Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3221 del 07/02/2017


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Cassazione civile, sez. II, 07/02/2017, (ud. 11/10/2016, dep.07/02/2017),  n. 3221

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso 22189/2015 proposto da:

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, V. GIOVANNI

CASELLI 39, presso lo studio dell’avvocato CATERINA GIGANTE,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MARIA GIACOMO SCHIVONI;

– ricorrente –

contro

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI

CASELLI 39, presso lo studio dell’avvocato CATERINA GIGANTE,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MARIA GIACOMO

SCHIAVONI;

– controricorrente –

G.P., L.E.A., P.M.,

M.S., CONDOMINIO (OMISSIS) elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

QUINTINO SELLA 41, presso lo studio dell’avvocato PAOLA AMBRUOSI,

rappresentati e difesi dall’avvocato UMBERTO CONTI;

– ricorrenti e controricorrenti incidentali –

contro

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI

CASELLI 39, presso lo studio dell’avvocato CATERINA GIGANTE,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MARIA GIACOMO

SCHIAVONI;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 920/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 17/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2016 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito l’Avvocato ANTONIO MARIA GIACOMO SCHIAVONI, difensore del

ricorrente che si riporta gli atti depositati e chiede

l’accoglimento del ricorso principale, rigetto ricorso incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento 1-2 motivo del

ricorso principale, assorbiti i restanti motivi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 5 ottobre 1992, il Condominio dello stabile di via (OMISSIS), lotti (OMISSIS), di (OMISSIS), denominato “(OMISSIS)”, costituito da due edifici per civile abitazione con sottostante zona adibita a parcheggio, conveniva dinanzi al tribunale di Bari il costruttore del fabbricato, signor A.M., lamentando come costui avesse modificato talune porzioni immobiliari ad uso non abitativo rimaste in sua proprietà – e precisamente dieci piccole cantine (o “cantinole”) al piano seminterrato e due volumi tecnici sul lastrico solare – trasformandole in appartamentini ammobiliati, corredati da servizi igienici collegati all’impianto idrico e fognario del complesso condominiale; il Condominio chiedeva, quindi, che l’ A. fosse condannato alla demolizione delle opere abusivamente eseguite e, in subordine, che gli fosse vietato di adibire ad abitazione i menzionati locali scantinati e volumi tecnici, con condanna del medesimo convenuto al risarcimento dei danni conseguenti all’uso illegittimo di detti locali.

Si costituiva l’ A. contestando le domande e chiedendone il rigetto. Espletata una consulenza tecnica d’ufficio, l’adito tribunale, con sentenza depositata il 9 agosto 2000, accoglieva la domanda subordinata del Condominio e, per l’effetto, inibiva all’ A. di destinare le dieci cantinette interrate e i due volumi tecnici insistenti sul lastrico solare ad uso diverso da quello proprio di deposito, quanto alle prime, e di sede per impianti di interesse generale, quanto ai secondi; il tribunale inoltre condannava l’ A. al risarcimento dei danni, liquidati in Lire 800.000, oltre accessori.

Deceduto l’ A., ed avendo i suoi eredi rinunciato all’eredità, veniva nominato un curatore dell’eredità giacente, il quale appellava la sentenza del tribunale. Nel giudizio di secondo grado si costituiva il Condominio ed intervenivano adesivamente i condomini M.S., L.A.E., P.M., G.P..

La corte d’appello di Bari, con la sentenza n. 656/08, rigettava il gravame. Per quanto ancora rileva, la corte territoriale – premesso che la concessione in sanatoria ottenuta dall’ A. concerneva solo il rapporto con la pubblica amministrazione e quindi era ininfluente nel rapporto fra í condomini, nel quale trovavano applicazione le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali in materia di edilizia – argomentava che il cambio di destinazione delle dieci cantinette e dei due vani insistenti sul lastrico solare contrastava con le disposizioni del regolamento condominiale di natura contrattuale e, per altro verso, aggravava le servitù a carico degli impianti condominiali.

Avverso tale sentenza la Curatela dell’eredità giacente di A.M. ricorreva per cassazione e questa Corte, con la sentenza n. 16119/12, accoglieva il secondo ed il terzo mezzo di gravame (rigettando il primo e dichiarando assorbito il quarto) e annullava con rinvio la sentenza impugnata. La Cassazione affermava che – pacifico essendo che nessuna disposizione del regolamento condominiale vietava espressamente la destinazione ad uso abitativo dei locali ubicati nel piano interrato e dei volumi tecnici collocati sul lastrico solare – la corte d’appello avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali dal regolamento condominiale potesse desumersi tale divieto. In proposito, nella sentenza di questa Corte n. 16119/12 si sviluppa la seguente argomentazione, che pare opportuno trascrivere – “In tale situazione regolamentare, dunque, la Corte d’appello, lungi dal potersi limitare ad una mera elencazione di disposizioni regolamentari, avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali dal regolamento condominiale potesse desumersi il divieto di mutamento di destinazione delle cantinole e dei volumi tecnici sul lastrico solare. Ciò tanto più sarebbe stato necessario in presenza di una disposizione regolamentare, quale quella di cui all’art. 13, che, sotto la rubrica Osservanze, divieti e limitazioni, individua specifici divieti di mutamenti di destinazione sia per gli appartamenti che per il locale seminterrato stabilendo che: E’ vietato ai Condomini ed eventuali locatori: a) di destinare gli appartamenti ad uso di laboratorio, officine di qualsiasi azienda industriale o commerciale, anche se artigiana, di ambulatori o gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, casa di salute di qualsiasi specie, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo, ed in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità del Condominio e sia contrario all’igiene, alla decenza, o a buon nome del fabbricato; b) di destinare il locale seminterrato o anche parte di esso ad industrie rumorose o emananti esalazioni sgradevoli o nocive, ad opifici e stabilimenti In funzionamento notturno, a deposito di polveri piriche o di altri materiali facilmente infiammabili e comunque a qualsiasi destinazione che turbi il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti.

La Corte d’appello avrebbe quindi dovuto specificare le ragioni in base alle quali la disposizione relativa al locale seminterrato poteva ritenersi significativa nel senso del divieto di mutamento di destinazione dello stesso ad abitazione, espressamente non contemplato, e non dovesse piuttosto essere interpretata in un senso non preclusivo di un siffatto mutamento di destinazione, secondo un canone ermeneutico restrittivo che, come prima ricordato, deve ispirare l’interprete in considerazione della diretta incidenza delle norme regolamentari sul diritto di proprietà esclusiva dei singoli condomini interessati. Ed ancora, la Corte d’appello avrebbe dovuto chiarire se la destinazione in concreto data al locale seminterrato e ai volumi tecnici integrasse una destinazione idonea a turbare il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti, ovvero ancora se una siffatta destinazione potesse turbare la tranquillità del Condominio o fosse contraria all’igiene, alla decenza e al buon nome del fabbricato. Ma tali valutazioni sono del tutto assenti nella sentenza impugnata, non potendosi ritenere che le stesse siano state assorbite dal riferimento alla violazione della norma regolamentare in tema di servitù, attesa la non pertinenza della stessa rispetto alla questione oggetto del giudizio.

La Corte d’appello avrebbe inoltre dovuto illustrare le ragioni per le quali dalle singole norme richiamate in motivazione, quand’anche esaminate nel loro complesso e le une per mezzo delle altre, si poteva pervenire alla conclusione della esistenza, nel regolamento condominiale, del divieto di mutamento di destinazione dei locali di proprietà esclusiva dell’ A. in abitazioni”.

Riassunto il giudizio in sede di rinvio, la medesima corte di appello di Bari confermava, con la sentenza n. 920/15, il rigetto dell’appello avverso la sentenza di prime cure.

La corte distrettuale ha argomentato, in sostanza, che:

a) Le “cantinole” ed i volumi tecnici adibiti ad abitazione non avevano ottenuto – nè, per le loro caratteristiche, avrebbero potuto ottenere – la certificazione di abitabilità di cui all’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie, vigente all’epoca dei fatti e successivamente sostituito dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 24. In proposito la corte barese evidenzia, sulla scorta dei rilievi del consulente tecnico di ufficio, come tali unità immobiliari difettino dei requisiti fissati dal D.M. 5 luglio 1975, in ordine alle caratteristiche dimensionali e, quanto alle cantinette, in ordine alla presenza di finestre apribili. Nella sentenza gravata si argomenta altresì che il mancato rilascio del certificato di abitabilità non risulta superato dal rilascio della concessione in sanatoria, giacchè tale concessione consentirebbe di derogare solo ai requisiti abitabilità o agibilità fissati da norme regolamentari e non, quindi, al requisito della salubrità fissato dall’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie.

b) Il pregiudizio per l’igiene dei singoli appartamenti si rifletterebbe inevitabilmente, negativamente, sul profilo dell’igiene dell’intero condominio, determinando il peggioramento delle condizioni di igiene e salubrità dello stabile, per il maggior carico umano imprevisto e per il sovraccarico, fra l’altro, dell’impianto fognario.

Avverso tale sentenza la Curatela dell’eredità A. propone ricorso per cassazione su sette motivi.

Il condominio ha resistito con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale condizionato su un motivo.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 11.10.16, per la quale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo mezzo di gravame la ricorrente principale denuncia la violazione degli artt. 832, 1122, 1138, 1027, 1350, 1362 e 1363 c.c., e dell’art. 384 c.p.c., e art. 42 Cost., oltre che il vizio di omesso esame di fatto decisivo per il giudizio e di omessa insufficiente illogica motivazione, in cui la corte territoriale sarebbe incorsa trascurando di valutare, come richiesto dalla Corte di cassazione, l’argomento interpretativo emergente dall’art. 13, lett. b), del regolamento condominiale, laddove si vietano specificamente determinate destinazioni dei vani interrati senza che tra le destinazioni vietate rientri quella abitativa.

Il motivo va disatteso perchè – se è vero che la corte distrettuale non ha specificamente esaminato il tema di indagine, indicato da questa Corte nella sentenza n. 16119/12, concernente l’esegesi testuale dell’art. 13 del regolamento condominiale, lett. b), – tale omissione risulta tuttavia irrilevante in quanto la ratio decidendi della sentenza gravata sì fonda sull’argomento (con cui il giudice di rinvio ha risposto all’altra questione pure indicata in detta sentenza) che la destinazione abitativa delle unità immobiliari in questione violava il disposto della lettera a) del medesimo articolo 13, in quanto era contraria all’igiene, alla decenza e al buon nome del fabbricato.

Con il secondo mezzo di gravame la ricorrente principale denuncia la violazione degli artt. 832, 1122, 1138, 1027, 1350, 1362 e 1363 c.c., dell’art. 384 c.p.c., e art. 42 Cost., e dell’art. 2697 c.c., e artt. 112 e 115 c.p.c..

Il mezzo si articola in una duplice censura.

Sotto un primo profilo si lamenta che la corte distrettuale abbia preso in considerazione, per affermare l’esistenza di un divieto del regolamento condominiale al conferimento di destinazione abitativa alle unità immobiliari in questione, il requisito dell’igiene. In proposito si argomenta che tale requisito è menzionato nell’art. 13, del regolamento con riferimento alla destinazione degli appartamenti, nella lettera a) di detto articolo, ma non con riferimento al locale seminterrato – e quindi alle c.d. “cantinole”: la cui destinazione è regolato dalla lettera b) del medesimo articolo. L’argomento non può trovare accoglimento perchè il riferimento al requisito dell’igiene era contenuto nella stessa sentenza della Corte di cassazione n. 16119/12, al cui dictum il giudice di rinvio era vincolato.

Sotto un secondo profilo la ricorrente evidenzia come nell’art. 13 del regolamento condominiale, lett. a), l’uso dell’espressione “appartamenti” manifesti una valutazione di liceità intrinseca della destinazione abitativa, cosicchè il riferimento di tale disposizione a “qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità del Condominio e sia contrario all’igiene, alla decenza, o a buon nome del fabbricato” andrebbe letto come riferito “qualsiasi altro uso non abitativo” La censura va disattesa perchè attinge l’interpretazione del regolamento condominiale operata dal giudice territoriale senza, tuttavia, individuare specifiche violazioni delle regole legali di ermeneutica contrattuale (del tutto generiche appaiono, al riguardo, le doglianze che si leggono alla fine del primo capoverso di pagina 33 del ricorso, secondo cui l’interpretazione della corte distrettuale sarebbe stata “libera e spregiudicata”, non avrebbe tenuto conto dei “canoni restrittivi che devono guidare l’interpretazione e l’individuazione per via indiretta degli ipotetici divieti” e non si sarebbe attestata “sul dato letterale della disposizione”).

Con il terzo motivo di ricorso la Curatela dell’eredità A. denuncia la violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 133, comma 1, lett. f), e dell’art. 1 c.p.c.. Secondo la ricorrente la corte territoriale sarebbe incorsa nella violazione delle richiamate disposizioni con l’assumere che per le unità immobiliari in discorso non sarebbe stato possibile il rilascio della certificazione di abitabilità; con tale affermazione, si argomenta, la corte territoriale avrebbe debordato dalla propria competenza giurisdizionale, sostituendosi alla pubblica amministrazione – e, in ipotesi, al giudice amministrativo – nella valutazione dei presupposti per il rilascio del certificato di abitabilità.

La censura va disattesa, perchè la corte distrettuale non ha valutato la legittimità di alcun provvedimento della pubblica amministrazione avente ad oggetto la certificazione, o il diniego di certificazione, dell’abitabilità delle unità immobiliari in questione, ma ha operato una valutazione della conformità di tali unità immobiliari ai requisiti previsti dal R.D. n. 1265 del 1934, art. 121, (T.U. delle leggi sanitarie) al solo fine di stabilire se le medesime potessero considerarsi salubri o insalubri, traendo poi, dalla valutazione negativa al riguardo espressa sulla scorta delle risultanze peritali, la conclusione che la destinazione abitativa di tali immobili dovesse ritenersi preclusa dall’art. 13 del regolamento condominiale. Non ricorrono quindi i denunciati vizi di violazione di legge.

Con il quarto motivo la Curatela ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 832, 1122, 1138, 1027, 1350 e 1362 c.c. e segg., e art. 2697 c.c., dell’art. 42 Cost., e del R.D. n. 1265 del 1934, artt. 221 e 222, nonchè del decreto ministeriale 5/7/1975, in cui la corte distrettuale sarebbe incorsa ravvisando una violazione del divieto di adibire gli immobili ad usi contrastanti con l’igiene, contenuto dell’art. 13 del regolamento condominiale, nella mera circostanza della non conformità delle unità immobiliari in questione (e, in particolare, delle “cantinole”, in quanto prive di finestre apribili) ai requisiti fissati per il rilascio del certificato di abitabilità.

Secondo la ricorrente la corte d’appello avrebbe errato nel ritenere sussistente un contrasto tra le esigenze dell’igiene del fabbricato e la destinazione ad uso abitativo delle unità immobiliari in questione sulla base di considerazioni meramente astratte, prescindenti da qualunque accertamento della concreta situazione dell’edificio. In proposito la Curatela dell’eredità A. sottolinea come l’ipotetica insalubrità delle “cantinole”, derivante dalla mancanza di finestre apribili, potrebbe risultare pregiudizievole solo a coloro che nelle stesse vivono e non sarebbe di per sè contrastante con l’igiene complessiva del fabbricato, giacchè quest’ultima potrebbe semmai essere pregiudicata, in astratto, dai comportamenti personali e dalle attività degli abitanti di dette unità immobiliari, non dalle caratteristiche costruttive delle stesse. Sotto altro profilo, nel mezzo di gravame si argomenta come risultino fuori luogo i riferimenti della corte distrettuale al rapporto tra la superficie delle unità immobiliari ed il numero degli abitanti delle stesse giacchè, per un verso, da nessuna emergenza processuale risultava quali fosse il numero degli occupanti delle unità immobiliari in questione e, per altro verso, l’eventuale superamento del rapporto all’uopo fissato dalla legge facoltizzerebbe la pubblica amministrazione a disporne lo sgombero, ma non impedirebbe la certificazione di abitabilità.

Il motivo è fondato. La corte barese argomenta, in primo luogo, che le “cantinole”, in quanto interrate, sarebbero prive di finestre e, in secondo luogo, che tutte le unità immobiliari in questione, ossia le cantinole e gli appartamentini sul lastrico, risulterebbero difformi dalle prescrizioni del D.M. 5 luglio 1975, sotto il “profilo concernente il numero massimo di abitanti”.

L’affermazione della corte territoriale secondo cui il mancato rispetto dei requisiti fissati dal D.M. 5 luglio 1975, implicherebbe non solo l’insalubrità delle unità immobiliari in questione, ma anche un pregiudizio per l’igiene dell’intero fabbricato, contiene effettivamente un salto logico, in quanto sovrappone la nozione di salubrità di una unità immobiliare con la nozione, che è quella rilevante ai fini dell’articolo 13 del regolamento condominiale, di contrarietà all’igiene dell’attività a cui l’unità immobiliare venga destinata (si veda l’elenco esemplificativo di tali attività contenuto nel detto articolo 13: “laboratorio, officine…, ambulatori o gabinetti…, casa di salute…, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo”).

Il quinto motivo è riferito alla violazione e falsa applicazione degli artt. 832, 1122, 1138, 1027 e 1350 c.c., dell’art. 42 Cost., del R.D. n. 1265 del 1934, artt. 221 e 222, e del D.M. 5 luglio 1975, nonchè al vizio di omesso esame di fatto decisivo e controverso ed al vizio di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili della motivazione. Con tale motivo la ricorrente denucia:

a) la contraddittorietà della sentenza gravata laddove essa, da un lato, afferma che le “cantinole” sarebbero prive di finestre e, d’altro lato, riporta l’affermazione della c.t.u. secondo cui le stesse avrebbero accesso da un terrazzo pertinenziale (così necessariamente risultando dotate di una portafinestra);

b) l’omesso esame del fatto, risultante dalla c.t.u., che la superficie di tutti gli appartamenti variava tra 20 e 30 metri quadri;

c) l’omessa distinzione tra “le cantinole” e gli appartamenti sul lastrico.

Il sesto motivo è riferito alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., degli artt. 832, 1122, 1138, 1027 e 1350 c.c., e dell’art. 42 Cost., nonchè al vizio di omesso esame di fatto decisivo e controverso ed al vizio di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili della motivazione. La ricorrente lamenta che la corte abbia tratto da un fatto ignoto ed in realtà presunto (l’idoneità delle unità immobiliari a pregiudicare l’igiene degli abitanti) la presunzione di un’ulteriore fatto ignoto (l’idoneità delle unità immobiliari a pregiudicare l’igiene del fabbricato condominiale).

Il settimo motivo è riferito alla violazione e falsa applicazione degli artt. 832, 1122, 1138, 1027, 1350, 1362 c.c. e segg., e art. 2697 c.c., dell’art. 42 Cost., e degli artt. 394, 112 115 c.p.c.. La ricorrente denuncia l’errore in cui la corte distrettuale sarebbe incorsa facendo riferimento al maggior carico umano ed al maggior carico dell’impianto fognario.

Il quinto, il sesto ed il settimo motivo del ricorso principale devono ritenersi assorbiti dall’accoglimento del quarto.

L’accoglimento del quarto mezzo del ricorso principale impone l’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale condizionato dei contro ricorrenti.

Con tale motivo contro ricorrenti censurano la sentenza gravata per non avere la stessa rilevato che le unità immobiliari per cui è causa difettavano dei requisiti di luminosità e ventilazione naturale e dei requisiti dimensionali imposti dal D.M. 7 maggio 1975.

Il motivo va disatteso, perchè la questione della corrispondenza delle suddette unità immobiliare alle caratteristiche previste dalla disciplina pubblicistica dell’abitabilità è travolta dall’accoglimento del quarto mezzo del ricorso principale e dal conseguente annullamento della statuizione della corte distrettuale che ha erroneamente collegato alla suddetta disciplina pubblicistica dell’abitabilità la nozione di contrarietà all’igiene del fabbricato di cui all’articolo 13 del regolamento condominiale.

In definitiva il ricorso principale va accolto limitatamente al quarto motivo, con reiezione dei primi tre ed assorbimento degli altri, il ricorso incidentale va rigettato e la sentenza gravata va cassata in parte qua, con rinvio alla corte distrettuale.

PQM

La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso principale, rigettati i primi tre ed assorbiti gli altri, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza gravata e rinvia alla corte d’appello di Bari, altra sezione, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017

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