Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3220 del 18/02/2016


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3220 Anno 2016
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: MANNA FELICE

SENTENZA
sul ricorso 15507-2014 proposto da:
RIZZO FRANCESCO PAOLO, elettivamente domiciliato in ROMA,
PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8, presso lo studio dell’avvocato
ANTONINO PELLICANO’, che lo rappresenta e difende giusta
procura a margine del ricorso;
– ricorrente –

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
80415740580, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

Data pubblicazione: 18/02/2016

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta
e difende ope legis;
– controticorrente e ricorrente incidentale avverso il decreto n. 1252/2013 della COR1E D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
18/11/2015 dal Consigliere Relatore Dott. FF.LTCE MANNA;
udito l’Avvocato Antonino Pellicanò difensore del ricorrente che ha
chiesto raccoglimento del ricorso.

Ric. 2014 n. 15507 sez. M2 – ud. 18-11-2015
-2-

t

SALERNO, depositato il 03/12/2013;

IN FATTO
Con decreto del 3.12.2013 la Corte d’appello di Salerno rigettava
l’opposizione proposta ex art. 5 ter legge n. 89/01 da Francesco Paolo Rizzo

avverso il decreto 22.4.2013 della stessa Corte, che aveva respinto la

durata irragionevole di un processo amministrativo definito con sentenza del
Consiglio di Stato in data 8.8.2012. A sostegno della decisione, la circostanza
che detta sentenza, non essendo stata notificata, era soggetta al termine
d’impugnazione c.d. lungo, scadente il 15.3.2013, con la conseguenza che il
ricorso per equa riparazione, depositato il 13.3.2013, era stato proposto prima
che la decisioni intervenuta nel processo presupposto fosse divenuta
definitiva.
Per la cassazione di tale decreto Francesco Paolo Rizzo propone ricorso,
affidato a due motivi, cui ha fatto seguito il deposito di memoria.
Il Ministero dell’economia e delle Finanze resiste con controricorso
(nell’epigrafe del controricorso è menzionata anche la proposizione di un
ricorso incidentale, cosa che però non trova riscontro nella restante parte
dell’atto).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli arti. 4
legge n. 89/01, 6, 91 e 92 c.p.a. e il difetto assoluto di motivazione, in
relazione ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c.
Deduce parte ricorrente che ai sensi dell’art. 6, 1° comma c.p.a., il
Consiglio di Stato è organo di ultimo grado della giurisdizione
amministrativa, e che le relative sentenze che decidono la controversia nel
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domanda di equa riparazione che questi aveva avanzato in relazione alla

merito sono definitive in quanto non suscettibili di ulteriori mezzi
d’impugnazione. Infatti, il ricorso per cassazione previsto dall’alt. 110 c.p.a. è
ammesso contro le sentenze del Consiglio di Stato solo per questioni di
giurisdizione scillevate, affrontate e decise nel corso del processo

questione di giurisdizione era stata sollevata nel processo presupposto, la
sentenza del Consiglio di Stato emessa 1’8.8.2012 deve ritenersi definitiva,
non essendo ammesso contro di essa alcun ulteriore mezzo d’impugnazione.
2. – Il secondo motivo d’impugnazione lamenta il vizio assoluto di
motivazione, in relazione al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
La Corte territoriale nel rigettare il secondo motivo d’opposizione — che
lamentava la disparità di trattamento in fattispecie del tutto analoghe — si è
limitata ad affermare che nell’ordinamento non si configura alcuna
disposizione che obblighi il giudice a conformarsi a precedenti
giurisprudenziali, quand’anche riconducibili allo stesso ufficio giudiziario cui
appartiene.
Tale motivazione, sostiene il ricorrente, è puramente formale e non si fa
carico del dovere di rispettare il principio di uguaglianza davanti alla legge,
sancito dall’art. 3 Cost., ovvero quello dello stare decisis.
3. – Il secondo motivo di ricorso, che per la sua pregiudizialità logica va
esaminato con precedenza, non può trovare accoglimento.
In disparte la considerazione che il n. 5 dell’art. 360 c.p.e. veicola l’omesso
esame di un “fatto” (inteso in senso storico o normativo: cfr. Cass. n.
16655/11) controverso e discusso dalle parti e non di un’argomentazione
giuridica (qual è, appunto, quella che invocava a sostegno dell’opposizione
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amministrativo. E poiché, nella specie, è facile riscontrare che nessuna

l’art. 3 Cost. e lo stare decisis rispetto a precedenti del medesimo giudice di
merito); ciò a parte, va osservato che, come di recente affermato da questa
Corte, la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata
direttamente col motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, primo comma,

costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una
norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di
illegittimità costituzionale della norma applicata (Cass. n. 3708/14).
3.1. – Infatti — può aggiungersi — sebbene le norme costituzionali siano
dotate di una precettività propria ed immediata che, sotto il profilo effettuale,
crea il medesimo vincolo d’osservanzn prodotto da qualsiasi altra tipologia di
norme, è la natura stessa del ricorso per cassazione ad escludere che
nell’ambito dell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. possa sussumersi la
violazione (o la falsa applicazione), senz’alcun altro tramite, di articoli della
Costituzione.
Quello di cassazione, infatti, è un giudizio a critica vincolata, delimitato e
vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa
condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi
tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso
deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità
ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri
nelle categorie logiche previste dall’alt. 360 c.p.c. (cfr. Cass. nn. 19959/14,
8585/12 e 18202/08).
In senso contrario non può argomentarsi dall’art. 360-bis, n. 2 c.p.c., che
qualifica inammissibile il ricorso quando è manifestamente infondata la
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n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri

censura relativa alla “violazione dei principi regolatori del giusto processo”.
Detta espressione non integra un nuovo motivo di ricorso accanto a quelli
previsti dall’art. 360, primo comma, c.p.c., in quanto il legislatore ha
unicamente segnato le condizioni per la sua rilevanza mediante l’introduzione

contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi
denunciabili (così Cass. n. 18551/12, che ha ritenuto inammissibile la censura
di violazione dei principi regolatori del giusto processo in relazione
all’obbligo di motivazione e alla garanzia del diritto di difesa anche per il
mancato completamento della prova testimoniale).
Il requisito di tassatività dei motivi esclude che il giudizio critico contenuto
nel provvedimento impugnato possa essere aggredito dal ricorrente attraverso
un generico raffronto con il portato costituzionale, allorché quest’ultimo non
contenga una regola di carattere generale (ad esempio, la ricorribilità per
cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze: art. 111, settimo
comma Cost.), ma esprima un principio informatore di natura valoriale (ad
esempio quello del giusto processo: art. 111, primo comma Cost.).
Prodotta dall’interprete, piuttosto che da una (irreale) precognizione
legislativa, la completezza dell’ordinamento giuridico (e con essa l’obbligo
del giudice di fornire sempre risposta alla domanda) comporta che non vi è
fattispecie, di cui si riconosca il rilievo giuridico, che si sottragga a
regolamentazione. Compito del giudice enucleame la disciplina dal sistema,
ove occorra mediante il ricorso all’analogia (secondo la concezione
positivistica espressa dall’art. 12, cpv. delle preleggi) ovvero tramite il fattore
intrinsecamente creativo proprio dell’agire giurisprudenziale (in base a una
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di uno specifico strumento con funzione di “filtro”, sicché sarebbe

visione più prettamente storicistica del fenomeno, che riconosce nell’analogia
stessa un mezzo d’interpretazione piuttosto che di auto-integrazione
dell’ordinamento).
Il risultato, rispettivamente, dell’applicazione analogica o dell’interpretatio

essendo frutto (anche e soprattutto) di orientamento costituzionale, segna la
distanza tra la norma di legge cosi ricostruita e il parametro primario
utilizzato per ricavarla. Sicché è sempre e soltanto la prima — quale
espressione diretta di ius positum o di elaborazione giurisprudenziale
costituzionalmente orientata — e non già il secondo a regolare la fattispecie e,
quindi, a costituire il riferimento del motivo di cassazione previsto dall’art.
360, n. 3 c.p.c.
La Costituzione, infatti, non è solo Grundnorm presupposta (secondo la
concezione unitaria e gerarchica delle fonti statuali, definitivamente messa in
crisi, peraltro, dal rinnovato pluralismo delle fonti proprio della
postmodernità), ma è anche e soprattutto un documento sui valori opzionati
(una Carta, appunto) che anima l’interpretazione e la creazione normativa,
rifornendo entrambe di una base legittima.
(Né varrebbe obiettare che anche l’interpretwione delle norme
costituzionali è soggetta al criterio — peraltro ormai ampiamente
marginalizzato — dell’art. 12, primo comma preleggi, per poi inferire ai fini in
oggetto una sostanziale equivalenza, appunto, tra Costituzione e legge. Tale
operazione in passato fu validata dalla dottrina costituzionalistica per ragioni
contingenti, cioè solo allo scopo di accreditare il valore giuridico, e non solo

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(nell’intraducibile accezione premoderna del termine, che torna utile evocare),

etico-politico, della Costituzione, così da ricusare la posizione di quanti ne
sostenevano la portata meramente programmatica).
Ipotizzare, invece, come direttamente censurabile e senza alcun tramite
legislativo la violazione (non di una regola ma) di un principio costituzionale,

l’ordinamento processuale vuole a struttura chiusa e a critica vincolata, un
elemento contraddittorio di atipicità, idoneo a veicolare motivi non tassativi
perché non riconducibili ad alcuno dei paradigmi dell’art. 360, primo comma
c.p.c. Un dibattito processuale che, prescindendo da qualsiasi disposizione
espressa o ricostruita in via d’interpretazione sistematica, si affidasse al solo
contenuto valoriale dei principi costituzionali, esigendone l’applicazione non
altrimenti mediata dallo strumento tecnico della legge, attribuirebbe al giudice
un potere di creazione diretta della norma. Il risultato di un tale esercizio, non
legittimato da una sottostante operazione euristico-ermeneutica, sarebbe
viziato da una pura scelta discrezionale, poiché la traduzione di un valore in
norma non è mai a rima obbligata.
3.2. – Può concludersi che mentre davanti al giudice di merito il richiamo
assoluto al principio costituzionale, senza alcun collegamento con una data
norma di legge da interpretare, non produce effetti invalidanti sulla domanda
o sul gravame, pòiché detto giudice è comunque tenuto a ricercare, nei limiti
dell’uno o dell’altro, la soluzione giuridica acconcia al caso sottopostogli,
diversamente accade nel giudizio di cassazione. Quest’ultimo, consistendo in
un controllo di sola legittimità sul provvedimento impugnato, esige che il
ricorrente individui la norma di legge violata o falsamente applicata. Non
solo, ma occorre, a pena d’inammissibilità, che la censura indichi le
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equivale ad introdurre all’interno d’un mezzo d’impugnazione che

affermazioni in diritto contenute nel provvedimento impugnato che
motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della
fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di
legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla

della denunziata violazione (giurisprudenza costante: cfr. Cass. nn. 16132/05,
26048105, 20145/05, 1108/06, 10043/06, 20100/06, 21245/06, 14752/07,
3010/12 e 16038/13).
Fermo l’eventuale esercizio da parte della Corte di cassazione del potere di
(ri)qualificare la doglianza nei suoi esatti termini giuridici e di correggere, ove
occorra, la soluzione tecnica proposta, tale attività di parte è fondamentale
perché in essa consiste l’aspetto destruens della censura. Dedotta in maniera
non conforme all’art. 360, primo comma, c.p.c., questa diviene inammissibile,
non potendo il giudice di legittimità sopperire a tale deficit.
4. – In ordine al primo motivo, si rileva preliminarmente l’inammissibilità
della “istanza di rimessione alle Sezioni Unite” formulata nella memoria ex
art. 378 c.p.c. depositata da parte ricorrente. Ciò per la duplice violazione
dell’art. 376, comma 2 c.p.c. (che consente l’istanza alla parte privata solo se
si tratti di ricorso di competenza delle S.U. e soltanto fino a dieci giorni prima
dell’udienza di discussione, termine non rispettato nella specie), e dell’art.
139, 1° comma disp. att. c.p.c. (in base al quale l’istanza va indirizzata al
Primo Presidente).
4.1.1. – Quanto alla possibile valutazione di detta “istanza” (non come tale,
ma) quale mera sollecitazione dell’esercizio del potere dfficioso e
discrezionale di rimettere una data questione alle S.U., valgono in senso
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S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento

reiettivo (non essendovi obbligo specifico di pronuncia ex art. 112 c.p.c.) le
considerazioni svolte infra.
4.2. – Questa Corte ha di recente avuto modo di osservare con varie
pronunce (nn. 21136, 21137, 21138 e 21139 del 2015, citate nella memoria

legge n. 89 del. 2001, come risultante dalle modificazioni apportate dal
decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134
del 2012, comporta che la domanda di equa riparazione non può più essere
promossa finché il giudizio presupposto non sia stato definito con sentenza o
altro provvedimento divenuti irrevocabili; che correttamente, dunque, la
Corte d’appello ha rilevato che la sentenza del Consiglio di Stato, depositata
in data 8 agosto 2012, sarebbe divenuta definitiva solo alla data del 15 marzo
2013, dovendosi applicare a tali fini il termine lungo di sei mesi, di cui all’art.
92 del d.lgs. n. 104 del 1992, nonché il periodo di sospensione feriale dei
termini; che circa la definitività delle decisioni del Consiglio di Stato, questa
Corte, nell’esaminare la questione della decorrenza del termine di
proposizione della domanda di equa riparazione nelle previgente disciplina,
ovvero dell’accertamento della perdurante pendenza del giudizio
amministrativo presupposto, ha affermato che in tema di equa riparazione per
violazione del termine ragionevole del processo, per “definitività” della
decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume
verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi
per la proponibilità della domanda, s’intende la in suscettibilità di quella
decisione di essere revocata, modificata o riformata dal medesimo giudice
che l’ha emessa o da altro giudice chiamato a provvedere in grado
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della stessa parte ricorrente), che “la nuova formulazione dell’art. 4 della

successivo. Pertanto, in relazione ai giudizi di cognizione, la domanda di
equa riparazione può essere proposta entro il termine di sei mesi dal
passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento della cui
ragionevole durata si dubiti. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non ancora

appello, in quanto ancora ricorribile per cassazione, dinanzi alle Sezioni
unite, per motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 cod. proc.
civ., comma 1, e dell’art. 111 Cost) (Cass. n. 13287 del 2006; Cass. n. 13259
del 2014); che nella sentenza n. 8530 del 2015 questa Corte ha affermato che,
trattandosi della individuazione di un termine rilevante ai fini della
decorrenza di altro termine per la proposizione di una domanda giudiziale,
deve aversi riguardo ad elementi formali certi e insuscettibili di
apprezzamenti differenti e che, quindi, debba darsi continuità
all’orientamento richiamato anche nella nuova disciplina dell’equa
riparazione, nella quale la irrevocabilità del provvedimento che definisca il
giudizio presupposto costituisce un requisito di proponibilità della domanda;
che, dunque, deve escludersi che ai fini della irrevocabilità del provvedimento
che definisce il giudizio possa rilevare la circostanza dell’avvenuta
formazione di uh giudicato implicito nell’ambito del giudizio presupposto,
tale da precludere la proposizione di uno specifico mezzo di impugnazione,
atteso che la relativa valutazione ad altri non può competere che al giudice
della proposta impugnazione; che, del resto, non vale neanche obiettare che
in tal modo si rischia di differire la possibilità di agire in equa riparazione,
atteso che la disciplina delle impugnazioni prevede che la parte interessata al
passaggio in giudicato del provvedimento che ha concluso una fase
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passata in giudicato la pronuncia resa dalla Corte dei conti in grado di

processuale, possa notificare il provvedimento stesso ai fini della decorrenza
del termine breve; che esula dall’ambito del presente giudizio
l’apprezzamento delle conseguenze derivanti dalla violazione dell’art. 4 della
legge n. 89 del 2001, e segnatamente la valutazione della ragionevolezza di

domanda di equa riparazione prima che il provvedimento che definisce il
giudizio presupposto sia divenuto irrevocabile, risulta preclusa la
riproposizione della domanda una volta che quella condizione si sia
realizzata”.
Non vi sono ragioni per discostarsi da tale condivisibile indirizzo, da
ritenersi ormai consolidato e al quale occorre

dare continuità in assenza di
elementi idonei a- indurre una soluzione di segno opposto.
5. – In conclusione il ricorso va respinto.
6. – Come accennato in parte narrativa, il controricorso dell’Avvocatura
generale dello Stato non contiene, nonostante la sua intitolazione, alcun
ricorso incidentale.
7. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo, a carico della parte
ricorrente.
8. – Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del
contributo unificato, non si applica l’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n.
115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alle spese, che
liquida in E 500,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

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una disciplina in base alla quale, una volta verificatasi la proposizione di una


Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile –

2 della Corte Suprema di Cassazione, il 18.11.2015.

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