Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32257 del 10/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/12/2019, (ud. 26/09/2019, dep. 10/12/2019), n.32257

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29660/2014 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA

121, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO BONOTTO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO VENTURINO;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA DELLA NATIVITA’ B.M.V. O.SS.T., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CAPO PELORO 3, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI COSTANTINO,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4512/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 01/02/2014; r.g.n. 64/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato MARCO VENTURINO;

udito l’Avvocato GIOVANNI COSTANTINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il giorno 1 febbraio 2014) respinge l’appello di T.G. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce del 21 febbraio 2011, di rigetto del ricorso del T. diretto ad ottenere, nei confronti della Provincia della Natività B.M.V. – O.SS.T., la dichiarazione di nullità dell’accordo transattivo intervenuto in sede sindacale il 12 dicembre 2003, oppure la risoluzione per inadempimento di tale accordo oltre al risarcimento dei danni subiti.

La Corte d’appello di Lecce, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il T. ribadisce che l’accordo transattivo in oggetto era illegittimo per aver comportato il proprio demansionamento, visto che il divieto di demansionamento non sarebbe escluso dalla conservazione del posto di lavoro e, in ogni caso, il consenso prestato all’accordo non era valido perchè egli era stato sottoposto ad una forte coartazione psichica;

b) va, però, osservato che la rinuncia all’incarico di direttore medico sembra che non abbia costituito un vero e proprio demansionamento, quanto piuttosto una variazione di mansioni perchè l’interessato ha mantenuto una posizione apicale seppure diversa dalla precedente;

c) in ogni caso, l’accordo in questione concluso in sede sindacale potrebbe essere annullato solo per vizi del consenso, qui non dimostrati;

d) invero il timore del licenziamento, anche se supportato da fatti oggettivi quali le plurime contestazioni disciplinari, non può valere ad escludere la libertà di decisione, anche perchè l’accordo è stato stipulato con l’assistenza del sindacato di riferimento e alla presenza di un sindacalista scelto dal T.,

e) non si rinvengono prove in ordine all’ipotizzato inadempimento della Provincia rispetto all’accordo menzionato, non essendovi la dimostrazione della avvenuta preclusione dell’esercizio delle nuove funzioni di neurologo assegnate, pur essendo emerse divergenze di vedute tra le parti in ordine alle competenze delle diverse figure professionali;

f) le prove raccolte portano ad escludere fatti di mobbing sia prima che dopo l’accordo transattivo;

g) comunque, anche se i danni lamentati fossero stati determinati da comportamenti mobbizzanti, gli stessi, quanto meno sotto il profilo biologico, avrebbero dovuto essere richiesti all’INAIL, chiamato in causa solo nella fase cautelare del giudizio;

h) gli altri profili di danno patrimoniale non sono stati provati nè nella loro esistenza nè nel rapporto causale con comportamenti illeciti della Provincia.

2. Il ricorso di domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste, con controricorso, la Provincia della Natività B.V.M. – O.SS.T. (Beata Vergine Maria – Ordine della Santissima Trinità).

3. Entrambe parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I – Profili preliminari.

1. In primo luogo va precisato che, diversamente da quel che si sostiene in controricorso, il T. non ha notificato due diversi ricorsi, ma ha notificato per due volte il medesimo ricorso, avendo dei dubbi sulla validità della prima notifica.

Pertanto il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza non risulta violato.

2. La controricorrente propone, poi, le seguenti due eccezioni di inammissibilità del ricorso:

a) per inosservanza del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, per non essere state esposte le posizioni difensive della Provincia;

b) per la mancata trascrizione integrale della sentenza impugnata nel corpo del ricorso.

3. Entrambe tali eccezioni vanno respinte.

3.1. In base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) in tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168);

b) la suddetta disposizione del codice di rito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. 22 settembre 2003, n. 14001; Cass. 29 agosto 2011, n. 17719; Cass. 9 novembre 2011, n. 23346;

c) in questa ottica, per soddisfare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dell’art. 366 c.p.c., dal n. 3, non è necessario che tale esposizione costituisca parte a sè stante del ricorso ma è sufficiente che essa risulti in maniera chiara dal contesto dell’atto, attraverso lo svolgimento dei motivi (vedi, per tutte: Cass. 28 giugno 2018, n. 17036;

d) il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena d’inammissibilità del ricorso per cassazione, è funzionale alla completa e regolare instaurazione del contraddittorio ed è soddisfatto laddove il contenuto dell’atto consenta di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti, sicchè impone alla parte ricorrente, sempre che la sentenza gravata non impinga proprio per questa ragione in un’apparenza di motivazione, di sopperire ad eventuali manchevolezze della stessa decisione nell’individuare il fatto sostanziale e soprattutto processuale, eventualmente anche indicando le ragioni svolte a difesa dalle controparti (Cass. 2 agosto 2016, n. 16103);

e) il disposto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere a pena d’inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa, può ritenersi osservato quando in esso sia stata trascritta la sentenza impugnata, purchè se ne possa ricavare la cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorrere ad altre fonti (vedi, per tutte: Cass. 26 marzo 2012, n. 4782).

3.2. Nella specie, nel ricorso è presente una esposizione sommaria dei fatti che consente – anche attraverso le argomentazioni poste a base dei motivi – di ricostruire in modo e completo i fatti di causa, sostanziali e/o processuali e di intendere bene il significato e la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata anche con riguardo alle ragioni svolte a difesa dalla Provincia, ragioni peraltro desumibili anche dalla lettura della sentenza stessa.

Pertanto – al di là di ogni formalismo, che è antitetico rispetto ai principi del giusto processo – l’attuale ricorso è, al riguardo, ammissibile senza che vengano in considerazione nè la necessità di integrare espressamente la parte specifica del ricorso dedicata all’esposizione del fatto con l’esposizione delle posizioni difensive della Provincia (che comunque sono richiamate), nè la necessità di trascrivere nel corpo del ricorso la sentenza impugnata, visto che un simile adempimento è da considerare utile “in via alternativa”, rispetto ad una valida ed esauriente esposizione sommaria dei fatti, quale è quella contenuta nel presente ricorso.

II – Sintesi dei motivi di ricorso.

4. Il ricorso è articolato in cinque motivi.

4.1. Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1418,2103 e 2113 c.c.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla dedotta nullità dell’accordo transattivo concluso in sede sindacale il 12 dicembre 2003.

Si sostiene che la Corte d’appello non avrebbe preso in considerazione la suindicata censura, non esaminando la problematica relativa alla distinzione tra atti dispositivi di diritti già acquisiti e atti dispositivi di diritti futuri, onde stabilire se la rinuncia, per l’avvenire, alle mansioni sia da considerare semplice rinuncia a diritti già acquisiti o se invece incida sulla fase genetica del diritto e, quindi, sia affetta dalla dedotta nullità.

Si sottolinea come la Corte d’appello sia giunta addirittura a mettere in dubbio – sia pure con una affermazione da qualificare come un obiter dictum che vi sia stato un demansionamento, quale è invece emerso anche dalle risultanze processuali.

Di conseguenza, la Corte territoriale, sulla base di una erronea qualificazione giuridica dei fatti (di per sè pacifici) non avrebbe neppure effettuato la rigorosa verifica richiesta dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla legittimità o meno dello jus variandi da parte del datore di lavoro.

In sintesi, si rileva che la Corte d’appello non avrebbe considerato che un accordo transattivo, anche se concluso in sede sindacale – che non sia il frutto di una libera scelta del dipendente, pur non essendo imposto dall’esigenza di conservare il posto di lavoro o di garantire altri diritti costituzionalmente tutelati – è affetto da nullità ex art. 2103 c.c., con riguardo a diritti che sarebbero maturati dopo l’accordo, laddove determini una variazione in pejus delle mansioni del lavoratore, pure con il mantenimento del medesimo trattamento retributivo.

Il vizio motivazionale denunciato sarebbe rappresentato dal mancato esame del “fatto consistente nella qualificazione dell’accordo di demansionamento” in oggetto.

4.2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1427 e 1435 c.c.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla dedotta annullabilità dell’accordo transattivo concluso in sede sindacale il 12 dicembre 2003.

Si sottolinea che, nei rapporti di lavoro subordinato, la minaccia del datore di lavoro di risolvere il rapporto a tempo indeterminato intercorrente fra le parti in assenza di prova dei relativi presupposti può, ex art. 1438 c.c., determinare l’annullabilità per violenza dell’atto negoziale alla cui conclusione il dipendente sia stato determinato in conseguenza di tale minaccia, anche in caso di assistenza sindacale. In una simile evenienza il vantaggio del datore di lavoro è qualificabile come ingiusto se questi mira ad ottenere dal dipendente il sacrificio di diritti acquisiti, tramite rinuncia o transazione.

Tale problematica non è stata correttamente valutata dalla Corte d’appello che non ha esaminato i fatti denunciati, incluse le diagnosi ufficiali di mobbing, non ha considerato lo squilibrio tra i diritti spettanti al T. e quelli riconosciutigli in via transattiva e neppure ha considerato la sussistenza della dedotta violenza morale, manifestatasi in ben quattro contestazioni disciplinari in pochi giorni nè ha valutato i danni alla salute del ricorrente prodotti da questa situazione.

4.3. Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2,32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2; art. 2087 c.c.; L. n. 300 del 1970; D.Lgs. n. 626 del 1994; artt. 1453,1455,1456 c.c., anche in riferimento alla clausola h) dell’accordo transattivo in oggetto – esistenza del mobbing; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e omesso esame circa un punto decisivo della controversia.

In sintesi si sostiene che la Corte d’appello – nell’escludere la risarcibilità dei danni da mobbing – non ha tenuto presente il principio di diritto affermato da questa Corte nella sentenza 5 novembre 2012, n. 18927, secondo cui: “nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

4.4. Con il quarto motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli art. 2113 c.c. e dei principi vigenti in materia; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, rappresentato dalla mancata rinuncia al risarcimento dei danni per fatti antecedenti il verbale dell’accordo transattivo concluso in sede sindacale.

Si contesta la mancata considerazione, da parte della Corte d’appello, del quarto motivo di gravame riguardante la mancanza, nel verbale d’accordo sindacale in oggetto, di ogni riferimento alle questioni concernenti l’oggetto della domanda di risarcimento dei danni per condotte illegittime datoriali, fonti di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, non potendo questa domanda considerarsi “coperta” dalla clausola liberatoria sub e) dell’accordo stesso.

4.5. Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2087,2043 c.c. e del T.U. n. 1124 del 1965, contestandosi l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui, anche se i danni lamentati fossero stati determinati da comportamenti mobbizzanti, gli stessi, quanto meno sotto il profilo biologico, avrebbero dovuto essere richiesti all’INAIL, chiamato in causa solo nella fase cautelare del giudizio.

III – Esame delle censure.

5. L’esame delle censure porta al rigetto del ricorso, per le ragioni di seguito esposte.

6. In primo luogo deve essere affermata l’inammissibilità dei profili di censura – contenuti nei primi quattro motivi – formulati in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, come denunce di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”.

Infatti, in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

Peraltro, i vizi prospettati con tali censure attengono alla qualificazione e valutazione giuridica di fatti e non a “fatti” direttamente omessi, sicchè concernono parti della motivazione in diritto della sentenza il che vuol dire che con essi si denunciano vizi della motivazione che, in una simile accezione, non costituiscono più ragione cassatoria a seguito dell’indicata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (vedi, per tutte: Cass. 5 luglio 2016, n. 13641).

7. Inammissibili sono pure i profili di censura – contenuti sempre nei primi quattro motivi – formulati in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, come denunce di norme di diritto rispettivamente in materia di nullità, annullabilità dell’accordo transattivo concluso in sede sindacale (primi due motivi), risarcibilità dei danni da mobbing, mancata rinuncia della domanda di risarcimento dei danni per fatti antecedenti all’accordo suindicato (terzo e quarto motivo).

7.1. Infatti, tali censure – al di là del formale richiamo alla violazione di norme di diritto contenuto nell’intestazione di tutti i suddetti motivi – nella sostanza si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti, in particolare con riguardo all’interpretazione del suindicato accordo transattivo, accordo rispetto al quale non risulta neppure osservato il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente, qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali, è tenuto a trascriverne nel ricorso il contenuto essenziale e nel contempo a provvedere al relativo deposito insieme con il ricorso per cassazione stesso oppure a fornire alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali (di recente: Cass. SU 23 settembre 2019, n. 23552 e n. 23553).

7.2. Peraltro l’interpretazione di un atto negoziale (quale è l’accordo transattivo de quo) è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o per motivazione inadeguata.

Per far valere una violazione sotto tale secondo profilo è necessario che ricorra una delle fattispecie che consentono di fare riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo oggi vigente, cosa che qui non si verifica come si è detto.

D’altra parte onde far valere una violazione sotto il primo dei suddetti profili occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il Giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa da quella adottata nella sentenza impugnata (tra le tante: Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294).

Nel presente ricorso non è contenuto, invece, alcun riferimento nè generico nè specifico al mancato rispetto dei suddetti canoni dell’ermeneutica contrattuale da parte della Corte d’appello.

7.3. Nella descritta situazione, appare del tutto improprio il richiamo alla sentenza di questa Corte 5 novembre 2012, n. 18927 effettuato nel terzo motivo, essendo inammissibili le censure in esso formulate.

Peraltro va anche precisato che la fattispecie esaminata nella suindicata sentenza era diversa dalla presente, perchè in essa non vi erano contestazioni sulla ricostruzione dei fatti e delle condotte del datore di lavoro (e dei colleghi della ricorrente), ma si discuteva esclusivamente della possibilità di ascrivere a responsabilità del datore di lavoro alcuni comportamenti aventi natura asseritamente vessatoria pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessata e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”. Sicchè si trattava soltanto di una diversa qualificazione degli stessi fatti quali già pacificamente accertati dai Giudice del merito (vedi, al riguardo: Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).

Del resto, la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291 cit.).

8. Quanto al quinto motivo, va rilevato che, in effetti, come afferma il ricorrente, è il datore di lavoro l’unico responsabile della violazione dell’art. 2087 c.c. – cui va ascritto anche il c.d. danno da mobbing lavorativo mentre l’INAIL può, eventualmente, agire con la surrogazione ex art. 1916 c.c., contro i terzi responsabili, estranei al rapporto assicurativo, per il rimborso delle indennità corrisposte al lavoratore o ai suoi superstiti azionando il diritto al risarcimento del danno spettante all’assicurato, oppure può intentare l’azione di regresso del T.U. n. 1124 del 1965, ex artt. 10 e 11, contro il datore di lavoro che debba rispondere penalmente delle lesioni o che sia civilmente responsabile dell’operato di un soggetto del quale sia accertata con sentenza la responsabilità, facendo valere in giudizio un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo (Cass. 26 aprile 2019, n. 11324).

8.1. Ne consegue che risulta inesatta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui i danni determinati da comportamenti mobbizzanti posti in essere nell’ambiente di lavoro, quanto meno sotto il profilo del danno biologico, avrebbero dovuto essere richiesti all’INAIL.

8.2. Va tuttavia osservato che la suddetta affermazione non ha carattere decisivo, in quanto – come ictu oculi si desume dall’uso del periodo ipotetico e del tempo congiuntivo trapassato – non ha lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni ed è quindi improduttiva di effetti giuridici, sicchè deve considerarsi un “obiter dictum”, come tale non vincolante e non sono suscettibile di gravame, nè di censura in sede di giudizio di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815).

8.3. Pertanto, se, in ragione della funzione di nomofilachia affidata dall’ordinamento a questa Corte di cassazione, si ritiene opportuno, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., rilevare comunque l’erroneità in diritto dall’anzidetta affermazione, si deve anche aggiungere che tale affermazione non ha alcuna incidenza sul dispositivo della sentenza impugnata, che è conforme a diritto, per quel che si è detto (Cass. 22 marzo 2010, n. 6845; Cass. 9 gennaio 2008, n. 207).

Di qui l’inammissibilità anche del quinto motivo.

IV – Conclusioni.

9. In sintesi, il ricorso deve essere respinto.

10. Le spese del presente giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

11. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ivi previsto, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, Euro 4500,00 (quattromilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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