Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32155 del 12/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 12/12/2018, (ud. 03/07/2018, dep. 12/12/2018), n.32155

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BOPGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2186-2013 proposto da:

RM DI G.A. & C SAS (P.I. (OMISSIS)), in persona del

legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PIEMONTE 39, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO GRIECO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO SALUSSOGLIA

giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

INAIL, (c.f. (OMISSIS)), in persona del Dirigente generale in g.

R.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144,

presso la sede legale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati RALLAELA FABBI e LORELLA FRASCONA’ giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in proprio e quale procuratore

speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI)

SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso

l’Avvocatura centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati EMANUELE DE ROSE, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, CARLA

D’ALOISIO giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA NOMOS SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 985/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 28/09/2012 r.g.n. 1666/10;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/07/2018 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato FRANCESCO GRIECO per delega verbale Avvocato ANTONIO

GRIECO;

udito l’Avvocato ANTONINO SGROI;

udito l’Avvocato RAFFAELLA FABBI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 28.9.2012, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale della medesima sede, confermava le due cartelle esattoriali opposte dalla società R.M. s.a.s. di A.G. & C. nei confronti di INPS, INAIL e Equitalia Nomos s.p.a., rigettando l’eccezione di nullità/inesistenza della notifica delle suddette cartelle (vista la tempestività dell’opposizione D.Lgs. n. 46 del 1999, ex art. 24), limitando la condanna al pagamento di contributi e somme aggiuntive per ritardata denuncia di assunzione di alcuni lavoratori e svolgimento di orario di lavoro diverso da quello comunicato alle somme di Euro 93.915,00 e 2.333,62, oltre accessori di legge.

2. Avverso tale pronuncia la società propone ricorso con due motivi di censura. L’INPS e l’INAIL resistono con separati controricorsi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 148 e 160 c.p.c. nonchè artt. 136 e 137 c.p.c., art. 148 c.p.c. e L. n. 890 del 1982, art. 14 (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione al principio generale di inesistenza/nullità della notifica per mancata indicazione, nella copia consegnata al destinatario, della data di notifica della cartella esattoriale.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la corretta indagine sugli aspetti relativi al reclutamento e all’orario di lavoro osservato dai lavoratori nei due distinti periodi dell’anno della “stagione del gelato” (da maggio a settembre) e dei restanti mesi (da ottobre ad aprile) avrebbe determinato un diverso esito del giudizio con conseguente annullamento dei verbali ispettivi degli enti previdenziali. Inoltre, la sentenza impugnata risulta viziata da una non corretta applicazione delle regole relative alla distribuzione dell’onere probatorio e, in ogni caso, alla valutazione delle risultanze probatorie, con particolare riferimento al libero interrogatorio e alle deposizioni rese dai lavoratori interessati all’accertamento ispettivo (incapaci di testimoniare) e al valore riconosciuto alle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori stessi agli ispettori degli enti previdenziali.

3. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

Ritenuto che deve escludersi la dedotta inesistenza della notifica della cartella esattoriale, in quanto l’inesistenza della notificazione – come tale insuscettibile di sanatoria – è configurabile solo quando essa manchi totalmente oppure quando l’attività compiuta esca completamente dallo schema legale del procedimento notificatorio, essendo stata effettuata in modo assolutamente non previsto dalla normativa (ipotesi da escludere nel caso di specie), deve ritenersi che l’eventuale nullità della notifica di una cartella esattoriale è sanata, per il raggiungimento dello scopo della notifica, dalla proposizione di una tempestiva e rituale opposizione (Cass. n. 1109 del 2017, Cass. n. 11348 del 2012, Cass. n. 15948 del 2010, Cass. n. 4018 del 2007, Cass. n. 18055 del 2004). Nel caso di specie, il vizio della notifica (consistente nella mancata indicazione nella copia dell’atto notificato della data in cui essa è avvenuta) è dunque stato sanato dall’opposizione – proposta D.Lgs. n. 46 del 1999, ex art. 24 – tempestiva, intervenendo la sanatoria per applicazione del principio del raggiungimento dello scopo stabilito dall’art. 156 c.p.c..

Nessun rilievo ha il precedente giurisprudenziale richiamato dal ricorrente (Cass. n. 398 del 2012) che ha esaminato il diverso caso dell’incidenza di un vizio della notifica della cartella esattoriale a fronte di una opposizione tardiva (nello stesso senso, ossia della inapplicabilità del principio di sanatoria degli atti nulli, per raggiungimento dello scopo, nell’ipotesi in cui dalla notifica dell’atto soggetto ad impugnazione decorra un termine perentorio ed il ricorso sia intempestivo, cfr. Cass. n. 5691 del 2017, Cass. n. 17688 del 2011, Cass. n. 16578 del 2002).

4. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.

Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del giudice del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).

Nella specie è evidente che la società ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque un vizio-motivo da valutare alla stregua del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).

La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato sulla base degli elementi istruttori di fonte documentale e testimoniale – la sussistenza e le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro dei dipendenti impiegati nell’attività del (OMISSIS) dal dicembre 2002 (nella specie retrodatazione dei rapporti di lavoro rispetto alla denuncia effettuata agli enti previdenziali ed osservanza di un orario di lavoro full time).

4.1. In ordine alla dedotta incapacità di testimoniare da parte dei lavoratori interessati all’accertamento ispettivo degli enti previdenziali, questa Corte ha avuto modo di affermare, con orientamento costante, che “l’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, a norma dell’art. 246 c.p.c., è l’interesse giuridico, personale, concreto, che legittima l’azione o l’intervento in giudizio, sicchè il lavoratore dipendente di una parte in causa non è, per ciò solo, incapace di testimoniare, nè può ritenersi, per questa sola ragione, scarsamente attendibile” (Cass. n. 15313 del 2016, Cass. n. 2075 del 2013, Cass. n. 21418 del 2015).

L’eccezione è, comunque, tardiva, avendo questa Corte ripetutamente affermato che “Qualora, in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l’omessa motivazione del giudice d’appello sull’eccezione di nullità della prova testimoniale (nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c.), il ricorrente ha l’onere, anche in virtù dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, subito dopo l’assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo” (Cass. n. 23896 del 2016; nello stesso senso, Cass. n. 10567 del 2017, Cass. 21418 del 2014, Cass. n. 8358 del 2007). Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha rilevato come la società abbia sollevato (tempestivamente) l’eccezione di incapacità a testimoniare solamente con riguardo a due lavoratori (i quali sono stati “sentiti liberamente” dal Tribunale), nulla avendo eccepito per tutti gli altri lavoratori che hanno quindi rilasciato ritualmente la loro deposizione testimoniale (pag. 8 della sentenza impugnata).

4.2. Con riguardo ai verbali ispettivi, questa Corte ha più volte affermato che nei giudizi in esame il verbale di accertamento fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonchè alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata del documento non si estende agli apprezzamenti e alle valutazioni del verbalizzante (da ultimo, Cass. n. 14863 del 2017; Cass. n. 23800 del 2014, con ampi richiami giurisprudenziali).

In coerenza con tale principio è stato affermato che, viceversa, detti verbali non fanno fede dei fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, nè dei fatti della cui verità essi si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche (Cass. n. 9111 del 1995; Cass. n. 10569 del 200; Cass. n. 14863 del 2017).

Nella specie, la Corte di merito ha applicato correttamente tali principi, attribuendo al verbale ispettivo valore di piena prova solo per gli atti compiuti dai pubblici ufficiali verbalizzanti e per le dichiarazioni e i documenti da essi raccolti, non anche per l’intrinseca veridicità delle dichiarazioni. Su quest’ultimo aspetto la Corte ha espresso un giudizio del tutto esaustivo e privo di incongruenze rilevando come la decisione del primo giudice, pienamente condivisa, fosse fondata sull’esame complessivo di tutti gli elementi probatori acquisiti al processo, come la mancata contestazione di determinate circostanze da parte della società, le dichiarazioni raccolte in sede testimoniale nell’ambito di altro giudizio (concernenti alcuni dei lavoratori, deposizioni mai contestate dalla società, vedi pag. 9 della sentenza impugnata) nel parallelo processo le dichiarazioni testimoniali e quelle rese ai sensi dell’art. 421 c.p.c..

5. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese di lite sono regolate in base al criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità ai controricorrenti, spese liquidate, a favore di ciascun controricorrente, in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

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