Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 324 del 12/01/2010

Cassazione civile sez. II, 12/01/2010, (ud. 29/09/2009, dep. 12/01/2010), n.324

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.B. e B.G., elettivamente domiciliati in

Roma, Via della Mercede n. 52, presso lo studio dell’Avv. MANGHINI

Mario, dal quale sono rappresentati e difesi, unitamente all’Avv.

Gabriele Bruyere per procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.B., M.A. e C.M., elettivamente

domiciliati in Roma, Via F. Confalonieri n. 5, presso lo studio

dell’Avv. MANZI Luigi, dal quale sono rappresentati e difesi,

unitamente all’Avv. Graziella Caldo, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

nonchè nei confronti di:

B.M., A.S., G.F., P.

E.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino n. 731/03,

depositata il 9 giugno 2003.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 29

settembre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per i ricorrenti, l’Avvocato Cinzia De Micheli con delega;

sentito, per i resistenti, l’Avvocato E. Coglitore con delega;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex artt. 1170 e 703 cod. proc. civ., depositato il 27 ottobre 1997, R.M., T.B., A. S., B.G., G.F. ed P. E., condomini dello stabile di (OMISSIS), adivano il Pretore di Torino per ottenere la manutenzione nel turbato possesso del cortile condominiale e il ripristino della situazione quo Ante nei confronti di M.A., M.C. e C.C.B.. A tal fine i ricorrenti sostenevano che avevano sempre avuto il libero e pacifico possesso del cortile condominale per tutta la sua estensione, senza limitazioni di sorta;

che il regolamento condominiale prevedeva che parte del cortile, ossia le aree tinteggiate di verde sulla planimetria, pur se di proprietà condominiale, era destinata a posti auto da assegnare in uso esclusivo, con divieto di procedere a delimitazioni diverse dai tracciati disegnati sulla pavimentazione; che i condomini assegnatari dell’uso esclusivo avevano dall’inizio del 1997 proceduto a delimitarli, ponendo in sito alcuni paletti con apposizione di una catena, fra l’altro pericolosa; che tale operato violava la norma regolamentare e turbava altresì il pacifico possesso dei condomini, impedendo loro il godimento e l’uso del cortile cosi come da sempre praticato; che la catena in questione provocava inoltre profondo disagio per l’utilizzo del cortile condominiale.

Si costituivano C.B., A. e M.C. contestando la domanda.

Assunte le prove testimoniali ed unificate le due fasi del procedimento possessorio, il Tribunale di Torino, con sentenza del 24 novembre 2000, accoglieva il ricorso e condannava i resistenti all’immediato ripristino dello status quo ante mediante la rimozione di tutti i paletti e relative catene di collegamento.

Con atto di citazione notificato il 13 gennaio 2002 presso il procuratore costituito in primo grado, C.B., M. A. e M.C. proponevano appello, deducendo che il libero e pacifico possesso di tutta l’estensione del cortile condominiale da parte dei ricorrenti, affermato dal primo giudice, non solo non risultava al vero, ma addirittura era stato smentito dagli stessi ricorrenti, i quali avevano riconosciuto l’uso delle porzioni oggetto di delimitazione da parte di essi appellanti per il posteggio delle loro auto; che non assumeva comunque rilievo l’occupazione illegittima dei posti auto, quanto piuttosto il diverso e limitato uso residuato ai ricorrenti, nonostante il posteggio, che sarebbe stato reso più gravoso dall’installazione della catenella;

che il giudice di primo grado aveva stravolto il significato delle dichiarazioni rese da alcuni testi; che la sentenza aveva erroneamente attribuito il possesso agli autori di azioni illecite e abusive, senza riconoscere al titolare del legittimo possesso la facoltà di reagire contro l’arbitraria ingerenza; che la sentenza aveva violato l’art. 1170 cod. civ., ignorando i presupposti dell’azione di manutenzione; che il giudice aveva omesso di considerare la circostanza, documentalmente provata e pacifica tra le parti, che essi erano gravati da una maggiorazione delle spese condominiali per l’occupazione dei posti auto, nonchè dei relativi tributi.

Gli appellati non si costituivano.

Con sentenza depositata il 9 giugno 2003, la Corte d’appello di Torino, dichiarata la contumacia degli appellati, accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respingeva le domande proposte dagli originar attori, che condannava in solido tra loro al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.

La Corte rilevava in primo luogo la ritualità della notificazione dell’atto di appello, effettuata presso il procuratore domiciliatario in primo grado il 3 gennaio 2002, cui aveva fatto seguito la tempestiva iscrizione della causa a ruolo.

Riteneva quindi fondato il primo motivo di gravame, rilevando come il Tribunale, nell’affermare che i ricorrenti avevano il compossesso del cortile condominiale nella sua interezza e che, prima della esecuzione delle opere per cui era causa, i resistenti non avevano il possesso esclusivo neppure della parte di cortile delimitata dalle strisce orizzontali, aveva violato l’art. 112 cod. proc. civ., come implicitamente rilevato dalla parte appellante, e aveva altresì trascurato di considerare la diversità dei titoli del possesso esercitato dalle parti e quindi della qualità e quantità delle loro dichiarate ingerenze sul bene in questione. Erano infatti stati gli stessi ricorrenti a riconoscere in capo agli appellanti la qualità di assegnatari dell’uso esclusivo delle porzioni di sedime cortilizio delimitate a scopo di parcheggio e quindi la qualità di possessori del diritto reale di uso di tali porzioni, rivendicando per sè solo la qualità di possessori del sedime cortilizio a titolo di proprietà (nuda) o comunque con riferimento a quelle limitate facoltà di ingerenza consentite al proprietario di un bene verso il quale altri vantino sia lo ius possidendi, sia lo ius possessionis a titolo esclusivo e a scopo di parcheggio. I ricorrenti, in sostanza, avevano dedotto di avere il possesso del cortile non in modo pieno, ma residuale rispetto al diritto di parcheggio e al possesso del diritto di parcheggio degli appellanti, sicchè, non avendo essi mai sostenuto di possedere l’area de qua a titolo di uso o per scopi di parcheggio, il Tribunale non avrebbe potuto attribuire loro tale deduzione senza violare l’art. 112 cod. proc. civ., visto che il possesso rivendicato dagli appellati era semmai quello delle facoltà residuali del proprietario – quali quelle di una circolazione comoda e sicura nel cortile -, non compresse dall’esercizio del diritto di parcheggio e dal possesso relativo.

Con riferimento al secondo motivo, la Corte d’appello dava atto agli appellanti della inesistenza di qualsivoglia prova atta a dimostrare che l’apposizione della catenella a protezione dei posti auto ostacolasse, compromettesse o anche soltanto disturbasse quelle forme di godimento dello spazio cortilizio compatibili con il diritto di uso e la corrispondente situazione possessoria spettante agli appellanti. In particolare, la pericolosità della catenella ai fini del transito delle persone e delle cose rappresentava all’evidenza una mera illazione argomentativa priva di qualsiasi riscontro, dal momento che il pericolo di incespicarvi poteva essere evitato con la prestazione di un minimo di attenzione, oltre che dall’avvertenza di passare lungo i marciapiedi del cortile. Inoltre, la possibilità di accesso ai bidoni dell’immondizia siti nel cortile non risultava in alcun modo apprezzabile ostacolata.

La Corte d’appello riteneva fondato anche il terzo motivo di gravame, concernente il dedotto stravolgimento del significato delle dichiarazioni di alcuni testi, giacchè dal complesso della istruttoria espletata in i primo grado emergeva con chiarezza che il possesso degli appellanti sui posti auto era effettivamente sottoposto a continui attentati da parte di soggetti che parcheggiavano abusivamente la loro vettura anche negli spazi delimitati; circostanze, queste che non potevano certamente valere a radicare un possesso del parcheggio da parte degli appellati, che non lo avevano neppure dedotto.

Ad avviso della Corte d’appello era fondato anche il quarto motivo, con il quale gli appellanti avevano dedotto la violazione dell’art. 1170 cod. civ., per avere il Tribunale ignorato i presupposti per l’esercizio dell’azione di manutenzione (possesso del ricorrente continuo e ininterrotto da oltre un anno e non acquisito violentemente o clandestinamente). L’azione proposta, infatti, non poteva essere accolta sul presupposto di un compossesso promiscuo della parte di cortile delimitata dalle strisce orizzontali perchè, al più, i posteggiatori abusivi non avevano affatto una relazione con il bene riconducibile alla situazione di possesso considerata dall’art. 1170 cod. civ., comma 2. Nè l’apposizione delle catenelle aveva turbato il compossesso delle facoltà residuali, compatibili con l’uso esclusivo spettante agli appellanti.

Quanto al quinto motivo, concernente la mancata valutazione di documenti comprovanti quanto dedotto dagli appellanti nei precedenti motivi di gravame, la Corte rilevava appunto che si trattava di circostanze già positivamente esaminate.

Infondato era invece il sesto motivo, con il quale gli appellanti avevano dedotto che la violazione delle norme del regolamento condominiale non poteva essere dedotta dai singoli condomini, essendo legittimato il solo condominio.

La Corte accoglieva poi il settimo motivo, concernente la mancata valutazione della Delib. assembleare 6 maggio 1992, che li aveva autorizzati esplicitamente ad apporre la catenella; autorizzazione non revocata dalla successiva assemblea del 20 marzo 1995. La citata autorizzazione valeva, infatti, ad escludere negli appellanti l’animns turbandi.

La Corte riteneva infine assorbiti l’ottavo, il nono e il decimo motivo di appello.

Per la cassazione di questa sentenza ricorrono T.B. e B.G. sulla base di tre motivi; resistono con controricorso, C.B., M.A. e M. C.; non hanno svolto attività difensiva gli intimati R. M., A.S., G.F. e P. E.. In prossimità dell’udienza, le parti hanno depositato memoria.

All’udienza del 27 gennaio 2009, la Corte, rilevato che il ricorso non risultava notificato a G.F., disponeva il rinnovo della notificazione, eseguita la quale, il ricorso è stato discusso all’udienza del 29 settembre 2009.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione e omessa applicazione dell’art. 330 cod. proc. civ., comma 3, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5.

La Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere valida la notificazione dell’atto di gravame effettuata presso il procuratore domiciliatario nel giudizio di primo grado decorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, laddove l’art. 330 cod. proc. civ., richiede che, decorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, l’impugnazione, ove ancora ammissibile, sia effettuata alla parte personalmente nelle forme di cui all’art. 137, e segg.. Al termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza, ad avviso dei ricorrenti, non potrebbe applicarsi la sospensione feriale dei termini, sicchè, nel caso di specie, essendo la sentenza stata depositata il 24 novembre 2000, l’impugnazione, effettuata con notificazione in data 3 gennaio 2002, avrebbe dovuto essere notificata non al procuratore domiciliatario ma alle parti personalmente.

Il motivo è infondato La questione prospettata dai ricorrenti, come del resto i medesimi danno atto, è già stata affrontata e decisa dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali la hanno risolta nel senso che “l’impugnazione non preceduta dalla notificazione della sentenza impugnata e successiva all’anno dalla pubblicazione di questa, ma ancora ammessa per effetto della sospensione del termine di cui all’art. 327, durante il periodo feriale, va notificata non alla parte personalmente, bensì, indifferentemente, a scelta del notificante, o presso il procuratore della medesima costituito nel giudizio a quo o nel domicilio eletto ovvero nella residenza dichiarata per quel giudizio, dovendo ritenersi equiparate, ai sensi dell’ultima parte dell’art. 330 cod. proc. civ., comma 1, sia l’ipotesi della mancata notificazione della sentenza impugnata, sia quella relativa alla mancata dichiarazione di residenza o elezione di domicilio” (Cass., S.U., n. 12593 del 1993; vedi anche Cass., S.U., n. 9853).

A tale principio si è adeguata la giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte (tra le molte, Cass. , n. 5980 del 1997; Cass., n. 16945 del 2003; Cass., n. 18752 del 2004; Cass., n. 2888 del 2002), e il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere ulteriormente ribadito, non avendo i ricorrenti dedotto argomenti nuovi e diversi da quelli già esaminati nella sentenza del 1993, e tali da indurre ad una conclusione differente.

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5.

La Corte d’appello ha ritenuto che il Tribunale abbia violato l’art. 112 cod. proc. civ., affermando che una simile violazione era stata implicitamente rilevata dalla parte appellante. Al contrario, nel primo motivo di appello, attinente prevalentemente a profili petitori, non vi era alcuna deduzione di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., e men che meno una implicita censura circa una extrapetizione da parte del giudice di primo grado, o una qualche impugnazione per avere gli appellati un possesso delle facoltà residuali del proprietario. Il medesimo vizio sussisterebbe anche con riferimento a quanto affermato dalla Corte d’appello in relazione al secondo, al terzo e al quarto motivo di gravame, che erano del tutto difformi da quanto ritenuto dalla Corte territoriale.

Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

E’ infondato con riferimento alle censure rivolte alla sentenza impugnata laddove questa ha accolto il primo motivo dell’appello. In proposito deve rilevarsi che la Corte d’appello ha ritenuto che gli appellanti avessero dedotto una violazione del principio della domanda perchè il Tribunale, in contrasto con le allegazioni degli attori in manutenzione, aveva loro riconosciuto il compossesso del cortile condominiale nella sua interezza, affermando altresì che prima della esecuzione delle opere per cui è causa i resistenti non avevano il possesso esclusivo neppure della parte di cortile delimitata dalle strisce orizzontali. La Corte ha quindi osservato che la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., era stata dagli appellanti implicitamente dedotta, avendo essi osservato, segnatamente con il primo motivo di appello, che “il libero, pacifico e continuativo possesso di tutta l’estensione del cortile condominiale da parte dei ricorrenti, accreditato dal primo Giudice, non solo non corrispondeva al vero ma addirittura era stato smentito dagli stessi ricorrenti-appellati, che riconoscevano l’uso delle porzioni in questione da parte dei resistenti per il posteggio delle loro auto, nonchè dalla prodotta documentazione, che comprovava la reazione degli appellanti nei riguardi della perpetrata occupazione furtiva e abusiva dei loro posti auto”.

Orbene, nel ritenere dedotta implicitamente una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere il primo giudice dato per presupposti fatti non corrispondenti a quelli dedotti dagli attori, la Corte d’appello i non ha violato il principio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., non ha cioè pronunciato su un motivo di appello non proposto, ma ha correttamente ricostruito in termini di violazione del principio della domanda l’accoglimento di una domanda il cui presupposto in fatto era diverso da quello allegato dagli attori.

Del resto, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, “l’interpretazione del contenuto dell’atto di appello è riservata al giudice di merito ed è sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata; tale interpretazione deve essere condotta tenendo conto sia della formulazione letterale che del contenuto sostanziale dell’atto, che ne esprime la volontà effettiva attraverso l’enunciazione e la prospettazione delle ragioni addotte a sostegno, in relazione alla finalità che la parte intende raggiungere. A tal fine, il giudice d’appello è libero di verificare l’esatta natura delle questioni dedotte in giudizio nei motivi di gravame e di precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, purchè non introduca nuovi elementi di fatto del tutto estranei al thema devolutimi” (Cass., n. 27789 del 2005; Cass., n. 18310 del 2007).

Il motivo è invece inammissibile, per assoluta genericità della censura, nella parte in cui accomuna nella denunciata violazione anche la statuizione della Corte d’appello di accoglimento del secondo, del terzo e del quarto motivo di appello, osservando, quanto al secondo, che lo stesso “assolutamente non riguarda quanto viene assunto in sentenza”, e, quanto al terzo e al quarto, che sarebbero “del tutto differenti da quanto assume la corte piemontese”.

Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1168 e 1170 cod. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5.

Assumono i ricorrenti che, in materia di bene condominiale, la tutela preferenziale va accordata alla situazione di fatto del diritto dei singoli condomini esercitato fino al momento in cui un altro condomino, al di fuori di una regolare delibera, unilateralmente introduca modificazioni che sopprimano, modifichino o turbino il compossesso degli altri come precedentemente esercitato. Nel caso di specie, essendo pacifico che i condomini originar possedevano tutto il cortile, la sentenza impugnata sarebbe carente perchè la Corte non avrebbe spiegato, tanto meno sufficientemente, perchè i paletti, installati in parte su spazi comunque comuni, e la catenella non turbassero il compossesso che essi avevano da sempre sulla intera area cortile, ivi compresa l’area destinata a parcheggio esclusivo, mai demarcata con righe bianche sino al 1995 e in relazione alla quale il regolamento condominiale prescriveva come unica delimitazione quella delle strisce sul selciato. Nè poteva ritenersi pertinente l’affermazione della Corte sul fatto che il pericolo determinato dalla collocazione dei paletti e della catenella poteva essere evitato prestando attenzione, giacchè la pur oggettiva esistenza di un rischio generico determinato dai paletti, non visibili di notte, non poteva comunque essere intensificata attraverso l’apposizione della catenella in maniera da costringere gli altri condomini a disagevoli e pericolosi movimenti per non incespicarvi.

Il giudice d’appello non avrebbe poi tenuto conto del fatto che i paletti insistevano sull’area comunque comune, e cioè fuori dalle linee bianche. La condotta degli appellanti integrava quindi la molestia del possesso, non potendo essa essere esclusa, come sostenuto dalla sentenza impugnata, perchè era sufficiente agli altri condomini fare attenzione o passare da un’altra parte. Nè la ritenuta consapevolezza da parte degli appellanti di esercitare un proprio diritto poteva valere ad escludere l’animus turbando.

La Corte d’appello, proseguono i ricorrenti, avrebbe anche errato nel confondere lo ius possessionis con lo ius possidendi, in quanto ha affermato che la tutela possessoria non poteva nella, specie essere invocata trattandosi non di possesso ma di facoltà residuale del proprietario, e comunque di un possesso acquisito con modalità e per finalità non rispondenti a diritto. Al contrario, essi ricorrenti, al pari degli altri condomini, esercitavano da sempre di fatto il transito, il passaggio, l’attraversamento e a volte il parcheggio su tutto il cortile, ivi compreso lo spazio dell’area a posti auto, usando detto spazio anche per le manovre delle autovetture ed esplicando così su tutta l’area il possesso o il compossesso. Così come avrebbe errato nel ritenere giustificata la reazione dei C.- M. in quanto diretta a far valere il loro diritto di uso esclusivo che essi stessi non avevano mai fatto valere, e per di più a distanza di anni dal momento della violazione del loro diritto di uso.

Da ultimo, i ricorrenti rilevano che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, il Tribunale non aveva commesso alcuna violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto aveva correttamente rivolto la propria indagine alla situazione di fatto, non dovendo prestare attenzione alla diversità dei titoli di possesso, restando irrilevanti poi sia il fatto che gli appellanti avessero sostenuto spese condominiali per l’uso esclusivo di dette aree a parcheggio, sia la ridotta frequenza degli atti implicanti possesso da parte di altri condomini.

Il motivo è infondato.

La gran parte delle argomentazioni dei ricorrenti muovono dal presupposto di fatto, erroneamente riconosciuto dal Tribunale perchè neanche dedotto dai ricorrenti in possessoria, che essi fossero nel possesso dell’intero cortile e che l’apposizione dei paletti collegati da catenelle da parte degli attuali resistenti, per delimitare l’area loro destinata in via esclusiva per il parcheggio delle auto, avrebbe disturbato il predetto possesso. Al contrario, come si è visto in sede di esame del primo motivo, un tale presupposto di fatto deve ritenersi escluso, avendo la Corte d’appello accertato l’errore in cui era incorso il Tribunale e affermato che erano stati gli stessi attori a riconoscere agli odierni resistenti la qualità di assegnatari dell’uso esclusivo delle porzioni del sedime cortilizio delimitate a scopo di parcheggio, e che conseguentemente il possesso da essi esercitato sul cortile, e in particolare sull’area delimitata dalle strisce, non era pieno ma solo residuale rispetto al diritto di parcheggio e al possesso di tale diritto da parte dei resistenti.

Una volta escluso dunque il possesso (o il compossesso) pieno dei ricorrenti anche sull’area destinata a parcheggio in favore dei resistenti, le restanti censure si risolvono in doglianze di fatto in relazione agli accertamenti compiuti dal giudice del merito. La Corte territoriale ha, con motivazione immune dai denunciati vizi, rilevato che erano stati gli stessi ricorrenti a dedurre una limitata lesione del proprio possesso, assumendo che la chiusura con la catenella del sedime delimitato fosse “pericolosa”, e che la catenella impedisse l’uso del cortile da sempre praticato, senza peraltro riuscire ad addurre un concreto esempio di utilizzo positivo differente dall’accesso ai bidoni dell’immondizia, suggerendo cosi un percorso di accesso compiuto attraverso l’area delimitata. Ha altresì osservato che non vi era alcuna prova che dimostrasse come l’apposizione della catenella a protezione dei posti auto degli appellanti (attuali resistenti) ostacolasse, compromettesse o anche solo disturbasse quelle forme di godimento dello spazio cortilizio compatibili con il diritto di uso e la corrispondente situazione possessoria spettante agli appellanti; in particolare, la Corte d’appello ha evidenziato che la pericolosità della catenella ai fini del transito delle persone e delle cose costituiva una mera illazione priva di fondamento, dal momento che il pericolo di incespicarvi poteva essere evitato con la prestazione di un minimo di attenzione, oltre che semplicemente dall’avvertenza di passare lungo i marciapiedi del cortile; nè la possibilità di accesso ai bidoni dell’immondizia siti nel cortile risultava in modo apprezzabile ostacolata.

Da ultimo, la Corte d’appello ha sottolineato come gli appellanti, attuali resistenti, avessero agito con il conforto della Delib.

assembleare 6 maggio 1992, che esplicitamente li autorizzava alla collocazione della catenella, senza che detta autorizzazione fosse stata revocata nella successiva assemblea del 20 marzo 1995. In proposito, la Corte torinese ha affermato che l’interpretazione della prima delibera assembleare come vera e propria autorizzazione alla collocazione delle catenelle trovava conferma nella deposizione dell’amministratore dello stabile e nella lettura della lettera di convocazione della successiva assemblea del marzo 1995.

Si tratta di argomentazioni che sostengono in modo adeguato e coerente la decisione adottata, a fronte delle quali i ricorrenti svolgono censure che, in sostanza, più che evidenziare lacune argomentative o errori nei quali sarebbe incorso il giudice di merito, mirano ad introdurre in questa sede un giudizio di fatto sul merito della controversia e una valutazione delle circostanze di fatto diversa da quella motivatamente fatta propria dalla Corte d’appello.

In particolare, deve rilevarsi che già nell’incipit della esposizione del motivo in esame, i ricorrenti sostengono una tesi – quella secondo cui in materia di bene condominiale la tutela preferenziale va accordata alla situazione di fatto del diritto dei singoli condomini esercitato sino al momento in cui un altro condomino, al di fuori di una regolare delibera, unilateralmente introduca modificazioni che sopprimano, modifichino o turbino il compossesso degli altri come precedentemente esercitato – che, specialmente con riferimento alla esistenza di una regolare delibera, si contrappone a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, senza tuttavia evidenziare, quanto alla interpretazione delle delibere condominiali rilevanti nel caso di specie, la violazione di canoni ermeneutici e senza allegare illogicità o errori nella ricostruzione del significato delle suddette delibere effettuata dalla Corte d’appello. Correttamente, quindi, la Corte ha desunto da tali delibere l’inesistenza dell’animus spoliandi e quindi la infondatezza della domanda di manutenzione proposta dagli attuali ricorrenti.

Per quanto attiene infine alla valutazione della pericolosità delle catenelle e alla incidenza delle stesse sulla possibilità, per i ricorrenti e per gli altri condomini, di esercitare le facoltà non escluse dall’assegnazione in via esclusiva dell’area ai resistenti, le censure svolte dai ricorrenti impongono in tipiche valutazioni di fatto, in quanto tali non consentite in sede di legittimità.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido tra loro e in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità , che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorario, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 29 settembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2010

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