Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32156 del 12/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 12/12/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 12/12/2018), n.32156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18276/2017 proposto da:

V.V., ((OMISSIS)), rappresentato e difeso, anche

disgiuntamente, dagli avv.ti ROBERTO COLANTONIO e MARIO ALDO

COLANTONIO per procura speciale in calce al ricorso e dom.to come in

atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI POMPEI, elettivamente domiciliato in ROMA, V. C. G. PALUZZI

3, presso lo studio dell’avvocato GERARDO D’ANTUONO, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONIO FESTINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4952/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 15/06/2017 R.G.N. 436/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2018 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

in subordine, per il rigetto;

udito l’Avvocato MARIO ALDO COLANTONIO;

udito l’Avvocato ANTONIO FESTINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto dall’odierno ricorrente avverso la sentenza n. 126/17 del Giudice del lavoro di Torre Annunziata, con cui era stata rigettata la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento disciplinare, comminato al ricorrente dal Comune di Pompei con nota del 1 settembre 2015 per l’incompatibilità della funzione di pubblico dipendente con l’esercizio della professione forense.

2. La Corte territoriale ha respinto le censure mosse dal reclamante, vertenti sulla tardività dell’azione disciplinare, sulla non corrispondenza tra contestazione e addebiti posti a base del licenziamento e sul difetto di prova dei fatti ascritti.

2.1. Quanto alla prima censura, incentrata sulla prospettata conoscenza dei fatti sin dal dicembre 2013, ha osservato che dalla sequenza degli accadimenti e dal tenore delle richieste avanzate dal Comune poteva evincersi che alla data anzidetta ancora non era chiara la posizione del V.; che soltanto con la risposta fornita dall’interessato in data 11 maggio 2015 erano stati acquisiti dati sufficienti a fugare ogni dubbio; che, pertanto, la contestazione dell’11 giugno 2015 era da ritenere tempestiva, avendo l’Amministrazione più volte compulsato – senza esito – il lavoratore a fornire chiarimenti; che, una volta conosciuta l’infrazione, il Comune aveva provveduto alla contestazione dell’illecito, all’audizione del lavoratore, alla irrogazione provvedimento disciplinare, nel rispetto dei termini di legge.

2.2. Quanto al secondo motivo di doglianza, attinente al difetto di corrispondenza tra addebito contestato e quello individuato nella lettera di licenziamento, ha osservato che il contenuto della lettera di contestazione lasciava intendere che l’Amministrazione avesse addebitato al dipendente di non avere dichiarato la propria situazione di incompatibilità, ossia di essere rimasto iscritto all’albo degli avvocati e che ciò lasciasse anche presumere l’esercizio della professione forense; che con tale missiva il Comune aveva provveduto a ricostruire tutta la normativa applicabile, richiamando non soltanto le norme che prevedono situazioni di incompatibilità con la qualifica di pubblico dipendente (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, art. 60 e segg. t.u. n. 3 del 1957) e con l’esercizio della professionale forense (L. n. 339 del 2003, L. n. 247 del 2012), ma anche quelle in base alle quali è possibile presumere il concreto esercizio dell’attività professionale (L. n. 247 del 2012, art. 21); che, in altri termini, il Comune aveva messo in stretta correlazione iscrizione all’albo degli avvocati con l’esercizio della professione forense, con conseguente incompatibilità con la funzione di dirigente; che con la lettera di licenziamento l’Ente aveva ribadito che, secondo la legge professionale forense, se si è iscritti all’albo, si esercita la professione di avvocato, che è incompatibile con il rapporto di impiego; che nella stessa lettera di licenziamento il Comune aveva pure ribadito che la contestazione aveva ad oggetto la falsa dichiarazione avvenuta in sede di assunzione presso il Comune di Pompei, concernente l’inesistenza di cause di incompatibilità con lo status di dipendente e aveva altresì evidenziato come il permanere dell’iscrizione all’albo degli avvocati presupponesse l’esercizio della professione con connotazione di abitualità; che il Comune aveva anche spiegato i motivi per cui le giustificazioni addotte dal dipendente (cancellazione della partita IVA e dichiarazioni dei redditi) non fossero idonee a dimostrare il mancato esercizio della professione forense, la quale viceversa era comprovata dalle risultanze istruttorie (il V. aveva continuato a curare cause dinanzi all’autorità giudiziaria e queste si erano concluse con provvedimenti nei quali era indicato quale difensore di una delle parti); che gli elementi contenuti nella lettera di licenziamento corrispondevano a quanto già contestato, sebbene fossero stati individuati con maggiore specificazione gli elementi confermativi dell’effettivo esercizio dell’attività legale; che, pertanto, le singole attività indicate dall’Amministrazione, ossia i procedimenti conclusi dinanzi alle autorità giudiziarie, non costituivano una nuova contestazione, ma erano elementi rafforzativi di quanto già ritenuto sussistente sulla base della conclamata iscrizione all’albo.

3. Per la cassazione di tale sentenza V.V. propone ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste con controricorso il Comune di Pompei.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente degli artt. 5,6 e 7 CCNL 2010, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, e L. n. 300 del 1970, art. 18,per tardività della contestazione rispetto al momento di conoscenza dei fatti. Assume che la Corte territoriale aveva erroneamente interpretato e applicato alla fattispecie il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, poichè l’Amministrazione comunale aveva conoscenza dell’iscrizione del dott. V. all’albo degli avvocati di Torre Annunziata quantomeno del 19 dicembre 2013: a tale data risaliva la prima acquisizione della notizia dell’infrazione; rispetto a tale momento la contestazione disciplinare era tardiva, poichè avvenuta soltanto 11 giugno 2015. Deduce che il concetto di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, da cui dipende l’esatta identificazione del dies a quo per il valido esercizio dell’azione disciplinare, indica un comportamento puramente ricettizio di un fatto oggettivo, scevro da qualsiasi valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, restando esclusa una fase procedimentale per avere la certezza della notizia come acquisita.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente degli artt. 5,6 e 7 CCNL 2010, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, e L. n. 300 del 1970, art. 18,nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti e nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine alla richiesta di cancellazione dall’albo degli avvocati avanzata dal ricorrente in data 19 dicembre 2012. Assume il ricorrente che la circostanza di avere avanzato tale richiesta, se valutata, avrebbe consentito di fare ritenere a lui non ascrivibile il ritardo, imputabile invece al Consiglio dell’Ordine, nel provvedere a tale cancellazione.

3. Il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente degli artt. 5, 6 e 7 CCNL 2010, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, e L. n. 300 del 1970, art. 18, e segnatamente violazione del principio di immutabilità tra la contestazione dell’addebito e l’irrogazione della sanzione disciplinare. Il motivo di ricorso reca (da pag. 27 a pag.57) la trascrizione integrale del provvedimento di licenziamento e della lettera di contestazione disciplinare; su tale base il ricorrente afferma che, mentre la contestazione atteneva al solo fatto materiale della perdurante iscrizione all’albo ordinario dell’ordine degli avvocati del foro di Torre Annunziata, di contro a base del licenziamento erano state poste ragioni e fatti materiali ulteriori e diversi, specifiche condotte concrete, non dedotte nella nota di avvio del procedimento e che, in ordine a tale nuova ragione di incolpazione, non gli era stato possibile esercitare i diritti di difesa.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente degli artt. 5,6 e 7 CCNL 2010, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, e L. n. 300 del 1970, art. 18. In particolare, contesta la sussistenza del fatto ascritto e della incompatibilità posta a base del licenziamento. Assume che il fatto contestato non sussiste, in quanto la permanenza dell’iscrizione all’albo era dipesa dal ritardo imputabile al Consiglio dell’Ordine e che la sola iscrizione un albo professionale non è vietata, in quanto il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, e dall’art. 60 testo unico n. 3/57 concerne il concreto esercizio della professione forense.

5. Il primo motivo è infondato. E’ stato precisato da questa Corte che, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 bis, comma 4, in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. con sentenza n. 310 del 5 novembre 2010, assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare (cfr. Cass. n. 7134 del 2017 e n. 6989 del 2018).

5.1. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha evidenziato che, dalla sequenza dei fatti e dal tenore delle richieste avanzate dal Comune, alla data indicata dal ricorrente (dicembre 2013) ancora non era chiara la posizione del V., sussistendo dubbi circa l’effettiva situazione di incompatibilità, e che elementi sufficienti a consentire la formulazione della contestazione si ebbero solo con la risposta fornita dall’interessato in data 11 maggio 2015. Tale ricostruzione del momento di acquisizione della notizia qualificata dell’infrazione è stata condotta dal giudice di merito con motivazione congrua e immune da vizi.

5.2. In realtà, il ricorso sub specie violazione di legge censura l’esito cui è pervenuta la Corte territoriale nell’accertamento del momento dell’acquisizione della notizia qualificata dei fatti disciplinarmente rilevanti. Tale ricostruzione costituisce accertamento di fatto demandato al giudice di merito. Va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

5.3. L’odierno ricorrente intende proporre una diversa ricostruzione dei fatti, onde pervenire ad un arretramento cronologico del momento dell’acquisizione della notizia dell’infrazione, proponendo un’alternativa ricostruzione delle risultanze di causa, inammissibile in questa sede.

5.4. E’ altresì erroneo l’assunto che l’Amministrazione non possa valutare la consistenza dei fatti acquisiti per stabilire se questi siano idonei ad integrare infrazione disciplinare. Tale tesi, se accolta, dovrebbe indurre la Pubblica Amministrazione a formulare contestazioni approssimative, sulla base di fatti di consistenza generica, e così destinate ad essere inficiate da vizi formali e sostanziali. E’ del pari giuridicamente infondata la tesi che l’Amministrazione non possa svolgere indagini pre-procedimentali per chiarire i termini della vicenda e valutare la consistenza disciplinare dei fatti emersi a carico del dipendente. A ciò va pure aggiunto che, dalla motivazione della sentenza impugnata, non emergono elementi per ipotizzare che la contestazione sia stata ingiustificatamente procrastinata oltre il momento dell’acquisizione di una notizia qualificata dei fatti.

6. Il secondo motivo introduce un tema privo di decisività, poichè tanto la contestazione disciplinare quanto la lettera di licenziamento attenevano, come evidenziato dalla Corte di appello nella sentenza impugnata, alla falsa dichiarazione da parte del ricorrente, resa in sede di assunzione presso il Comune di Pompei, in merito alla inesistenza di cause di incompatibilità con lo status di dipendente e di tale falsa attestazione il V. non poteva non essere consapevole proprio in ragione della inesistenza, all’epoca dell’assunzione (settembre 2012), della cancellazione dall’albo degli avvocati e dall’effettivo esercizio dell’attività professionale (pure ritenuta comprovata in giudizio).

7. Il terzo motivo è del pari inammissibile, poichè i fatti relativi allo svolgimento di attività difensiva in epoca successiva al 2012 assumevano nel contesto del provvedimento di licenziamento – secondo l’interpretazione del giudice di merito, non specificamente contestata sub specie violazione dei canoni di ermeneutica negoziale ex art. 1362 c.c. e segg., o per vizi motivazionali – solo un valore di comprova del fatto ascritto, quale indiretto riscontro dell’addebito consistito nella omessa denuncia, in sede di assunzione, dell’esistenza di una condizione di incompatibilità costituita dall’esercizio dell’attività forense.

8. Il quarto motivo presenta anch’esso profili di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, per difetto di pertinenza al decisum: la sentenza impugnata ha evidenziato come il permanere dell’iscrizione all’albo degli avvocati lasciasse presumere l’esercizio della professione forense con connotazione di abitualità e che dirimenti fossero anche le risultanze istruttorie, che avevano evidenziato come il V. avesse continuato a curare cause innanzi all’autorità giudiziaria negli anni successivi al 2012.

8.1. Comunque, il motivo è anche destituito di fondamento giuridico. Il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53(Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi) dispone, al comma 1, che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dall’art. 60 e segg., del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’art. 23 bis, del presente decreto, nonchè, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117, art. 6, comma 2, e dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 57 e ss.. Restano ferme altresì le disposizioni di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, art. 267, comma 1, artt. 273, 274 e 508, nonchè L. 23 dicembre 1992, n. 498, art. 676, L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 9, commi 1 e 2, art. 4, comma 7, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina. Gli altri commi dello stesso articolo si occupano, con norme dichiarate espressamente applicabili sia ai dipendenti a regime di diritto pubblico sia a quelli c.d. contrattualizzati, dello svolgimento di attività extraistituzionali (incarichi), disciplinandone le condizioni di legittimità e prevedendo poteri di autorizzazione dell’amministrazione.

8.2. La norma dettata dal richiamato art. 53, comma 1, ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, compresi quelli per i quali vigeva in precedenza una disciplina speciale (quali i dipendenti degli enti del parastato L. n. 70 del 1975, ex art. 8), della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato all’art. 60 e ss.. La stessa norma, poi, ha fatto salve le disposizioni speciali in materia di incompatibilità già vigenti per il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, per il personale docente dei conservatori di musica, per il personale degli enti lirici e del servizio sanitario nazionale, nonchè per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale. Dunque, l’art. 53 cit. ha ribadito il generale principio dell’incompatibilità, sancito per i dipendenti statali (e degli enti pubblici non economici), con riferimento a tutti i pubblici dipendenti.

9. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

10. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

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