Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32528 del 14/12/2018

Cassazione civile sez. I, 14/12/2018, (ud. 07/11/2018, dep. 14/12/2018), n.32528

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29451/2014 proposto da:

F.A., in proprio e nella qualità di erede di

F.I. e B.G.; F.L., in proprio e nella qualità

di erede di B.G.; elettivamente domiciliati in Roma,

Viale Giulio Cesare n.71, presso lo studio dell’avvocato Bellucci

Maurizio, che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5947/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/11/2018 dal cons. IOFRIDA GIULIA;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA che ha chiesto

accogliersi il primo motivo del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 5947/2013, pronunciata in un giudizio promosso in primo grado da B.G., in proprio e quale erede del proprio marito, F.I., nonchè dai figlie, F.A., quale erede di F.I., al fine di sentire riconoscere il loro diritto all’indennizzo per alcuni beni (una società, operante nel settore nell’estrazione e commercializzazione del legno, creata nel 1977, di cui il de cuius era titolare, per una partecipazione pari al 40%, e di alcune ville, che instavano su un terreno di cui la B. aveva acquisito un diritto di concessione in uso), espropriati dal governo ghanese nel 1982, al netto dell’indennizzo già percepito dalla B., hanno confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda degli attori.

In particolare, i giudici d’appello, nel respingere il gravame dei sig.ri F., A. e L. qualità di eredi di F.I. e di B.G., il primo, e della sola B., il secondo) hanno sostenuto che la richiesta di indennizzo, in relazione alla società ovvero alle ville espropriate dal governo del Ghana, era sprovvista di rituale istanza presentata al Ministero (prescritta a pena di decadenza), tale non potendo definirsi (a prescindere dal giudizio, non vincolante, espresso dal Ministero degli Affari Esteri, nel gennaio 1990) nè una missiva, a firma del de cuius, dell’11/3/1982 (peraltro anteriore all’espropriazione, intervenuta alcuni mesi dopo, nell’ottobre 1982, nella quale il F. palesava soltanto il timore, a seguito di eventi politici intervenuti nel Ghana nel 1979, di perdere i beni di cui era titolare), nè richieste successive della B., attinenti all’indennizzo per i suoi personali diritti sulle due ville espropriate (conseguito, nel 1993, a fronte della documentata spesa sostenuta per il miglioramento dei due immobili) e non anche in relazione alla quota societaria detenuta dal coniuge; mentre la richiesta della B., di liquidazione di ulteriore indennizzo per i beni personali perduti all’estero, era del tutto generica (non essendo neppure chiarito perchè la valutazione ministeriale fosse stata carente ed inadeguata).

Avverso la suddetta sentenza, F.A., in proprio e quale erede di B.I. e di B.G., e F.L., in proprio ed in qualità di erede della madre B.G. (avendo rinunciato all’eredità del padre), propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (che resiste con controricorso). Il P.G. ha depositato conclusioni scritte. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I ricorrenti lamentano, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 135 del 1985, art. 5 (che fissava un termine di decadenza di gg. 120 dall’entrata in vigore della legge per presentare una domanda rivolta ad ottenere i benefici prescritti dalla L. n. 16 del 1980), per non avere la Corte d’appello compreso che anche la denuncia di danni, formulata dal de cuius F.I.; marzo 1982, integrava una domanda di indennizzo ai sensi della L. n. 16 del 1980, considerato che l’art. 5 citato esonerava dalla presentazione della domanda di indennizzo coloro che avevano già presentato prima una domanda di indennizzo o una denuncia di danno, per i provvedimenti comunque impeditivi o limitativi della proprietà intervenuti in data anteriore alla formale confisca; con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 115 c.p.c., artt. 2028 e 2032 c.c., L. n. 135 del 1985, art. 5 per non avere la Corte distrettuale correttamente applicato la norma, nel senso di ritenere non valida o efficace;’istanza proposta dalla B., anche per conto e nell’interesse dei marito; neppure dando rilievo alla ratifica, operata dal F. con l’istanza presentata dal medesimo, unitamente alla moglie, dopo l’entrata in vigore della L. n. 98 del 1994. Con il terzo motivo, si lamenta poi sia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 135 del 1985, art. 5 sia l’omessa ed insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, con riguardo al rigetto, da parte della Corte d’appello, del motivo di gravame concernente la reiezione della richiesta della B. di integrazione dell’indennizzo già ricevuto per i beni personali; infine, con il quarto motivo, i ricorrenti si dolgono della condanna alle spese di causa, “nella misura punitiva di Euro 30.000,,00″”. lamentando sia un vizio, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di violazione degli artt. 92 c.p.c. e ss. e L. n. 10 del 2012, sia un vizio di omessa ed insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

2. La prima censura è infondata.

Va osservato che la L. 26 gennaio 1980, n. 16, come modificata dalla L. 5 aprile 1985, n. 135 e dalla L. 29 gennaio 1994, n. 98, nei prevedere la corresponsione di indennizzi ai cittadini ed imprese italiane titolari di beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana “o all’estero”, non ha introdotto un principio generale in virtù del quale è dovuto in ogni caso, ed indiscriminatamente, un indennizzo per la perdita di beni dei cittadini avvenuta all’estero per provvedimenti dell’autorità straniera, ma si è limitata a stabilire unicamente la corresponsione di un indennizzo a favore di particolari categorie di cittadini, precisamente individuati, i quali sono tenuti a presentare domanda nel termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dall’entrata in vigore di ciascuna legge. La sussistenza del diritto soggettivo all’indennizzo – che comporta la possibilità per il giudice ordinario di disapplicare l’atto illegittimo eventualmente adottato dalla p.a., ex L. n. 2248 del 1865, art. 5 – costituisce, di poi, oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione procedente, alla stregua della documentazione prodotta dall’istante che attesti il possesso dei requisiti previsti dalla legge (Cass. S.U. 4941/1991; Cass. 18955/2005; Cass. 22278/2016).

Questa Corte ha già da tempo chiarito (Cass.18995/2005) che “la L. 26 gennaio 1980, n. 16, come modificata dalla L. 5 aprile 1985, n. 135 e dalla L. 29 gennaio 1994, n. 98, nel prevedere la corresponsione di indennizzi ai cittadini ed imprese italiane titolari di beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana, non ha introdotto un principio generale in virtù del quale è dovuto in ogni caso un indennizzo per la perdita di beni dei cittadini avvenuta all’estero per provvedimenti dell’autorità straniera, ma si è limitata a stabilire unicamente la corresponsione di un indennizzo a favore di particolari categorie di cittadini, precisamente individuati (ad esempio, quelli che in passato abbiano perduto beni nei territori già soggetti alla sovranità italiana, o in estremo oriente, o in Tunisia nel periodo 1944-1947), i quali sono tenuti a presentare domanda nel termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dall’entrata in vigore di ciascuna legge”. La L. n. 16 del 1980 e L. n. 135 del 1985 hanno riconosciuto, in effetti, la liquidazione di un indennizzo per le perdite di beni subite da cittadini e imprese italiane “in territori già soggetti alla sovranità italiana e all’estero”, “a seguito di confische o di provvedimenti limitativi o impeditivi della proprietà comunque adottati dalle autorità straniere esercenti la sovranità su quei territori” (così le rubriche e l’art. 1 di entrambe le suddette leggi), fissando un termine di centoventi giorni, a pena di decadenza, per proporre la domanda di liquidazione dalla data di entrata in vigore di ciascuna dì esse (L. n. 16 del 1980, art. 7 e, ai fini dell’integrazione del contributo, della L. n. 135 del 1985, art. 5). La L. n. 16 del 1980, art. 7, comma 2, dispensava dall’onere della presentazione della domanda d’indennizzo “coloro che avevano già presentato la domanda stessa o la denuncia di danno ai sensi delle precedenti disposizioni normative”.

Anche la perdita di una partecipazione societaria è stata ritenuta indennizzabile (Cass. 24545/2010); Cass. 26676/2013).

L’evento, che, nella fattispecie, ha provocato la perdita di beni per cui è chiesto l’indennizzo, è un provvedimento di confisca adottato dall’autorità straniera dei Ghana, nell’ottobre 1982, ed è stato ritenuto, dall’Amministrazione, prima, e dal giudice di merito, in seguito, che, nel termine di decadenza (di centoventi giorni) dall’entrata in vigore della L. n. 135 del 1985, per proporre domanda di liquidazione, non sia stata presentata, dal de cuius, F.I., domanda di indennizzo per la quota societaria detenuta in una società in quel Paese costituita. Il F., invero, nel marzo 1982, aveva soltanto denunciato una serie di atti ostili e xenofobi posti in essere nei confronti della società, dal medesimo partecipata, chiedendo al Ministero degli Affari Esteri italiano, come si evince dalla sentenza impugnata, ove il contenuto della missiva è riportato per estratto, di intervenire presso il Governo del Ghana, affinchè egli, pur nel mutato quadro politico, potesse continuare la propria attività imprenditoriale, in particolare “tornando a ricevere credito dalla Banca centrale ghanese”, come avvenuto in passato.

Ora, non rileva, neppure come “denuncia di danno”, la missiva del 1982 a firma del F., in quanto contenente, come riportato nella decisione impugnata, una mera rappresentazione di timori per atti di ostilità intervenuti sino ad allora, come ben descritto dalla Corte d’appello. Non risulta poi che il F. avesse presentato, dopo il provvedimento di confisca, nell’ottobre 1982, o comunque entro il termine di 120 gg. dall’entrata in vigore della L. n. 135 del 1985, una domanda di indennizzo.

In tale contesto, giova rammentare che la L. n. 98 del 1994, contenente “interpretazioni autentiche e norme procedurali relative alla L. 5 aprile 1985, n. 135”, nella quale, tra l’altro (oltre all’estensione del beneficio a nuovi danni), si è previsto un termine, anch’esso di centoventi giorni, all’art. 2, comma 2, per la presentazione delle domande, in precedenza non avanzate, volte ad ottenere un indennizzo “ulteriore” per la perdita dell’avviamento imprenditoriale nonchè la revisione delle stime già effettuate ai sensi delle precedenti disposizioni di legge (in motivazione, Cass. 9849/2012).

Nella specie, nell’aprile 1994, il F. (per la prima volta, quanto alla quota societaria perduta) e la B. (quanto alle migliorie apportate su immobili, siti in un terreno di cui ella era concessionaria, a seguito di una precedente istanza di indennizzo, del “20/8/1985”, come emergeva dai documenti ministeriali prodotti, vale a dire i verbali della commissione del 1995 e del 1997), formulavano istanza di indennizzo, ai sensi della L. n. 98 del 1994. Senonchè, la domanda personale del F. risultava tardiva, non essendo la stessa neppure da ricollegare ad una portata generale di riapertura dei termini della L. n. 98 del 1994, smentita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass.12748/2015).

3. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto, da un lato, difetta di specificità, non essendo riprodotti che pochi stralci delle note inviate dalla B. all’Amministrazione (nella quale essa avrebbe avanzato richieste indennitarie anche per conto del marito), e, dall’altro lato, tende ad ottenere una nuova valutazione del merito dell’accertamento compiuto dai giudici della Corte d’appello, accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’attuale formulazione del vizio motivazionale di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

4. Anche il terzo motivo, quanto al vizio di violazione di legge, è inammissibile.

Quanto dedotto dai ricorrenti non configura violazioni di diritto presenti nella decisione impugnata, cosicchè il riferimento alle norme civili e processuali risulta palesemente inconferente, giacchè quel che viene in discussione è unicamente il modo in cui la Corte di merito, cui competeva farlo, ha valutato le risultanze documentali acquisite agli atti.

Neppure sotto il profilo di un eventuale vizio di motivazione l’impugnata sentenza appare peraltro censurabile, tenuto conto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (essendo la sentenza impugnata successiva al settembre 2012).

Si è trattato, dunque, di una valutazione di merito, come tale di stretta competenza della corte territoriale, che il riferimento alla documentazione prodotta rende adeguatamente motivata.

Con riferimento poi alla doglianza in ordine al rigetto delle reiterate richieste istruttorie, essendo denunciabile soltanto il vizio di motivazione, non anche quello di omessa pronuncia (Cass. 6715/2013; Cass. 13716/2016; Cass.24830/2017), i ricorrenti avevano l’onere, non assolto, oltre che di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. 4178/2007; Cass. 23194/2071), o comunque di dedurre un vizio di motivazione, nei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere (Cass. 66/2015).

5. Il quarto motivo è inammissibile, in quanto, non essendo più censurabile il vizio di insufficiente motivazione, non si comprende in cosa consista la dedotta violazione di legge, essendosi i ricorrenti limitati, del tutto genericamente, a dolersi dell’eccessivo importo liquidato a titolo di spese processuali.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; trattandosi di processo esente, non trova applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate, in favore della controricorrente, in complessivi Euro 6.000,00, a titolo di compensi, eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2018

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