Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32206 del 10/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 10/12/2019, (ud. 23/10/2019, dep. 10/12/2019), n.32206

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21986/2012 R.G. proposto da:

Società Immobiliare M. s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Ruggero

Stendardi, elettivamente domiciliata presso il suo in Roma, Corso

d’Italia n. 19, giusta procura speciale a margine del ricorso

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania, n. 239/18/2011 depositata il 5 luglio 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2019

dal Consigliere Luigi D’Orazio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott.ssa Immacolata Zeno, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso;

udito l’Avv. Ruggero Stendardi, per la società ricorrente e l’Avv.

Salvatore Foraci per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello proposto dalla Immobiliare M. s.r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che aveva rigettato il ricorso articolato nei confronti dell’avviso di accertamento emesso, con riferimento all’anno 2003, dalla Agenzia delle entrate, che aveva determinato maggiori ricavi dalla vendita di quattro appartamenti, anche sulla scorta del maggiore importo di tre mutui rispetto al prezzo di acquisto di tre dei quattro appartamenti venduti, in quanto il quarto immobile era stato acquistato senza mutuo.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

3. L’Agenzia delle entrate ha depositato un atto di costituzione solo al fine di ricevere l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione o falsa applicazione di norme di diritto – ai sensi della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, – impossibile applicazione retroattiva, nella specie, del D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 23 bis, convertito nella L. n. 248 del 2006, retroattivamente applicabile in virtù di norma (L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265) entrata in vigore dopo la notifica dell’avviso di accertamento impugnato – violazione dell’art. 2697 c.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto per gli atti anteriori al 4-7-2006, il criterio di valutazione degli immobile doveva avvenire, ai sensi della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, sulla base di presunzioni semplici (quindi non con la presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 223 del 2006) gravi, precise e concordanti ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. Pertanto, l’avviso di accertamento è stato emesso in base al criterio del “valore normale”, di cui al D.L. n. 223 del 2006, non applicabile in via retroattiva ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore di tale decreto legge.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta “violazione o falsa applicazione di norme di diritto – D.L. n. 223 del 2006, art. 35, convertito nella L. n. 248 del 2006; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, – nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio – violazione di norme di diritto in tema di ripartizione dell’onere della prova – D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, nonchè art. 2697 c.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, in quanto il criterio del valore normale applicabile ai trasferimenti immobiliari basato sull’entità dei mutui o finanziamenti (stabilito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 23 bis) per gli atti anteriori al 4-7-2006, non aveva valore di presunzione legale relativa, ma solo valore di presunzione semplice, ma a condizione che potesse “ricadere sotto l’imperio della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, entrata in vigore 11-1.2008”. Poichè l’avviso di accertamento è stato notificato prima di tale data (11-2008) tale criterio, relativo al rapporto tra il valore dei mutui e l’importo del valore degli immobili riportato nel contratto, non può valere neppure come presunzione semplice. Tale elemento è del tutto inidoneo ad invertire l’onere della prova, che resta in capo alla Amministrazione. Nella specie, l’Ufficio non ha adempiuto al proprio onere della prova, in assenza di presunzioni legali o semplici. La Commissione regionale ha accollato alla società l’onere della prova contraria a pretese che però erano state tratte solo dal mero raffronto tra entità dei mutui ed entità dei prezzi di compravendita, senza alcun ulteriore supporto probatorio concreto.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 112 c.p.c. – error in procedendo – omessa valutazione sulla applicabilità retroattiva o meno, del c.d. ” valore normale” introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, convertito nella L. n. 248 del 2006 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5″, in quanto la Commissione provinciale aveva ritenuto possibile per l’Amministrazione fare applicazione del D.L. n. 223 del 2006 ai sensi della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, mentre la Commissione regionale ha omesso sul tema ogni valutazione, “ritenendo di poter decidere la controversia semplicemente eludendo tale questione”. Se il giudice di appello avesse ritenuto che l’accertamento non aveva fatto applicazione del criterio del valore normale, avrebbe dovuto applicare i criteri di ripartizione dell’onere della prova, ed avrebbe dovuto dichiarare che tale onere non era stato soddisfatto dall’Ufficio, con annullamento dell’avviso di accertamento. Il giudice di appello ha, invece, ignorato tale questione.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce ” violazione o falsa applicazione di norme di diritto – D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, artt. 40 e 41 bis, dell’art. 2697 c.c., e del D.L. n. 223 del 2006 – mancata prova del valore degli immobili venduti e presi a base per la rettifica del reddito – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″, in quanto l’Agenzia delle entrate non ha dato prova alcuna circa il valore degli immobili, facendo riferimento a fonti generiche, sicchè il giudice di appello, nel confermare la legittimità di tale avviso, ha violato le disposizioni in tema di onere della prova.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 112 c.p.c. – error in procedendo – omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio estraneità della società contribuente al negozio di mutuo e alla destinazione delle relative somme prese a mutuo dagli acquirenti degli immobili – prova impossibile – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5”, in quanto il giudice di appello ha illegittimamente posto a carico della contribuente un onere della prova contraria tendente a dimostrare che le maggiori somme erogate dall’Istituto di credito mutuante avessero finalità diversa da quella del pagamento del prezzo della compravendita. Tuttavia, la società non avrebbe mai potuto dimostrare quali destinazioni, in parte diverse dal pagamento del prezzo di acquisto, avessero avuto le somme erogate dalle banche mutuanti. La società non avrebbe potuto avere accesso ad informazioni del tutto precluse a terzi, rispetto al rapporto di mutuo intercorso solo tra l’acquirente dell’immobile e l’istituto di credito. Peraltro, la società è stata anche sottoposta a verifica bancaria da cui non è emerso alcun alcunchè. Non si è trovato, dunque, alcun elemento ulteriore tale da costituire il requisito della “concordanza” delle presunzioni. L’Ufficio non ha provato la destinazione impressa dai mutuatari a dette somme.

5.1. I motivi primo, secondo, terzo, quarto e quinto, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

5.2. Quanto alle doglianze della ricorrente, si rileva che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 comma 3 (lo stesso principio valeva per il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39), dopo il D.L. n. 223 del 2006, prevedeva che “per le cessioni aventi ad oggetto i beni immobili e relative pertinenze, la prova di cui al precedente periodo s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al comma 2 sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi del presente decreto, art. 14”.

Inoltre, il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 23 bis, convertito in L. n. 248 del 2006, prevedeva che “23-bis. Per i trasferimenti immobiliari soggetti ad IVA finanziati mediante mutui fondiari o finanziamenti bancari, ai fini delle disposizioni di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 3, ultimo periodo, il valore normale non può essere inferiore all’ammontare del mutuo o finanziamento erogato”.

Sussisteva, quindi, una presunzione legale relativa di corrispondenza tra il valore normale dei beni immobili ceduti calcolato ai fini dell’imposta di registro e quello reale.

5.3. Peraltro, la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, in vigore dal 1-1-2008, ha stabilito che le presunzioni legali relative, legate al valore normale, si applicavano soltanto per gli atti formati a decorrere dal 4-7-2006, mentre per gli atti formati anteriormente valevano, agli effetti tributari, come presunzioni semplici.

5.4. Successivamente la legge comunitaria del 2008 (L. n. 88 del 2009, art. 24 comma 5) ha, poi, modificato tale disposizione (sia il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, sia il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54), eliminando le disposizioni introdotte con il D.L. n. 223 del 2006, art. 35, con la conseguente previsione di una presunzione semplice, seppure corroborata dalla gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi. E’ stato così ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006, con la soppressione della presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, sicchè il giudice può desumere l’esistenza di attività non dichiarate anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti (Cass., 12 aprile 2017, n. 9474, in cui si evidenzia l’effetto retroattivo della legge comunitaria).

5.5. Questa Corte, con pronunce, cui si intendere dare seguito, ha affermato, sul punto, che, in seguito alla sostituzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 3, conv., con modif., dalla L. n. 248 del 2006) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi (così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”), l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass. Civ., 12 aprile 2017, n. 9474; Cass. Civ., 32287/2018; Cass. Civ., 14388/2017).

5.6. Poichè l’avviso di accertamento attiene all’anno 2003, e quindi ai contratti di compravendita stipulati in quell’anno, non poteva, comunque, trovare applicazione il D.L. n. 223 del 2006, in vigore dal 4-7-2006, stante la natura non retroattiva di tali norme, anche in relazione alla norma di interpretazione autentica contenuta nella L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, in vigore dal 1-1-2008.

5.7. Inoltre, per questa Corte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un’unità immobiliare, l’onere di fornire la prova che l’operazione è parzialmente (quanto al prezzo di vendita) simulata, spetta all’Amministrazione finanziaria, la quale adduca l’esistenza di maggiori ricavi, e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti (non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale), rimanendo a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato (Cass., 9 gennaio 2014, n. 245, che fa riferimento al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 53, che considera “ricavi… i corrispettivi della cessione di beni” e deduce ulteriori elementi indiziari di un prezzo maggiore dal fatto che era un unico atto di compravendita, con una differenza attiva di appena 21 milioni di lire insufficiente a garantire un utile adeguato, il rischio di impresa, il capitale investito e l’attività del titolare).

5.8. Si è anche chiarito che, in tema di imposte sui redditi d’impresa, per la determinazione della plusvalenza realizzata con la vendita di un immobile, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, occorre avere riguardo alla differenza fra il prezzo di cessione e quello di acquisto, e non, come per l’imposta di registro, al valore di mercato del bene, essendo i principi relativi alla determinazione del valore di un bene, che viene trasferito, diversi a seconda dell’imposta da applicare. Ne consegue che, in presenza di contabilità formalmente regolare, per procedere all’accertamento previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), le valutazioni effettuate dall’UTE non sono sufficienti per giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili, ma possono essere vagliate nel contesto della situazione contabile ed economica dell’impresa, e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive gravi, precise e concordanti (quali l’assoluta sproporzione tra corrispettivo dichiarato e il valore di mercato dell’immobile), costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare (Cass., 12 novembre 2014, n. 24054, per la quale ciò che rileva, ai fini della determinazione del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54, non è il valore venale del bene, come accade per l’imposta di registro, ma unicamente il prezzo di vendita pattuito).

5.10. Quanto al merito della controversia, questa Corte ha ritenuto che, a fondamento dell’accertamento da parte dell’Agenzia, è sufficiente anche il semplice scostamento tra l’importo del mutuo erogato ed il prezzo dichiarato nel contratto di compravendita, in quanto anche un solo fatto, se presenta i caratteri della gravità e della precisione, può essere idoneo a costituire la fonte della presunzione (Cass., 26485/2016; Cass., 9 giugno 2017, n. 14388).

Nè la circostanza che l’avviso di accertamento sia stato notificato prima dell’entrata in vigore dell’art. 1 comma 265 della L. 244/07, entrata in vigore l’1-1-2008, può far ritenere che l’elemento costituito dal divario tra l’importo dei mutui ed il valore degli immobili indicati nei rogiti, non possa essere utilizzato, per gli atti stipulati prima del 4-7-2006, neppure come presunzione semplice. In realtà, la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, ha stabilito che le presunzioni legali relative, legate al valore normale (quindi compresa quella relativa al divario tra il valore dei mutui e quello degli immobili acquistati), si applicavano soltanto per gli atti formati a decorrere dal 4-7-2006, mentre per gli atti formati anteriormente valevano, agli effetti tributari, come presunzioni semplici.

5.11. Pertanto, nella specie, una volta che l’Amministrazione ha fornito la prova, anche attraverso un unico elemento presuntivo, costituito dal divario tra l’importo erogato dall’Istituto di credito mutuante ed il valore dell’immobile dichiarato in sede di contratti di compravendita, grava sulla contribuente l’onere di provare che, in realtà, tale divario è giustificato da altre circostanze di fatto, quali per esempio lavori di ristrutturazione, spese notarili, arredamento, oneri tributari o altro.

Il giudice di appello, su quattro immobili oggetto di compravendita, ha riscontrato in tre casi (in un caso infatti l’acquirente non ha chiesto il mutuo per l’acquisto del bene), la evidente sproporzione tra il valore dell’importo dei mutui erogati ed il valore degli immobili indicati negli atti di compravendita, con una differenza del valore dei finanziamenti di Euro 44.000,00 (prezzo Euro 85.000 e mutuo concesso per Euro 129.000,00), di Euro 34.000,00 e di Euro 40.000,00, per una differenza complessiva di Euro 118.000,00 per i tre appartamenti.

In nessun caso la Commissione regionale ha eluso la questione in ordine alla applicabilità o meno del D.L. n. 223 del 2006, e quindi del valore normale, ai contratti stipulati nel 2003, in quanto, oltre ad indicare nella parte dedicata al “fatto” che l’Ufficio riteneva sussistere le presunzioni semplici, ma non quelle legali di cui al D.L. n. 223 del 2006, ha espressamente ritenuto sussistente il divario, molto consistente, tra importi dei mutui e valore dei beni indicato nei contratti di vendita, proprio considerando tale presunzione come caratterizzata da gravità e precisione, anche se unica.

Deve, poi, tenersi conto anche che l’importo del mutuo erogato dalla banche, in genere, è coperto dal valore dell’immobile sul quale viene iscritta l’ipoteca, per consentire all’istituto di credito, in caso di mancata restituzione delle somme, di recuperale con l’azione esecutiva sull’immobile.

Peraltro, secondo la delib. 22 aprile 1995 del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio “l’ammontare massimo dei finanziamenti di reddito fondiario è pari all’80 per cento del valore dei beni ipotecati. Tale percentuale può essere elevata fino al 100 per cento qualora vengano prestate garanzie integrative”. Analogamente la Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999, Titolo V cap. 1, sez. II, stabilisce che “Le banche possono concedere finanziamenti di credito fondiario per un ammontare massimo pari all’80 per cento del valore dei beni immobili ipotecati”.

La contribuente non ha nè allegato nè dimostrato quali siano state le eventuali ulteriori spese degli acquirenti, tali da giustificare l’erogazione di mutui per importi superiori ai limiti massimi consentiti e, comunque, di gran lunga superiore al valore dei singoli cespiti immobiliari.

Non v’è stata, dunque, alcuna violazione delle regole sul riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2967 c.c.. Dopo che l’Amministrazione ha dimostrato, con presunzioni (unico elemento presuntivo, ma dotato dei caratteri della precisione e della gravità) il maggior valore degli immobili venduti, spettava alla contribuente fornire la prova contraria, non necessariamente con la dimostrazione di maggiori spese affrontate dagli acquirenti, ma con qualsiasi altro elemento di prova, anche presuntivo, dotato dei caratteri della gravità, precisione ed eventualmente della concordanza.

5.12. Nella specie, il giudice di appello ha esaminato con attenzione tutti gli elementi di fatto rilevanti, giungendo ad un convincimento sufficiente argomentato e, quindi, condivisibile.

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione o falsa applicazione di norme di diritto – D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 – motivazione per relationem della sentenza – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello ha redatto una motivazione per relationem alla sentenza di prime cure, senza però prendere in considerazione le censure proposte dalla società avverso la sentenza della Commissione provinciale, quindi solo con un acritico e generico rinvio a tale sentenza.

6.1. Tale motivo è infondato.

Invero, il giudice di appello si è soffermato in modo analitico sul divario tra l’importo dei tre mutui erogati dalle banche ed il valore degli immobili indicato nei contratti di vendita, evidenziando una differenza di valore rispettivamente di Euro 44.000,00, Euro 34.000,00 ed Euro 44.000,00, con individuazione di maggiori ricavi per Euro 118.000,00. Ha, poi, affermato che “è notorio che il mutuo concesso viene contratto per il pagamento del prezzo dell’immobile”, sicchè deve ritenersi giustificato l’operato dell’ufficio che ha ritenuto che tale somma (Euro 118.000) erogata dalle banche era stata utilizzata per il pagamento dell’effettivo prezzo degli immobili. La Commissione regionale, poi, ha affermato che la società non ha fornito la prova contraria che le maggiori somme erogate erano state utilizzate per finalità diverse dal pagamento degli immobili.

La motivazione è, dunque, completa ed autosufficiente, avendo spiegato le ragioni del rigetto dell’appello proposto dalla società.

Solo nella parte finale della motivazione si rinviene un fugace accenno alla motivazione della sentenza di prime cure, inidoneo ad inficiare la motivazione della sentenza di appello, ma rappresentante una mera formula di stile, per confermare la decisione di primo grado.

Nè la ricorrente ha indicato eventuali censure contenute nell’atto di appello, non prese in considerazione dalla Commissione regionale.

7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta “inosservanza della circolare ministeriale n. 18/E/2010 dell’agenzia delle entrate sull’applicazione retroattiva dell’abrogazione del c.d. criterio del valore normale ad opera della L. n. 88 del 2009 – eccesso di potere – violazione di legge – L. n. 88 del 2009, art. 24 e art. 97 Cost. – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello non ha considerato che la circolare della Agenzia delle entrate, nel commentare la portata e gli effetti della legge comunitaria 2008 (L. n. 88 del 2009), art. 24, eliminando la presunzione legale relativa del valore normale, ha rilevato che tale abrogazione vale anche per il periodo anteriore al 4-7-2006, sicchè occorrono più elementi presuntivi, e non solo un elemento, costituito dal divario tra i prezzi praticati nei contratti di compravendita ed i mutui stipulati con gli istituti di credito per l’acquisto degli appartamenti.

7.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la ricorrente contesta alla Commissione regionale di avere violato il disposto di una circolare della Agenzia delle entrate.

Sul punto, si rileva che per questa Corte le circolari della P.A. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi, sicchè la loro violazione non è denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass., 16644/2015).

8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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