Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32233 del 10/12/2019

Cassazione civile sez. II, 10/12/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 10/12/2019), n.32233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28023/2015 proposto da:

D.B.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO

POLLAIOLO 5, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO MARIA RICCIONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNA SCACCIANOCE;

– ricorrente –

contro

S.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BASSANO DEL

GRAPPA 24, presso lo studio dell’avvocato MICHELE COSTA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ITALO ALBANESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 138/2015 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 24/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

Fatto

RITENUTO

che:

D.B.V. chiamava in giudizio S.R. dinanzi al Tribunale di Trento.

Esponeva di avere acquistato, con atto del 23 gennaio 2008, un immobile dal convenuto, avendo ricevuto preventivamente dal venditore la rassicurazione circa la regolarità della documentazione riguardante l’agibilità del bene e alla conformità degli impianti, che doveva essere consegnata entro la data della vendita.

Lamentava che il convenuto si era reso inadempiente a tale obbligo, avendo consegnato il solo certificato idrico – termosanitario, ottenuto e rilasciato dopo la vendita, mentre continuavano a mancare la certificazione relativa all’impianto elettrico e il certificato di agibilità.

Esponeva ancora di avere poi accertato, a seguito di richiesta di accesso agli atti presso il Comune, che mancavano sia il certificato di agibilità e sia la documentazione relativa agli impianti.

Chiedeva la condanna del convenuto alla consegna della documentazione e al risarcimento del danno, quantificato in Euro 230.000,00.

Il convenuto, costituendosi, eccepiva, quanto alla dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico, che, nonostante una specifica previsione contrattuale escludesse l’obbligo della relativa produzione, il documento era stato consegnato, contestualmente alla vendita, al tecnico di fiducia del compratore; eccepiva ancora che il certificato idrico – termosanitario era stato consegnato in un secondo tempo e che il certificato di agibilità non era necessario, in considerazione dei consistenti lavori di ristrutturazione che l’acquirente avrebbe dovuto eseguire successivamente all’acquisto; aggiungeva ancora, sempre con riguardo al certificato di agibilità, che la produzione della stesso era stata resa necessaria solo a seguito di una legge provinciale entrata in vigore dopo l’acquisto.

Il tribunale rigettava la domanda.

Il primo giudice rilevava che il 6 marzo 2013, in corso di causa, il convenuto aveva provveduto a trasmettere la dichiarazione di regolarità dell’impianto termo idraulico, mentre il certificato di conformità dell’impianto elettrico era stato consegnato sin dalla fine del 2009; rilevava ancora, riguardo al certificato di agibilità, che la relativa domanda non poteva trovare accoglimento, in quanto i lavori di ristrutturazione eseguiti dal D.B. erano stati così radicali da richiedere che il convenuto ne sollecitasse autonomamente il rilascio dalle competenti autorità; rilevava ancora che il danno subito dall’acquirente avrebbe potuto in ipotesi commisurarsi esclusivamente sui costi delle prestazioni professionali e delle opere necessarie per ottenere il certificato di agibilità; il primo giudice aggiungeva che faceva difetto la prova circa l’impossibilità di ottenerne il rilascio o che la mancanza del medesimo certificato avesse reso impossibile l’utilizzazione dell’immobile.

Il tribunale disponeva la compensazione integrale delle spese di lite.

Contro la sentenza proponevano appello principale lo S., censurando la decisione nella parte relativa alla compensazione delle spese di lite, e appello incidentale il D.B..

La Corte d’appello di Trento rigettava l’appello incidentale, che riteneva in parte inammissibile e comunque infondato.

Essa rilevava che l’appellante non aveva censurato i rilievi del tribunale sul difetto di prova del danno, se non genericamente e sulla base di una deduzione nuova, e cioè la vendita aliud pro alio, che costituiva ipotesi ad ogni modo non configurabile nella specie.

In quanto al resto la corte d’appello condivideva la valutazione del tribunale in ordine alla consegna, già nel 2009, del certificato di conformità dell’impianto elettrico e successivamente di quello relativo all’impianto idrico-sanitario, aggiungendo che l’appellante non aveva fornito prova dei danni derivanti dal ritardo.

Aggiungeva ancora cha la radicale ristrutturazione dell’immobile da parte dell’acquirente aveva reso inattuabile il rilascio del certificato di abitabilità (ammesso che ricorresse un obbligo in tal senso secondo la legislazione vigente all’epoca); condivideva ad ogni modo i rilievi del giudice di primo grado in ordine alla mancata prova dei danni derivanti dalla impossibilità di fruizione dell’immobile dalla sua incommerciabilità, essendo rimasti indimostrati i costi occorrenti per il rilascio. In particolare, con riguardo a tale ultimo aspetto, la corte rilevava che fattura esibita dal compratore, rilasciata dal professionista che aveva eseguito gli accessi presso il Comune, non era concludente, vuoi per la genericità delle voci in essa indicati, vuoi in considerazione del fatto che si trattava di accertamento necessario per il compratore ai fini della ristrutturazione dell’immobile. Era mancata perciò la dimostrazione di un’attività del tecnico volta specificamente al conseguimento della certificazione di agibilità.

In accoglimento dell’appello incidentale condannava il D.B. al pagamento delle spese del primo grado, cui aggiungeva la condanna del medesimo al pagamento delle spese del giudizio d’appello.

Per la cassazione della sentenza il D.B. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Lo S. ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c..

La sentenza è censurata nella parte in cui la corte di merito ha ritenuto inammissibile l’appello.

Si sostiene che l’impugnazione aveva i requisiti di specificità previsti dalla norma.

Il secondo motivo denuncia ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La sentenza è censurata per avere la corte di merito riconosciuto che la deduzione circa la vendita aliud pro alio fosse una deduzione nuova, mentre essa era stata già introdotta già con l’iniziale citazione.

I motivi, da esaminare congiuntamente, sono inammissibili. Le considerazioni della corte d’appello sono rimaste sulla carta. Essa ha infatti compiutamente esaminato nel merito l’impugnazione, escludendo, parimenti, nel merito la fattispecie della vendita aliud pro alio.

Le censure, quindi, si dirigono contro argomenti privi di incidenza sulla decisione.

Si sa che le argomentazioni ultronee, che non hanno lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni, sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità (Cass. 10420/2005).

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., artt. 112, 2902 e 92 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Si deduce che il giudice di primo grado, pur rigettando la domanda, aveva accertato che il venditore aveva “tenuto una condotta contrastante con gli obblighi a carico dell’alienante”.

In conseguenza di tale accertamento il venditore non si era trovato nella posizione della parte totalmente vittoriosa.

Nonostante tale statuizione non fosse stata impugnata la corte di merito ha riesaminato l’intera vicenda, negando l’inadempimento del venditore, che in esito a tale accertamento ha beneficiato della condanna alle spese del giudizio di primo grado, che erano state correttamente compensate dal primo giudice.

Il motivo è infondato.

In materia di procedimento civile, il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare diretto riferimento all’esito finale della lite, sicchè è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta (Cass. n. 17351/2010).

A sua volta la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cass. n. 22381/2009; n. 21684/2013; n. 10113/2018).

La decisione impugnata è in linea con tali principi.

L’attuale ricorrente aveva proposto una domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale e tale domanda è stata interamente rigettata. Il riscontro di singoli profili di inadempimento, in quanto non sfociato nell’accoglimento neanche circoscritto della pretesa, lasciava la parte che aveva proposto la domanda di danno nella posizione della parte totalmente soccombente in relazione all’esito complessivo della lite.

Il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 1218,1223,1226, e 2697 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c..

In conseguenza della mancata consegna del certificato di agibilità ne rimaneva pregiudicata la commerciabilità dell’immobile, essendo pertanto il danno in re ipsa.

Era perciò il venditore a dover fornire la prova che sussistevano i requisiti per ottenerne il rilascio e in ogni caso che la mancanza del certificato non aveva pregiudicato l’utilizzazione dell’immobile.

Si evidenzia che, ai fini della liquidazione, la corte avrebbe ben potuto utilizzare quale parametro il valore locativo dell’immobile.

In ogni caso dovevano essere liquidati i costi occorrenti per il rilascio del certificato di abitabilità. Solo per verificare che la documentazione non era stata rilasciata l’attuale ricorrente aveva sostenuto i costi indicati nelle prime tre voci della fattura D.R..

Il motivo è infondato.

Intanto deve chiarirsi, in linea di principio, che nel nostro ordinamento non esistono danni in re ipsa (Cass., S.U., n. 26972/2008), nè tanto meno il compratore, in caso di mancata consegna del certificato, può chiedere il risarcimento del danno commisurato all’importo dei canoni di locazione perduti, “atteso che il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d’uso di un bene immobile o alla sua abitabilità non è in sè di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio” (Cass. n. 12226/2018).

Ma di là di tale rilievi deve rimarcarsi che la corte ha più volte posto l’accento sulla radicale ristrutturazione dell’immobile operata dal compratore, volendo con ciò evidentemente lasciare intendere che la stessa radicale ristrutturazione avrebbe reso obbligatoria una nuova valutazione dell’agibilità e conseguente presentazione di nuovo titolo abilitativo (cfr. il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 24, che al comma 2, lett. c) richiede attestazione di agibilità per “interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di cui al comma 1”, cioè sulla “sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità”; L.P. n. 1 del 2008, art. 103 bis, comma 2, lett. b)).

Si legge testualmente a pag. 9 della sentenza impugnata che “il D.B. iniziò la ristrutturazione appena due mesi dopo l’acquisto, con i riflessi sulla medesima certificazione già considerati, sicchè la strumentalità, oltre che infondatezza della domanda si palesa evidente”.

E’ chiaro pertanto, sotto la veste della violazione del criterio di riparto dell’onere della prova, la censura è intesa in definitiva a censurare la ricostruzione in fatto compiuta dalla corte d’appello, là dove è stata negata l’esistenza della prova del danno.

A maggior ragione le considerazioni che precedono valgono in ordine alle censure riguardanti la fattura rilascia dal professionista, essendo evidente che per questa parte la critica contenuta nel ricorso, lungi dall’evidenziare vizi della sentenza deducibili in cassazione, sollecita in definitiva il giudice di legittimità a compiere una rivisitazione del documento in senso favorevole alla tesi difensiva della ricorrente.

Il ricorso, in conclusione, va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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