cui al tuir, art. 85, comma 1, lett. c);

– strumenti finanziari di tipo partecipativo, di cui tuir, art. 85, comma 1, lett. d);

– obbligazioni e altri titoli in serie o di massa di cui al tuir, art. 85, comma 1, lett. e.

Il tuir, art. 94, comma 4, nello stabilire che anche per le attività finanziarie risulta possibile svalutare il costo fiscalmente riconosciuto (seppure nei limiti del valore fiscale minimo da determinarsi ai sensi del medesimo art. 94, comma 4), precisa però che tale facoltà di svalutazione è da intendersi consentita solo per le attività finanziarie di cui al TUIR, art. 85, comma 1, lett. e), (ossia solo per le attività finanziarie rappresentate da obbligazioni e altri titoli ad esse assimilabili). Dall’insieme delle richiamate disposizioni normative e dei relativi rimandi, emerge dunque, in realtà, il dato della indeducibilità fiscale, a decorrere dal periodo di imposta 2004 delle minusvalenze da mera svalutazione operate sulle partecipazioni societarie e sui c.d. “strumenti finanziari partecipativi” introdotti dalla riforma del diritto societario (sia che tali attività finanziarie costituiscano immobilizzazioni, sia che risultino iscritte nell’attivo circolante).

In tal senso, per quanto possa rilevare e senza volere certo attribuire al documento alcun valore di prova, ma solo di mero riscontro, si veda la circolare 36/e del 2004, esplicativa della riforma di cui al D.Lgs. n. 344 del 2003, che, al paragrafo 6, esplicitamente afferma:

In attuazione del criterio direttivo enunciato alla L. delega n. 80 del 2003, art. 4, comma 1, lett. e), nel nuovo TUIR, artt. 64 e 101, si affermano i seguenti principi:

– assoluta indeducibilità delle minusvalenze iscritte (rectius, minusvalenze da valutazione). Tale indeducibilità opera con riferimento a tutte le partecipazioni, siano esse qualificate o meno per l’esenzione.

Nè rileva la previsione del D.L. n. 209 del 2002, convertito in L. n. 265 del 2002, (che viene in rilievo nel procedimento cui si riferisce il precedente n. 20345 del 2019, che però si occupa dell’anno di imposta 2003, e quindi l’ultima annualità pre-riforma del 2004) secondo cui le minusvalenze non realizzate relative a partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni finanziarie sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono state iscritte e nei quattro successivi;

atteso che le nuove formulazioni del tuir, artt. 101 e 94, sono successive, e si applicano proprio a partire dall’1.1.2004, e quindi all’anno in discussione nella presente causa.

E, ancora, la disposizione del D.Lgs. n. 84 del 1992, art. 14, nella versione vigente nel 2004, secondo cui La SICAV presenta la dichiarazione del risultato di gestione conseguito, indicando altresì i dati necessari per la determinazione dell’imposta sostitutiva dovuta. Si applicano le disposizioni di cui alla L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9, commi da 2 a 4, nonchè quelle di cui al testo unico delle Disp. concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 7, della tabella allegata, concernente i fondi comuni di investimento di natura contrattuale laddove la suddetta L. n. 77 del 1983, art. 9, recita, tra l’altro, Le rettifiche di valore delle quote sono ammesse in deduzione dal reddito per l’importo che eccede i maggiori valori iscritti in bilancio che non hanno concorso a formare il reddito, presuppongono, comunque, sempre la qualità di Sicav, che deve fare capo alla società che intende procedere alla deduzione e che, nel caso di specie, certamente non è attribuibile ad una società come la ricorrente.

Di conseguenza, il tema della “participation exemption”, su cui a lungo si sofferma la sentenza impugnata, nonchè il tuir, artt. 89 e 87, che si riferiscono a plusvalenze e minusvalenza realizzate, a utili e dividendi, non si pongono, in realtà, come determinanti nella controversia, atteso che, come emerge dalla stessa sentenza della CTR, e dall’atto la cui impugnazione ha dato origine alla presente controversia – l’avviso di accertamento – il recupero della minusvalenza, relativa sì alla partecipazione in una asserita Sicav, ma laddove il soggetto passivo tributario di cui si discute è pur sempre una ordinaria società per azioni (Axa s.p.a.), è avvenuto ai sensi del tuir, art. 101, comma 2, e art. 94, comma 4.

Certo, è vero che il tuir, art. 85, comma 1, lett c), per identificare i titoli dei quali il tuir, artt. 101,92 e 94, determinano il regime fiscale delle minusvalenze, afferma che deve trattarsi di titoli diversi da quelli a cui si applica il regime di cui al tuir, art. 87, cioè la PEX, ma il riferimento in quella sede è necessario perchè l’oggetto della disposizione è la definizione di “ricavi”, corrispettivi di cessioni, mentre il rinvio che il tuir, art. 101, compie all’art. 85, è rilevante solo per identificare i titoli ai quali esso si riferisce:

In altri termini, una volta ritenuto, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, che le partecipazioni in questione fossero in soggetti ires di cui all’art. 73, il regime applicabile che veniva in rilievo era quello di cui al tuir, artt. 101,92 e 94.

Con il decimo motivo deduce omessa pronuncia in relazione all’applicazione della L. n. 77 del 1983, art. 9, e, quindi, violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

La CTR non si è pronunciata sulla invocata applicazione della disciplina dei titoli emessi dai fondi comuni di investimento ai sensi della L. n. 77 del 1983, che permette la deduzione della minusvalenza indipendentemente dal suo effettivo realizzo.

Il motivo è infondato.

La sentenza, infatti, a pag. 9, in risposta al motivo di appello della società appellante, secondo cui non vi sarebbe sostanziale differenza tra i titoli emessi da una Sicav, con struttura societaria, e quelli emessi da un OICR, senza tale struttura, quali i fondi comuni, evidenzia le differenze tra le due figure, escludendo tale parificazione.

Ai fini del motivo come formulato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, non si ravvisa, quindi, la omessa pronuncia.

Infine, con il dodicesimo motivo deduce omessa pronuncia sulla non debenza delle sanzioni e, quindi, violazione dell’art. 112 c.p.c., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4).

La CTR ha del tutto omesso di pronunciarsi sul motivo di appello relativo alla non debenza delle sanzioni, ricorrendone i presupposti, a seguito del rigetto della medesima richiesta da parte della CTP.

Il motivo è infondato nei termini che seguono.

La CTR è, in realtà, ben colpevole della censura sulla sanzioni (citata, infatti, a pag. 5, n. 2, cpv. ultima parte); al termine della motivazione, poi, la conclusione “l’appello proposto da AXA viene respinto” ed il dispositivo “respinge l’appello” non possono, quindi, non essere riferiti anche a tale censura. Dunque, non si tratta tanto di omessa pronuncia quanto di un problema di motivazione, atteso che, comunque, indubbiamente nessuna parte della motivazione è dedicata a spiegare le ragioni del rigetto di tale motivo. Questo comporta, però, che lo iato esistente tra la pronuncia di rigetto ed il mancato esame della censura possa essere colmato dalla correzione della motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., integrando la decisione con l’enunciazione delle ragioni di diritto che la giustificano (in tal senso Sez. II, n. 8561 del 2006; Sez. Un., n. 2731 del 2017).

In questo senso, il ricorrente invoca l’esclusione delle sanzioni per l’asserita sussistenza sia della mancanza di colpa, sia dell’esimente derivante da “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni” di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 e art. 6, comma 1, secondo periodo.

In particolare, le disposizioni sulla cui portata ed ambito vi sarebbe incertezza sono, come precisato dal ricorrente, quelle sulla qualificazione di Montesicav come OICR.

Inoltre il ricorrente invoca la non debenza delle sanzioni, sempre in base al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, per il fatto che “le rilevazioni eseguite nel rispetto della continuità dei valori di bilancio e secondo corretti principi contabili, e la valutazioni eseguite secondo corretti criteri di stima non danno luogo a violazioni punibili”.

Ora, ritiene il collegio che tali esimenti o cause di non punibilità non sussistano.

L'”incertezza normativa oggettiva”, quale causa di esenzione dalla responsabilità tributaria, richiede una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria. Tale situazione è ravvisabile ogniqualvolta dalla disposizione incerta derivi uno stato di insicurezza ed equivocità del risultato cui miri la stessa. In altre parole, l’incertezza obiettiva non coincide con la totale assenza di significato della norma, ma sussiste quando, dopo un’attività interpretativa “metodicamente corretta”, non è possibile eliminare ugualmente l’equivoca pluralità di significati estrapolabili dalla norma. (Sez. V, n. 10126 del 2019).

Nel caso di specie, però, ciò di cui si duole il ricorrente è la asserita imprevedibilità della riqualificazione da parte dell’Agenzia della partecipazione in Montesicav e la qualificazione del soggetto come OICR.

Questa, però, più che frutto di incertezza normativa, appare frutto di una operazione di accertamento condotta dall’ufficio. Il fatto che accertamenti o qualificazioni di questo tipo possano essere non frequenti, o che le questioni siano nuove, senza il supporto di giurisprudenza alla quale rifarsi, non significa necessariamente che vi sia “inevitabile incertezza” sulle relative norme.

E’ vero che, a determinate condizioni, la mancanza di prassi amministrativa o la assenza di precedenti giurisprudenziali possono essere indici dell’incertezza normativa, ma nella specie il contribuente appare più dolersi della imprevedibilità del potere dell’ufficio di procedere ad una simile riqualificazione della partecipazione, che dell’errata interpretazione di una norma.

Tuttavia, questa Corte ha riconosciuto il potere dell’ufficio di riqualificare i negozi giuridici a fini fiscali, interpretando e qualificando, anche diversamente dalle parti, la natura e gli effetti giuridici dei vari contratti, quali si possono desumere dalla oggettività del loro contenuto e dalla ricognizione positiva del loro significato, ai fini della determinazione dell’esatto importo del tributo (Sez. V n. 4535 del 2013).

Ricordando, quindi, che questa Corte ha anche affermato che, sotto un profilo oggettivo, l’incertezza presuppone “una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, ossia insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento di interpretazione, in presenza di pluralità di prescrizioni di coordinamento difficoltoso per via di elementi positivi di confusione, che è onere del contribuente allegare” (Sez. V, n. 24707 del 2019), si può affermare che la non raffigurazione del potere di riqualificazione del rapporto da parte dell’Agenzia o l’erronea convinzione che l’Agenzia non possa procedere a tale riqualificazione non integri il requisito della inevitabile incertezza.

Anche la seconda invocata esimente non ricorre perchè nella specie si controverte, tra l’altro, proprio di una discontinuità nei valori di bilancio rispetto agli anni precedenti posta in essere volontariamente e scientemente dal contribuente.

Il ricorso, pertanto, deve essere respinto in tutti i suoi motivi.

Le spese seguono la soccombenza.

Sono, pertanto, a carico del contribuente ricorrente e, tenuto conto del valore della causa, si liquidano in Euro 13.000.

Trattandosi di sentenza depositata nel marzo 2013, si dà poi atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

Rigetta il ricorso.

PQM

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 13.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Si dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019

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