Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32406 del 11/12/2019

Cassazione civile sez. I, 11/12/2019, (ud. 10/10/2019, dep. 11/12/2019), n.32406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 29890-2017 r.g. proposto da:

POSTE ITALIANE s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175, presso

lo studio dell’avvocato MAURO PANZOLINI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ROSSANA CATALDI, con procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.G.N., elettivamente domiciliato presso l’avv. LEOPOLDO

PAPA, dal quale è rappresentato e difeso, con procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6658/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 19/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Cardino Alberto, che ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso;

udita, per il ricorrente, l’Avv. Anna Maria Ursino per delega, che ha

chiesto accogliersi il proprio ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avv. Leopoldo Papa, che ha chiesto

respingersi l’avverso ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.G.N. convenne innanzi al Tribunale di Roma Poste Italiane s.p.a. chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 6534,04 per aver consentito ad un soggetto diverso dall’effettivo beneficiario di incassare un assegno di traenza, emesso in suo favore da Banca Intesa S.Paolo s.p.a..

Il Tribunale accolse la domanda, condannando la parte convenuta a pagare la somma di Euro 6534,00 osservando che la banca convenuta non aveva fornito la prova liberatoria, ex art. 1218 c.c., per non aver diligentemente proceduto all’identificazione del prenditore del titolo contraffatto nell’indicazione del nome del legittimo beneficario.

Con sentenza del 19.10.2017, la Corte d’appello di Roma rigettò l’impugnazione proposta da Poste Italiane s.p.a., e nell’accogliere parzialmente l’appello incidentale di D.G. in punto di decorrenza degli interessi legali, condannò l’appellante principale al pagamento della somma di Euro 6.534,04 oltre agli interessi legali a far data dalla costituzione in mora del debitore.

2. Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui D.G.N. ha resistito con controricorso.

3. Con ordinanza interlocutoria del 22 maggio 2019, la Sezione sesta ha ritenuto che la causa dovesse essere rimessa alla pubblica udienza “in ordine alla questione relativa all’ambito della diligenza che deve connotare la condotta della banca (o Istituto) che negozia un assegno di traenza non trasferibile, a norma dell’art. 1176 c.c., comma 2, nella sua accezione di “clausola aperta” integratrice del contenuto contrattuale”.

Il controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo è denunziata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 43 Legge Ass., non avendo la Corte d’appello valutato correttamente la condotta diligente della banca negoziatrice nel pagare l’assegno, che non presentava evidenti segni di contraffazione, senza tener conto altresì del fatto che la sola trattaria era a conoscenza dei dati anagrafici del beneficiario.

2. Con il secondo motivo è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 e 1992 c.c., non avendo la Corte d’appello correttamente valutato il grado di diligenza di Poste nel pagare l’assegno, in quanto i documenti di riconoscimento del prenditore e il titolo non presentavano evidenti segni di alterazione.

3. Il ricorso è infondato.

Preliminarmente, va dichiarata infondata l’eccezione d’improcedibilità del ricorso, in quanto il D.G. non ha depositato la relata di notificazione della sentenza impugnata (che assume aver eseguito con pec), come era suo onere, considerato che la parte ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non è stata invece notificata, nè la stessa risulta depositata nel fascicolo di parte.

La seconda eccezione d’inammissibilità del ricorso è parimenti infondata, poichè la ricorrente non ha l’onere di proporre il ricorso anche nei confronti della banca Intesa S. Paolo s.p.a., non sussistendo alcun litisconsorzio necessario tra Poste Italiane s.p.a. e la suddetta banca, che fu chiamata in causa, nel giudizio di primo grado, dalla prima in quanto indicata quale unica responsabile dell’illegittimo pagamento del titolo a soggetto non legittimato.

3.2 Il primo motivo è in realtà inammissibile.

3.2.1 Sul punto giova ricordare che – in tema di ricorso per cassazione – il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (così, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017). Più precisamente è stato affermato sempre dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità che le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019).

3.2.2 Ciò posto, osserva la Corte come la parte ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione dei predetti canoni normativi, pretenda ora una rilettura degli atti istruttori volti a determinare una diversa ricostruzione della vicenda fattuale in ordine alla valutazione dell’adempimento, da parte di essa banca negoziatrice dell’assegno, degli obblighi di diligenza nella corretta identificazione del soggetto beneficiario dell’ordine di pagamento contenuto nel titolo di credito.

Senza contare che la doglianza così articolata viene proposta dalla parte ricorrente in termini estremamente generici, attraverso il mero richiamo agli indici normativi regolanti la materia dell’adempimento contrattuale e senza neanche confrontarsi con la ratio decidendi principale della decisione impugnata, che – come si esporrà in relazione al secondo motivo di ricorso – si fonda sul mancato riscontro da parte della banca negoziatrice della mancanza di sottoscrizioni autografe nei documenti esibiti dal portatore del titolo.

3.2 Il secondo motivo è, in parte, inammissibile e, in altra parte, infondato. Sotto quest’ultimo profilo, va precisato che risulta infondata la censura relativa alla denunciata violazione della L. Fall., art. 42, comma 2.

3.2.1 Sul punto occorre ricordare che – in ordine alla natura giuridica della responsabilità della banca negoziatrice di un assegno dotato di clausola di non trasferibilità, si è recentemente espressa la giurisprudenza di vertice di questa Corte (cfr. Sez. U, Sentenza n. 12477 del 21/05/2018) che, in seguito ad un annoso dibattito giurisprudenziale dispiegatosi dal 1958, ha fissato il principio secondo cui – ai sensi del R.D. n. 1736 del 1933, art. 43, comma 2, (c.d. Legge Assegni) – la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2.

3.2.2 Nel percorso che ha portato alla decisione delle S.U. ora ricordata non può, tuttavia, essere dimenticato altro fondamentale arresto giurisprudenziale rappresentato sempre dalla sentenza espressa, nel massimo consesso di questa Corte, nel pronunciamento n. 14712 del 2007, che è intervenuto a comporre un precedente contrasto di giurisprudenza sorto circa la natura (contrattuale, extracontrattuale o ex lege) della responsabilità derivante dal pagamento dell’assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore ed alla conseguente durata – decennale o quinquennale – del termine di prescrizione dell’azione di risarcimento proposta dal danneggiato. Con tale pronuncia le sezioni unite – ribadito preliminarmente che l’espressione “colui che paga”, adoperata dall’art. 43, comma 2 L.A., va intesa in senso ampio, sì da riferirsi non solo alla banca trattaria (o all’emittente, nel caso di assegno circolare), ma anche alla banca negoziatrice (che è l’unica concretamente in grado di operare controlli sull’autenticità dell’assegno e sull’identità del soggetto che, girandolo per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento) – hanno riconosciuto natura contrattuale alla responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno munito della clausola di non trasferibilità in favore di persona non legittimata. E’ necessario ricordare che la conclusione non trova fondamento nel consueto argomento utilizzato dalla tesi contrattualistica (secondo la quale la banca girataria per l’incasso, oltre ad essere mandataria del girante, sarebbe sostituta della trattaria nell’esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all’identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento), ma nella c.d. teoria del contatto sociale qualificato, ravvisabile ogni qualvolta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere un determinato comportamento, idoneo a tutelare l’affidamento riposto da altri soggetti sul corretto espletamento da parte sua di preesistenti, specifici doveri di protezione che egli abbia volontariamente assunto.

3.2.3 Ed è proprio sulla scorta di queste considerazioni, che le S.U. del 2018 hanno ribadito il principio secondo cui la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 Legge Assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha – nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno – natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso.

Così, una volta ricondotta la responsabilità della banca negoziatrice nell’alveo di quella contrattuale derivante da contatto qualificato, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. – non risulta più sostenibile la tesi secondo cui detta banca risponde del pagamento dell’assegno non trasferibile effettuato in favore di chi non è legittimato, a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sull’identificazione del prenditore.

Sul punto, la sentenza Sez. U, n. 12477/2018, ha evidenziato, verbatim, che “Una responsabilità oggettiva può infatti concepirsi solo laddove difetti un rapporto in senso lato “contrattuale” fra danneggiante e danneggiato, ed il primo sia chiamato a rispondere del fatto dannoso nei confronti del secondo non per essere con questi entrato in contatto, ma in ragione della particolare posizione rivestita o della relazione che lo lega alla res causativa del danno”.

Ne consegue che, sulla base dei suesposti principi, nell’azione promossa dal danneggiato, la banca negoziatrice che ha pagato l’assegno non trasferibile a persona diversa dall’effettivo prenditore è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2 dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve.

3.2.4 Ciò posto, osserva la Corte come la sentenza impugnata non si sia, invero, discostata dai principi di diritto affermati nell’ultimo arresto delle S.U. sopra ricordato (e qui riaffermati) ed anzi abbia correttamente ricondotto il profilo dell’eventuale responsabilità della banca negoziatrice del titolo nell’alveo della responsabilità contrattuale, riconoscendola, nel caso di specie, proprio in conseguenza dell’accertamento del mancato corretto adempimento da parte dell’istituto di credito degli obblighi sulla stessa incombenti per la identificazione del soggetto beneficiario del pagamento dell’assegno e dunque per la mancata prova liberatoria ex art. 1218 c.c..

3.2.5 E’ invece inammissibile la doglianza sopra riportata nella parte in cui propone di nuovo doglianze di merito volte ad una rivalutazione della vicenda fattuale che, come tale, è sottratta alla cognizione del giudice di legittimità e perchè non censura la ratio decidendi già sopra accennata. Ed invero, la motivazione impugnata fonda principalmente la responsabilità colposa della banca negoziatrice dell’assegno – nell’attività di identificazione del beneficiario del pagamento – proprio nel mancato rilievo da parte della banca negoziatrice sui documenti esibiti (carta identità e tessera sanitaria) di una sottoscrizione autografa del soggetto identificato (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata, ove quest’ultima circostanza viene riportata come fatto non controverso tra le parti perchè non contestato, anche attraverso il richiamo alla motivazione della sentenza resa in primo grado ove, del pari, l’accertamento della responsabilità della banca negoziatrice si fonda principalmente sulla circostanza del mancato rilievo dell’assenza di sottoscrizioni autografe sui documenti di identificazione: cfr. anche pag. 3 della motivazione impugnata).

Orbene, tale ratio decidendi non è stata in alcun modo contestata ed impugnata da parte della società ricorrente.

3.2.6 Va da ultimo precisato come la parte ricorrente non abbia inteso neanche proporre una censura volta – nel suo contenuto – a sollecitare il confronto tra le condotte adottate dalla banca negoziatrice e la clausola generale di diligenza, come tale integrata dagli standard valutativi della realtà sociale e dagli altri principi estraibili dall’ordinamento positivo (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 22950 del 10/11/2015; cfr. anche Sez. 2, Sentenza n. 8047 del 21/03/2019), ma voglia, al contrario, sottoporre, ora, a questa Corte la rivalutazione degli elementi di prova sulla cui base la corte territoriale ha fondato il giudizio di responsabilità contrattuale dell’istituto di credito. Senza contare che il sopra menzionato giudizio è proponibile in sede di legittimità, quando la valutazione di responsabilità integrata dalla clausola generale si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento e con quegli standard valutativi sopra ricordati, che concorrono, con detti principi, a comporre il diritto vivente (così, Cass. 3645/99), sempre che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto a quegli standard, conformi ai valori dell’ordinamento (cfr. anche, Cass. 5095/2011).

Ciò detto, occorre evidenziare come la questione dell’applicazione della circolare ABI sia stata sollevata dalla parte ricorrente in termini generici e meramente contrappositivi, e ciò sia perchè non viene precisato quale sia il contenuto, rilevante in causa, della detta circolare, sia perchè il riferimento, invero altrettanto generico, della motivazione impugnata a tale circolare è dalla corte di merito operato al solo fine di mera conferma dell’altra (e fondamentale) ragione dalla stessa posta a base del giudizio di negligenza della banca negoziatrice, e cioè l’avere quest’ultima utilizzato, per l’identificazione, documenti privi di sottoscrizione autografa.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019

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