Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32227 del 13/12/2018

Cassazione civile sez. III, 13/12/2018, (ud. 17/10/2018, dep. 13/12/2018), n.32227

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6698-2017 proposto da:

O.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.P. DA

PALESTRINA N. 47, presso lo studio dell’avv. FRANCESCO CARDARELLI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALFREDO ZAZA D’AUSILIO giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DIFESA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato IN ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende per

legge;

– controricorrente –

e contro

COMANDO AUTONOMO DELLA SARDEGNA, COMANDO RFC REGIONALE SARDEGNA,

COMANDO AUTONOMO DELLA SARDEGNA, COMANDO REGIONALE SARDEGNA UFFICIO

ADDESTRAMENTO, (OMISSIS) REPARTO INFRASTRUTTURE UFFICIO DEMANIO E

SERVITU’ MILITARI SEZ DEMANIO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5194/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/10/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Fatto

RILEVATO

che:

O.G. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma il Ministero della Difesa, il Comando Militare Autonomo della Sardegna ed il (OMISSIS) Reparto Infrastrutture – Ufficio Demanio e Servitù Militari chiedendo la condanna al pagamento degli indennizzi previsti dalla L. n. 898 del 1976, artt. 7 e 15 in relazione ai divieti di accesso e pesca disposti per esercitazioni militari dal Comando Militare Autonomo della Sardegna per gli anni 2003 e 2004, introducendo ex novo il giudizio civile (e non in riassunzione di quello proposto innanzi al giudice amministrativo) dopo che il T.A.R. Lazio aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose appello l’ O.. Con sentenza di data 5 settembre 2016 la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale, premesso che l’assenza di discrezionalità dell’Amministrazione nell’erogazione degli indennizzi in questione non poteva essere desunta da un preteso (ma inesistente) giudicato interno basato su un generico incidenter tantum contenuto nella sentenza del T.A.R., che il possesso dei requisiti previsti dalla normativa di riferimento era condizione essenziale ma non sufficiente ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, dovendo l’operatore provare l’esistenza del pregiudizio economico ed il nesso di causalità fra il detto pregiudizio ed i provvedimenti interdittivi adottati dall’Amministrazione e che tale onere probatorio non risultava assolto. Aggiunse che dalla documentazione in atti emergeva che negli anni in questione l’appellante non aveva cessato la propria attività in mare, che si era svolta comunque in località distante da quella interessata dal divieto di accesso e pesca, e che non vi era prova che il dirottamento dell’attività di pesca in acque diverse fosse da attribuire ai divieti in considerazione e non ad autonome scelte imprenditoriali.

Ha proposto ricorso per cassazione O.G. sulla base di tre motivi e resiste con controricorso il Ministero della Difesa. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che l’accertamento di assenza di discrezionalità da parte del giudice amministrativo non costituiva un mero obiter dictum ma statuizione di merito, non funzionale solo all’attribuzione della giurisdizione, ma anche, in quanto statuizione di merito, condizionante la decisione della controversia.

Il motivo è inammissibile, sotto un duplice profilo. In primo luogo non risulta assolto l’onere processuale di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non avendo il ricorrente indicato lo specifico contenuto della sentenza del giudice amministrativo in modo da apprezzare se contenesse una statuizione di merito. In secondo luogo va evidenziato che la censura attiene ad un argomento motivazionale estraneo alla ratio decidendi, la quale è riposta nel rilievo di mancanza di prova dei presupposti del riconoscimento dell’indennizzo. Il giudice di appello si è infatti limitato a rilevare che l’assenza di discrezionalità dell’Amministrazione non poteva essere desunta in funzione di giudicato dalla sentenza del T.A.R., ma ha poi svolto la ratio decidendi in modo indipendente da tale rilievo, avendo disatteso l’impugnazione per la evidenziata mancanza di prova.

E’ appena il caso di rammentare comunque che le sentenze dei giudici ordinari di merito, o dei giudici amministrativi, che statuiscano sulla sola giurisdizione – diversamente da quelle delle sezioni unite della Suprema Corte, alla quale, per la funzione istituzionale di organo regolatore della giurisdizione, spetta il potere di adottare decisioni dotate di efficacia esterna -, non sono idonee ad acquistare autorità di cosa giudicata in senso sostanziale ed a spiegare, perciò, effetti al di fuori del processo nel quale siano state rese, salvo che la decisione, sia pur implicita, sulla giurisdizione si rapporti con una statuizione di merito (fra le altre Cass. Sez. U. n. 15208/2015).

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1976, artt. 7 e 15 e del protocollo d’intesa tra il Ministero della Difesa e la Regione Sardegna del 9 agosto 1999 – 27 luglio 2000, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che la L. n. 898 del 1976, art. 15 distinguendo fra indennizzi e danni, prevede l’obbligo di corresponsione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione e che il riferimento alle “cautele” nel protocollo d’intesa tra il Ministero della Difesa e la Regione Sardegna attiene al rigoroso accertamento dei requisiti previsti (sede dell’impresa e iscrizione dell’imbarcazione presso il compartimento marittimo interessato) senza aggiunta di alcun quid pluris rispetto ai criteri prefissati.

Il motivo è infondato.

Prevede la L. n. 898 del 1976, art. 15 applicabile ratione temporis (la legge è stata abrogata dal D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art. 2268, comma 1), fra l’altro che “per il tempo strettamente necessario allo svolgimento di esercitazioni, il comandante territoriale può disporre, per motivi di pubblica incolumità, lo sgombero e l’occupazione di immobili ed il divieto di accedervi, lo sgombero di specchi d’acqua e imporre limitazioni alla circolazione stradale…. Al pagamento degli indennizzi per gli sgomberi e le occupazioni di immobili nonchè per eventuali danni si provvede con le modalità previste dall’art. 7, comma 7. La misura dell’indennizzo per i lavoratori dipendenti è pari al salario corrente; per i lavoratori autonomi è rapportata alla retribuzione spettante ai lavoratori dipendenti con qualifica o specializzazione corrispondente o affine”. L’art. 7, u.c. prevede che “per il pagamento degli indennizzi previsti dal presente articolo si provvede mediante aperture di credito disposte a favore dei sindaci dei comuni nel cui territorio insistono le aree ammesse all’indennizzo, secondo le norme sulla contabilità generale dello Stato”.

La norma distingue chiaramente “indennizzi” ed “eventuali danni”. La necessità di differenziare la nozione di indennizzo da quella di danno impone di inquadrare il primo nel principio indennitario in senso stretto, a sua volta espressione del principio pubblicistico di giustizia distributiva, per il quale non è consentito soddisfare l’interesse generale attraverso il sacrificio del singolo, senza che quest’ultimo sia indennizzato. L’indennizzo, presupponendo un’attività lecita della P.A., in perseguimento dei fini della collettività, si distingue dal risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., il quale presuppone il fatto doloso o colposo della stessa P.A.. La distinzione fra indennizzo e danno è limitata al collegamento del primo all’attività lecita e del secondo al fatto illecito. Anche l’indennizzo, alla stessa stregua del risarcimento del danno, ha la funzione compensativa di un pregiudizio e presuppone quindi il verificarsi di un sacrificio del singolo, sia pure per una finalità d’interesse generale e non in forza di un fatto illecito. Il richiamo all'”eventualità” del danno nella disposizione non vale pertanto ad introdurre un principio di automaticità dell’indennizzo, senza il previo accertamento di un pregiudizio che sia derivato dall’attività lecita dell’Amministrazione. L’eventualità del danno rinvia al carattere straordinario del pregiudizio rispetto a quello ordinariamente derivante dallo sgombero dello specchio d’acqua ed alla sua riconducibilità ad una condotta illecita estranea allo sgombero ma che tuttavia, anche solo indirettamente, è a quest’ultimo ricollegabile. Proprio il collegamento dell’indennizzo al pregiudizio che ordinariamente deriva dallo sgombero dello specchio d’acqua giustifica la predeterminazione dei suoi criteri di liquidazione, che la norma identifica per i lavoratori dipendenti nel salario corrente, per i lavoratori autonomi nella retribuzione spettante ai lavoratori dipendenti con qualifica o specializzazione corrispondente o affine (peraltro l’ultimo comma dell’art. 7 si limita a disciplinare il pagamento degli indennizzi, mentre per i danni non può non farsi riferimento alle norme ordinarie).

L’avere pertanto da parte del giudice di appello preteso la prova dell’esistenza del pregiudizio economico e del nesso di causalità fra il detto pregiudizio ed i provvedimenti interdittivi adottati dall’Amministrazione non ha comportato una confusione di indennizzo e danno, i quali, come si è detto, si distinguono non per l’automaticità del primo, scevro di accertamenti in ordine all’effettività del pregiudizio, e la necessità di prova dei relativi presupposti con riferimento al secondo, ma per la natura lecita o illecita dell’attività che ne è alla base. Anche l’indennizzo richiede in conclusione la prova del pregiudizio e del nesso causale con l’attività lecita dell’Amministrazione: deve quindi essere data prova del sacrificio del singolo sopportato in conseguenza dell’attività lecita dell’Amministrazione.

Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, osserva il ricorrente in via subordinata che ove il giudice ordinario ritenga che sussista la presenza di discrezionalità nell’an deve declinare la propria giurisdizione e che, non costituendo il giudizio riassunzione di quello introdotto innanzi al T.A.R., la sentenza emessa da quest’ultimo non è vincolante.

Il motivo è inammissibile. La censura non intercetta la ratio decidendi perchè il giudice di merito non ha identificato un ambito di discrezionalità dell’Amministrazione in ordine all’an, ma ha solo escluso che fosse provato il pregiudizio economico ed il nesso eziologico con l’attività dell’Amministrazione, e cioè la ricorrenza dei presupposti di fatto della fattispecie normativa. Per il resto va rammentato che il giudicato interno sulla giurisdizione si forma tutte le volte in cui il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando anche implicitamente la propria giurisdizione, e le parti abbiano prestato acquiescenza a tale statuizione, non impugnando la sentenza sotto questo profilo (fra le tante da ultimo Cass. Sez. U. 27 aprile 2018, n. 10265).

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, che ha aggiunto il comma 1 – quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018

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