Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32328 del 13/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 13/12/2018, (ud. 20/06/2018, dep. 13/12/2018), n.32328

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10101-2015 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato CARLO DE MARCHIS, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA

BARBERINI 47, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PANDOLFO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7302/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/10/2014 R.G.N. 8368/2012.

LA CORTE:

saminati gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

RILEVATO

che con sentenza n. 7302 pubblicata il 6 ottobre 2014 la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame interposto da P.F. il 25 ottobre 2012 contro la pronuncia con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto la domanda della medesima, addetta allo svolgimento di mansioni di operatrice calll center (assistenza telefonica, con il disimpegno di compiti asseritamente estranei ai servizi postali), diretta alla dichiarazione di nullità dei termini apposti ai contratti stipulati dalla stessa con la società POSTE ITALIANE ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, al fine di ottenere la conseguente conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato e la sua riammissione in servizio, oltre al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate;

che i contratti de quibus risultano stipulati per i periodi dal 1 dicembre 2006 ai 30 marzo 2007, dal 2 maggio al 31 ottobre 2007, dal 26 novembre 2007 al 24 marzo 2008 e dal 14 aprile al 30 maggio 2008;

che avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione P.F. con atto del 7 aprile 2015 (martedì, n.b. domenica 5 aprile 2015 Pasqua, con conseguente festività del successivo lunedì dell’Angelo 6 aprile), mediante tre motivi, cui ha resistito Poste Italiane S.p.A. con controricorso del 15 maggio 2015.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

la ricorrente a sostegno dell’impugnazione ha denunciato i vizi come di seguito sintetizzati:

1. violazione dell’art. 3 Cost. e del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, avuto riguardo allo svolgimento di mansioni non riconducibili al servizio postale in senso proprio, sicchè una lettura costituzionalmente orientata del succitato art. 2, comma 1 bis, avrebbe dovuto escludere l’applicabilità di tale previsione normativa nel caso di specie, siccome inerente alla prestazione di compiti non direttamente attinenti ad attività postali in senso stretto;

2. violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1 e 2, della direttiva n. 90/77/CEE nonchè omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio, avendo la Corte di merito del tutto omesso di esaminare la specifica censura formulata dall’appellante relativamente alla violazione del periodo massimo di rapporti a termine previsto dal succitato art. 2, comma 1 bis, con conseguente nullità del termine apposto al contratto di lavoro;

3. violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 2 e 5, della direttiva 90/77/CEE, nonchè degli artt. 1343 e 1344 c.c. e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, avendo la sentenza impugnata respinto la puntuale doglianza della ricorrente in ordine all’intento fraudolento della convenuta, teso ad eludere il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e comunque l’illegittimità della sequenza contrattuale che aveva caratterizzato l’iter lavorativo di essa ricorrente alle dipendenze di Poste Italiane, poichè la Corte capitolina erroneamente aveva giudicato non condivisibile l’affermazione della mancanza di qualsiasi tutela fino alla data del 1 aprile 2009, interpretando erroneamente il Decreto n. 368, art. 5 nell’escluderne la rilevanza civilistica, affermando in sostanza che la norma prevedeva un regime transitorio idoneo a tutelare da un canto la prosecuzione del rapporto di lavoro già in corso alla data di entrata in vigore della legge e dall’altro ad evitare lo sfruttamento dei lavoratori. La sentenza impugnata aveva, quindi, erroneamente escluso l’applicazione di un istituto generale costituito da una norma di ampia portata, rappresentata dall’art. 1344 c.c., ritenendo l’esclusività della disciplina speciale entrata in vigore successivamente. Infatti, la disciplina generale sui contratti a termine si colloca nell’ambito di quella generale sui contratti, che prevede una norma sistemica di chiusura;

RITENUTO che le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti considerazioni; che, in effetti, la sentenza impugnata ha richiamato la disciplina di cui alla L. n. 247 del 2007 (art. 1, comma 40), che introduceva il comma 4 bis al D.Lgs. n. 368, art. 5: “L’interpretazione letterale e sistematica del citato comma 4 bis non permette la conclusione cui giunge parte appellante, sia perchè la citata disposizione non pone alcun limite d’applicazione, sicchè si deve ritenere che la soglia massima di 36 mesi sia valevole per tutti i tipi di contratti a termine stipulati, sia perchè il comma 4 ter, inserito al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5 dalla medesima disposizione della L. n. 247 del 2007, stabilisce che il termine massimo triennale non trovi applicazione solamente nel caso delle attività stagionali e delle altre individuate dai contratti collettivi. Non condivisibile è anche l’affermazione della mancanza di qualsiasi tutela alla data del 1 aprile 2009. Infatti, la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 43, prevede quanto segue:

In sostanza, la disposizione prevede un regime transitorio, idoneo a tutelare da un canto la prosecuzione dei rapporti già in corso alla data di entrata in vigore della legge (1 gennaio 2008), dall’altro ad evitare lo sfruttamento dei lavoratori perchè, decorsi 15 mesi dalla data di entrata in vigore della legge (quindi dal 1 aprile 2009), ogni giorno di lavoro prestato in virtù di un contratto a termine si computa con i periodi di lavoro già prestati prima dell’entrata in vigore della legge (1.1. 2008) al fine di raggiungimento del termine massimo triennale; con ciò si esclude in radice la possibilità di reiterazione indefinita di contratti e che fino al 1 aprile 2009 il lavoratore rimanga del tutto sprovvisto di tutela, perchè i periodi di lavoro dall’entrata in vigore della L. n. 266 del 2005 fino al 31 dicembre 2007 sono computati, unitamente ai periodi successivi al 1 aprile 2009, ai fini di raggiungimento della soglia massima triennale. Nè l’articolo in commento configurerebbe uno sfruttamento abusivo della posizione dominante ex art. 82 del trattato CE, in violazione agli artt. 86 e 90 Trattato (ora v. Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea)…

Proprio sulla scorta di dette decisioni deve sinteticamente affermarsi: che l’articolo in questione non crea una situazione in cui l’impresa alla quale ha conferito diritti speciali o esclusivi è “necessariamente indotta ad abusare della propria posizione dominante”; che tale norma non risulta pregiudizievole al commercio tra Stati membri; che la stessa si giustifica comunque perchè riguarda un’impresa incaricata della gestione di un servizio di interesse economico generale ai sensi dell’art. 90, n. 2 del Trattato…”, richiamata altresì la sentenza della Corte Costituzionale n. 214/2009 ed escluso motivatamente ogni contrasto dell’art. 2, comma 1 bis con la direttiva 1999/70/CE, tenuto inoltre conto di quanto pure rilevato in materia dalla Corte di Giustizia con l’ordinanza 11-11-2010 nella causa C20/10;

che, ad ogni modo, le varie doglianze dedotte da parte ricorrente, appaiono manifestamente infondate, poichè già disattese in varie occasioni da questa Corte con numerose pronunce emesse in casi analoghi, cui il collegio intende dare continuità, condividendole, in assenza altresì di convincenti e pertinenti argomentazioni di segno contrario, alle quali pertanto integralmente si rimanda (Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 8564 del 07 – 31/03/2017; Sez. lav. sentenza n. 6765 del 06/12/2016 – 15/03/2017 n. registro generale 026713/2011; Sez. 6 – L, ordinanza n. 6281 in data 11/01 – 10/03/2017; id. n. 1874 del 24/11/2016 – 25/01/2017 r.g. n. 019235/2014; id. n. 27442 in data 08/11 – 29/12/2016; id. n. 3 del 06/10/2015 – 04/01/2016; id. n. 18293 del 09/07 – 17/09/2015, r.g. n. 08585/14);

che, invero, in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, aggiunto dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 558, ha introdotto, per le imprese operanti nel settore postale, un’ipotesi di valida apposizione del termine autonoma rispetto a quelle stabilite dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1, richiedendo esclusivamente il rispetto dei limiti temporali, percentuali (sull’organico aziendale) e di comunicazione alle organizzazioni sindacali provinciali e non anche l’indicazione delle ragioni giustificative dell’apposizione del termine, dovendosi escludere che tale previsione sia irragionevole – come positivamente valutato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 214 del 2009 – o contrasti con il divieto di regresso contenuto nell’art. 8 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 99/70/CE, trattandosi di disposizione speciale, introdotta accanto ad altra analoga previsione speciale, con la quale il legislatore si è limitato ad operare una tipizzazione della ricorrenza di esigenze oggettive, secondo una valutazione di tipicità sociale. Ne consegue che per i relativi contratti di lavoro non opera l’onere di indicare sotto il profilo formale, e di rispettare sul piano sostanziale la causale, oggettiva e di natura temporanea, giustificatrice dell’apposizione di un termine al rapporto (Cass. lav. n. 13221 del 26/07/2012. Conforme Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 24240 del 27/11/2015. V. pure Cass. lav. n. 11659 – 11/07/2012: la disposizione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, aggiunta dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 558, perseguendo una “ratio” di parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine nel settore delle poste, consente alle imprese concessionarie dei servizi postali di stipulare contratti a tempo determinato, nei limiti e per i periodi ivi previsti, senza necessità di indicare le ragioni obiettive giustificatrici dell’apposizione del termine. Tale disposizione non contrasta con l’ordinamento comunitario, in quanto, come rilevato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (C-20/10, Vino), è giustificata dalla direttiva 1997/67/CE, in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali, non venendo in rilievo la direttiva 1999/70/CE, in tema di lavoro a tempo determinato, neppure con riferimento al principio di non discriminazione, che è affermato per le disparità di trattamento fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, ma non anche per le disparità di trattamento fra differenti categorie di lavoratori a tempo determinato.

Cass. lav. n. 19998 del 23/09/2014: il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 2, comma 1 bis, è compatibile con la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla direttiva 1999/70/CE anche nell’ipotesi di successione di contratti stipulati nel regime transitorio di cui alla L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 1, comma 43, in quanto tale disposizione sancisce che, decorsi 15 mesi dall’entrata in vigore della legge, ai fini del limite massimo dei 36 mesi, si computano tutti i periodi pregressi lavorati con il medesimo datore di lavoro.

Cass. lav. n. 13609 del 02/07/2015: il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 2, comma 1 bis, fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione – quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la “ratio” della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. “servizio universale” postale, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 1, comma 1, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore. Ne consegue che al fine di valutare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali sull’organico aziendale e di comunicazione previsti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis,. V. analogamente Cass. lav., ordinanza n. 4637 del 28/11/2017 – 28/02/2018.

Inoltre, Cass. sez. un. civ. con la sentenza n. 11374 del 31/05/2016 ha definitivamente ed ulteriormente chiarito che le assunzioni a tempo determinato, effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore delle poste, le quali presentino i requisiti specificati dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non necessitano anche dell’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi dell’art. 1 medesimo D.Lgs., comma 1 trattandosi di ambito nel quale la valutazione sulla sussistenza della giustificazione è stata operata “ex ante” direttamente dal legislatore. E con la stessa pronuncia è stato inoltre condivisibilmente affermato che la stipula in successione tra loro di contratti a tempo determinato nel rispetto della disciplina di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive integrazioni, applicabile “ratione temporis”, è legittima, dovendosi ritenere la normativa nazionale interna non in contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE, atteso che l’ordinamento italiano e, in ispecie, il D.Lgs. n. 368 cit., art. 5 come integrato dalla L. n. 247 del 2007, art. 1, commi 40 e 43, impone di considerare tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, a prescindere dai periodi di interruzione tra essi intercorrenti, inglobandoli nel calcolo della durata massima – 36 mesi -, la cui violazione comporta la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto. Conforme sul punto Cass. n. 19998/14 cit., mentre nel caso di specie qui in valutazione il suddetto limite massimo di 36 mesi non risulta affatto superato, restando la durata complessiva dei cinque contratti in questione circoscritta a non più di 20 mesi, laddove poi, in base al principio affermato dalla ricordata pronuncia di Cass. n. 13609/15 è assolutamente irrilevante la questione attinente alle mansioni di addetta al cali center svolte dalla ricorrente, anzichè ai servizi postali in senso stretto);

che, per altro verso, gli anzidetti accertamenti compiuti dalla Corte di merito (cfr. in part. pagg. 10 e 11 della motivazione, riguardo alla esclusa violazione della c.d. clausola di contingentamento, alla valutazione dei rischi operata da parte datoriale presso la sede di lavoro cui era stata assegnata la P., non mancando infine di osservare che l’eventuale assenza di informative sindacali non incideva sulla validità dei contratto a termine) sono altresì insindacabili in questa sede di legittimità, rinviandosi per il resto a quanto analogamente già disatteso da questa Corte in relazione a motivi pressochè identici con le succitate pronunce nn. 8564/17, 6765/17, 6281/17, 1874/17, 27442/16, 3/2016 e 18293/15 (cfr. ancora Cass. lav. Sez. n. 753 del 15/01/2018, secondo cui il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, nel prevedere che il numero dei lavoratori assunti a termine dalle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste non può superare il limite percentuale del quindici per cento dell’organico aziendale, si riferisce al numero complessivo dei lavoratori assunti, in base ad un criterio quantitativo “per teste”, dovendosi escludere il computo dei contratti a tempo determinato “part-time” fino alla concorrenza dell’orario pieno, ossia secondo il criterio c.d. “full time equivalent”, previsto dal D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6, comma 1, al fine di facilitare il calcolo dell’organico in sede di recepimento della direttiva 1997/81/CE e in vista della prevedibile estensione del lavoro a tempo parziale, ma non anche ai fini della disciplina dei limiti di utilizzo del contratto a tempo determinato, che ha una specifica “ratio”, riconducibile alla finalità antiabusiva della direttiva 1999/70/CE.

V. altresì Cass. lav. n. 5718 del 9/3/2018, secondo cui la violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di comunicare alle organizzazioni sindacali provinciali di categoria le richieste di assunzione ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non è prevista come requisito di validità del negozio, sicchè la sua inosservanza non produce nullità del negozio cui afferisce perchè si tratta di comportamento che viola l’interesse dei destinatari delle informazioni, ossia delle organizzazioni sindacali, al punto da costituire eventuale condotta antisindacale, ma che non incide sulla validità del negozio, non potendosi configurare l’osservanza di procedure di informazione alla stregua d’un requisito intrinseco di validità. L’osservanza d’un obbligo di comunicazione può invece astrattamente rientrare nel novero dei requisiti estrinseci di validità o di efficacia, ammissibili nella teoria generale del negozio, purchè espressamente previsti dalla legge o dalla volontà convenzionale, ma non è questo il caso.

V. pure Cass. lav. n. 12801 del 23/05/2018: in tema di contratto di lavoro a tempo determinato nel settore delle poste, D.Lgs. n. 368 del 2001, ex art. 2, comma 1 bis, ai fini del rispetto della percentuale di contingentamento costituisce elemento probatorio liberamente valutabile il documento prodotto dall’ente e sottoscritto da un dirigente nominativamente indicato, attestante i numeri dei dipendenti assunti e dei contratti a tempo determinato stipulati nel periodo di riferimento, senza la necessità di una conferma testimoniale ovvero di una diversa verifica);

che, dunque, dal complesso della ricca motivazione svolta con la sentenza de qua neanche può ipotizzarsi la violazione di una omessa pronuncia (ex art. 112 c.p.c., error in procedendo ritualmente denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 ed univocamente in termini di nullità), nè tanto meno come omesso esame di un fatto decisivo (ex art. 360 c.p.c., n. 5. Nella specie, per giunta, è ratione temporis applicabile – essendo stata la sentenza de qua pubblicata nell’ottobre 2014 – il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, attualmente vigente, sicchè può rilevare soltanto la – eventuale – omessa considerazione di un fatto, in senso storico, decisivo, mentre la motivazione di per sè può comportare la cassazione della decisione impugnata soltanto ove inferiore al c.d. minimo costituzionale, però con esclusione di ogni sindacato di merito sull’apprezzamento del fatto stesso compiuto dal giudice precedentemente adito. cfr. sul punto, tra le altre, Cass. 3 civ. n. 11892 del 10/06/2016: il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. In senso pressochè conforme, Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014. V. ancora Cass. sez. un. civ. Sez. n. 22232 del 03/11/2016: si è in presenza di una “motivazione apparente” allorchè la motivazione, pur essendo graficamente – e, quindi, materialmente – esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella perplessa e incomprensibile: in entrambi i casi, invero – e purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione. Per contro, alla stregua delle ampie argomentazioni, in diritto ed in fatto, svolte nella sentenza qui impugnata, le stesse all’evidenza ne rendono agevolmente comprensibile nella specie la ratio decidendi, tanto più che in motivazione sono stati anche precisamente riportati tutti i dati cronologici di tempo, v. pag. 2, dei cinque contratti a termine in discussione, di guisa che, sebbene implicitamente, la Corte di merito ha ritenuto pure di dover escludere l’ipotizzata frode di cui all’art. 1344 c.c.);

che, pertanto, il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente alle spese;

che, infine, nella specie è applicabile ratione temporis il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, trattandosi di ricorso risalente all’aprile 2015.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della controricorrente in Euro =4000,00= per compensi professionali ed in Euro =200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018

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