Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32476 del 14/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 14/12/2018, (ud. 26/06/2018, dep. 14/12/2018), n.32476

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18763-2017 proposto da:

CASTELLO SAN MARCO SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA BALDUINA 7,

presso lo studio dell’avvocato CONCETTA TROVATO, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIOVANNI FRAGALA’;

– ricorrente –

contro

M.A., P.A., P.R.,

PU.AL., nella qualità di eredi di PU.AN., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DELLA BALDUINA, 7, presso lo studio

dell’avvocato CARLO PIETROPAOLO, rappresentati e difesi

dall’avvocato GUIDO BONAVENTURA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 275/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 14/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 26/06/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

Fatto

RITENUTO

Che:

con la sentenza di cui in epigrafe la Corte d’appello di Catania, rigettato l’appello della s.r.l. Castello di San Marco, confermò la sentenza di primo grado, che, disattesa ogni altra domanda della San Marco, aveva affermato come non dovuta la somma di Euro 4.414,80 vantata da Pu.An., in relazione alla fornitura da parte di quest’ultimo di tre gazebo, dei quali uno era crollato, procurando, secondo la prospettazione attorea, danni agli arredi;

avverso la statuizione d’appello la s.r.l. San Marco avanza ricorso basato su triplice censura;

gli intimati si difendono con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

il primo motivo, con il quale viene denunziata violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè “omessa ed insufficiente motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, assumendosi la Corte d’appello aveva mancato di statuire sulle richieste istruttorie sulle quali l’appellante aveva insistito con precipuo motivo e nelle conclusioni, è inammissibile in quanto:

a) Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (da ultimo, Sez. 6, n. 13716, 5/7/2016, Rv. 640358; Sez. 6, n. 24830, 20/10/2017, Rv. 646049);

b) peraltro, la Corte d’appello ha preso in considerazione le istanze istruttorie e le ha motivatamente rigettate;

c) il vizio di motivazione oggi rilevabile deve conformarsi agli angusti limiti di cui al vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, dopo la riforma operata con il D.L. n. 83 del 2012 e, di conseguenza, può essere denunziato solo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo.

considerato che il secondo motivo con il quale il P. deduce la violazione degli artt. 1226,2043 e 2056, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non essere stato riconosciuto il danno da mancato utilizzo della struttura e per non essere stati ammessi i mezzi di prova diretti a dimostrare l’incidenza dei vizi del bene sul suo sfruttamento e i mancati incassi, è inammissibile per quanto appresso:

a) la critica è rivolta avverso insindacabile apprezzamento di merito, sulla base del quale la Corte locale ha escluso che i vizi evidenziati fossero tali da determinare il mancato utilizzo della struttura; mancato utilizzo la cui prova, secondo l’insindacabile giudizio di merito, non avrebbe potuto essere dimostrato attraverso i proposti capitoli di prova orale;

b) la evocazione degli artt. 1226,2043 e 2056, c.c., perciò solo non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente;

considerato che il terzo motivo, con il quale il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1226 e 2727 c.c., per non essere stato liquidato il danno in via equitativa, dovendosi configurare un danno figurativo da mancato utilizzo per il tempo occorso per le riparazioni, sussistendo, inoltre, indici presuntivi univoci per riconoscere il danno da valore locativo, è radicalmente destituito di giuridico fondamento per una convergente pluralità di ragioni:

a) l’asserto, secondo il quale sarebbero trascorsi undici mesi (da settembre 2007 ad agosto 2008) per il ripristino, del tutto aspecificamente, si pone in contrasto con la sentenza d’appello, la quale a pag. 5 afferma che esso avvenne dopo pochi giorni e che i vizi erano tali da non incidere sulla funzionalità del manufatto;

b) l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicchè grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (Sez. 3, n. 127, 8/1/2016, Rv. 638248; conforme, Sez. 3, n. 20889, 17/10/2016, Rv. 642928);

c) il mancato utilizzo di un manufatto precario quale un gazebo non è in alcun modo assimilabile al mancato uso di un immobile di proprietà, ipotesi, quest’ultima, in relazione alla quale questa Corte ha ammesso la nozione di danno in re ipsa (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 1294, 29/1/2003, Rv. 560101; Sez. 3, n. 10468, 8/5/2006, Rv. 591331);

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per compensi, in Euro 2.800,00 oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo.

Così deciso in Roma, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2018

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