Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32355 del 13/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 13/12/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 13/12/2018), n.32355

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26010-2017 proposto da:

F.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELE

MERCATI 51, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO BRIGUGLIO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.O., P.T., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 22, presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRO FUSILLO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

contro

W.M.M., T.U., T.T.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2425/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata l’11/4/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/9/2018 dal Consigliere Dott. CARRATO ALDO.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il sig. F.L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in un unico complesso motivo, avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 2425/2017, pubblicata l’11 aprile 2017 (e non notificata), con la quale, in accoglimento dell’appello formulato da P.T. e P.O. nei confronti della sentenza n. 11943/2012 del Tribunale di Roma, era stato dichiarato che i due appellanti erano comproprietari per il 50% complessivo dell’intero fabbricato sito in (OMISSIS), in virtù di testamento olografo di C.L.L., nata a (OMISSIS), deceduta a (OMISSIS), pubblicato con atto per notaio G. del 29.9.2004.

Con l’impugnata sentenza la Corte capitolina ha rilevato che, sulla scorta di molteplici elementi evincibili dal suddetto testamento, era emersa la volontà della testatrice di voler effettivamente legare agli appellanti l’intero predetto immobile.

A tal proposito il giudice di appello ha osservato, in primo luogo, sotto il profilo della interpretazione dell’anzidetta volontà, che dovesse attribuirsi una valenza prevalente all’indicazione del numero civico identificante l’immobile controverso (idonea, come tale, ad evidenziare l’individuazione del cespite immobiliare), pur non risultando una piena coincidenza tra i dati catastali, a maggior ragione che, nella fattispecie, questi ultimi non erano stati richiamati nell’atto di ultima volontà.

In secondo luogo, la Corte territoriale ha rimarcato come non potesse trascurarsi di considerare l’intrinseca simmetria dell’attribuzione ereditaria, nel senso che allo zio era stato devoluto il fabbricato sito al civico (OMISSIS) e ai nipoti quello ubicato al civico (OMISSIS).

In terzo luogo, il giudice di secondo grado ha posto in risalto come, in assenza di ulteriori specificazioni e della descrizione analitica degli immobili di cui la testatrice aveva disposto, le vicende catastali non potevano sortire alcun rilievo così come la circostanza – meramente fattuale – che la società conduttrice dell’immobile di cui civico (OMISSIS) conducesse anche unità immobiliari site al civico (OMISSIS), essendo, invece, indubbia la volontà della sig.ra C.L. nell’attribuzione dei cespiti immobiliari in modo distinto tra il civico (OMISSIS) e il civico (OMISSIS).

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente ha (testualmente) denunciato la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, dell’art. 1362 c.c., con ciò intendendo confutare il procedimento ermeneutico compiuto dalla Corte territoriale per pervenire al risultato culminato nell’accoglimento della domanda dei sigg. P., sollecitando – essenzialmente – la valorizzazione di appositi clementi riguardanti l’ubicazione logistica dei due immobili, le modalità di godimento degli stessi, la loro condizione catastale e la diversità di valore attribuibile ai due distinti cespiti immobiliari.

Su proposta del relatore, il quale riteneva che il motivo potesse essere dichiarato inammissibile o, comunque, manifestamente infondato, con la conseguente definibilità nelle forme dell’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio, in prossimità della quale la difesa del ricorrente ha depositato memoria ai sensi del citato art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Solo le parti intimate P.T. e P.O. hanno resistito con un unico controricorso invocando il rigetto del ricorso, mentre le altre non hanno svolto attività difensiva in questa sede giudiziale.

Rileva il collegio che la censura, così come complessivamente articolata nell’interesse del ricorrente, deve essere dichiara infondata, in tal senso trovando conferma la proposta già formulata dal relatore ai sensi del citato art. 380-bis c.p.c., comma 1.

Con tale doglianza, in effetti, il ricorrente tende a ottenere una rivalutazione del risultato finale (e del presupposto procedimento ermeneutico rapportato all’applicazione dell’art. 1362 c.c.) raggiunto dalla Corte territoriale in ordine all’interpretazione del complessivo contenuto delle disposizioni di ultima volontà contenute nel testamento olografo della sig.ra C.L.L., che, tuttavia, ad avviso del collegio, risulta adeguatamente motivato dal giudice di appello sulla scorta della compiuta valutazione degli inequivoci plurimi elementi prima riportati come tali indubbiamente idonei a far emergere l’effettiva volontà della testatrice: la conseguenza che ne deriva è, pertanto, l’incensurabilità di tale interpretazione nella presente sede di legittimità siccome sorretta da motivazione del tutto esauriente e rispondente ai principi giuridici da osservare in tema di interpretazione applicabili in sede testamentaria.

E’, infatti, noto che l’accertamento della volontà testamentaria e la correlata interpretazione sono rimessi al giudice del merito e, se congruamente e logicamente motivati, sono sottratti al controllo del giudizio di legittimità. Inoltre, il giudice di appello si è correttamente conformato all’univoco orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass. n. 5604/2001 e, da ultimo, Cass. n. 10882/2018), secondo cui l’interpretazione del testamento, al quale in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio “mortis causa”, è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, aldilà della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell’esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione, potendosi ricorrere a elementi estrinseci solo in via sussidiaria, ovvero soltanto quando dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del “de cuius”. E’ stato anche chiarito (cfr., ad es., Cass. n. 1079/2005; Cass. n. 24637/2010 e Cass. n. 15931/2015) che il giudice di merito è legittimato ad attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale solo quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purchè non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius”.

Ciò premesso, appare indiscutibile come la Corte di merito sia legittimamente pervenuta al risultato ermeneutico comportante l’accoglimento del gravame, avendo – nell’attenersi ai suddetti principi – provveduto, in ossequio al canone fondamentale enucleato nell’art. 1362 c.c. (congruamente adattato alla materia testamentaria), a compiere un’interpretazione del contenuto del controverso testamento olografo non limitata al senso letterale ma – soprattutto – finalizzata a far emergere e, quindi, individuare la concreta ed effettiva intenzione volitiva della testatrice, valorizzando sul punto anche l’impianto complessivo della scheda di ultima volontà e le univoche e specifiche indicazioni rivolte ai due cespiti immobiliari in contesa.

A tal proposito il giudice di appello ha articolato l’impianto logico della motivazione dell’impugnata sentenza su tre convergenti profili chiaramente scaturenti dalla scheda testamentaria ed univocamente idonei a far risaltare una intrinseca e – contestualmente – estrinseca (siccome indiscutibilmente esteriorizzata) volontà della testatrice orientata a devolvere il cespite immobiliare identificato con il civico n. (OMISSIS) di (OMISSIS) ai due odierni controricorrenti. In tal senso la Corte territoriale ha conferito valenza giustamente prevalente siccome agganciate ad clementi certi – alle circostanze ricondotte: all’individuazione del fabbricato mediante l’indicazione inequivoca del numero civico (14), correttamente ritenuta preponderante rispetto all’identificativo catastale (i cui estremi non risultavano nemmeno essere stati richiamati nel complessivo contenuto testamentario); alle modalità lessicali di attribuzione dei cespiti secondo un criterio simmetrico (ai nipoti il cespite di cui al civico (OMISSIS) e allo zio quello di cui al civico (OMISSIS)); all’esclusione testuale di qualsiasi riferimento ad altri elementi esteriori (quali la suddivisione in numeri civici derivati da quelli principali, certamente conosciuti dalla testatrice), dalla quale inferire la chiara volontà della de cuius di disporre, con le due distinte attribuzioni testamentarie, dei compendi immobiliari corrispondenti, nella loro effettiva materialità ed autonomia, alle due intere palazzine. Pertanto, il giudice di appello ha compiutamente e correttamente dato conto di poter risalire all’effettiva volontà della testatrice, giungendo al già riferito risultato ermeneutico (tutto fondato sul “contesto interno” al testamento stesso), senza necessità di dover ricorrere, in via sussidiaria, ad altri elementi di carattere esterno (ovvero “extratestuali”), come quelli attinenti alle modalità di gestione degli immobili o all’ipotetico diverso valore degli stessi.

In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso del F. deve essere rigettato, con la derivante condanna dello stesso al pagamento, in favore delle parti controricorrenti in via solidale, delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 6.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario ed accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese nei confronti degli altri intimati che non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1-quater – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 6.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario ed accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018

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