Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32146 del 12/12/2018

Cassazione civile sez. II, 12/12/2018, (ud. 13/09/2018, dep. 12/12/2018), n.32146

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28882-2014 proposto da:

C.M., C.T., domiciliati in ROMA, presso la

Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi

dall’avvocato CANDELORO ARPAIA in virtù di procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

nei confronti di:

G.R.A., domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dell’avvocato

SILVIO GAROFALO, in virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente-

e

M.S., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDIO

D’ALESSIO giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 225/2014 della CORTE D’APPELLO DI SALERNO,

depositata il 16/04/2014;

udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del

13/09/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore

Generale, Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

uditi l’Avvocato Arpaia Candeloro per i ricorrenti e l’Avvocato

Silvio Garofalo per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Salerno con la sentenza n. 147 del 22 gennaio 2009 accoglieva la domanda proposta con citazione del 14 febbraio 1990 da M. e C.T. nei confronti di G.A.R. e M.S., riconoscendo gli attori come esclusivi proprietari della zona di terreno in (OMISSIS), riportata in catasto al foglio (OMISSIS), condannando i convenuti alla rimozione di tutte le opere realizzate sul fondo ed alla realizzazione degli interventi di rinforzo dell’edificio sito al medesimo civico, come da CTU. Inoltre accoglieva anche la domanda riconvenzionale dei convenuti, condannando i C. ad eliminare la finestra realizzata al confine con il fondo denominato “(OMISSIS)”, oltre al pagamento della somma di Euro 30.853,53 a titolo di risarcimento dei danni arrecati al fabbricato dei convenuti.

Infine, riconosceva gli attori come proprietari esclusivi del lastrico solare del fabbricato di (OMISSIS).

La Corte d’Appello di Salerno con la sentenza n. 225/2014, decidendo sull’appello principale della G. e su quello incidentale dei C., ed in riforma della stessa, rigettava la domanda di rivendica della proprietà esclusiva della particella n. (OMISSIS) nonchè la domanda di condanna alla rimozione delle opere seguite dall’appellante principale, ed in accoglimento della riconvenzionale della G. dichiarava l’inefficacia del trasferimento in favore dei C. della piena proprietà della particella n. (OMISSIS) di cui al loro titolo di provenienza, sostenendo che la zona di terreno era in comunione tra gli attori ed i convenuti, adottando analoga pronuncia anche per quanto concerneva il lastrico di copertura. Per l’effetto compensava le spese del doppio grado di giudizio, con il conseguente assorbimento dell’appello incidentale vertente proprio sulla regolazione delle spese del giudizio di primo grado.

Rilevava la Corte d’Appello che la domanda attorea andava correttamente inquadrata come domanda di revindica, come peraltro effettuato dal Tribunale, ma che ai fini dell’accertamento della proprietà doveva tenersi conto della circostanza che entrambi i contendenti deducevano l’esistenza di un comune dante causa.

In tal senso rilevava che il fabbricato, ove sono ubicate le rispettive proprietà delle parti in causa, era originariamente di proprietà esclusiva di Mo.In., la quale aveva a sua volta alienato a tal S.W. l’appartamento a piano terra ed a C.F. l’appartamento al primo piano, il tutto con atto del 14/11/1974.

Nel rogito si precisava che entrambe le alienazioni comprendevano la comunione in parti eguali dell’intero suolo, e cioè della zona di terreno scoperta non occupata dalla costruzione.

In seguito, con atto per notaio P. del 16/9/1986, il procuratore di S.W. aveva venduto a G.R.A., in regime di comunione legale con il M., l’appartamento al piano terra, con annessi terrazzo e giardino, con l’indicazione anche dei confini dei beni venduti.

Con successivo atto del 24 maggio 1989, C.F. quale procuratore di C.F., aveva venduto agli attori l’appartamento al primo piano, con il diritto di proprietà in ragione di un mezzo sulle zonette di terreno adiacenti, tra cui la particella n. (OMISSIS), e lo stesso C. aveva alienato, nella diversa veste di procuratore dello S., la residua metà del mappale n. (OMISSIS).

Il Tribunale, a fronte di tale sequenza di atti, aveva reputato che l’area oggetto di causa appartenesse in esclusiva agli attori, in quanto acquistata dai due comproprietari originari con l’atto del 1989, laddove nel diverso titolo della G. non vi era menzione di tale particella.

Tuttavia la conclusione in esame non è stata ritenuta condivisibile dalla sentenza gravata, la quale ha osservato che dalla descrizione dei confini contenuta nell’atto di acquisto della G. doveva reputarsi ricompresa anche la quota ideale della particella n. (OMISSIS), avendo i dati catastali portata residuale rispetto a quella offerta dai confini.

Inoltre, se appariva pacifico che la particella in esame fosse divenuta comune ai due originari acquirenti del bene, S. e C.F., la volontà di escludere nell’atto di acquisto del 1986 anche il bene de quo, presupponeva l’individuazione di ben diversi confini, in quanto il confine nord, anzichè essere indicato come la proprietà di C.F. ed A., doveva essere designato come la comproprietà dello stesso S. e di C.F.. Ciò implicava che nella vendita fosse inclusa anche la quota del fondo n. (OMISSIS), dovendosi a tal fine dare prevalenza all’indicazione dei confini rispetto a quella dei dati catastali.

Tale soluzione trovava poi conforto anche nella situazione dei luoghi, posto che la vendita era chiaramente intesa a ricomprendere l’intera consistenza di cui lo S. era titolare e che la zonetta di terreno fungeva da intercapedine tra il fabbricato ed il muro di contenimento del pendio, assolvendo anche alla funzione di dare aria e luce ai locali dell’appartamento al piano terra che vi si affacciavano.

Pertanto, attesa l’anteriorità del titolo della convenuta, lo S. non poteva successivamente alienare agli attori un bene del quale aveva già disposto, essendo quindi inefficace nei confronti della G. la successiva alienazione della quota del fondo già a lei ceduta.

Per l’effetto andava disattesa la domanda di revindica della particella così come la domanda volta alla rimozione delle opere eseguite dalla G., trattandosi di richiesta che era stata avanzata dagli attori sul presupposto della loro proprietà esclusiva, e quindi in base ad una causa petendi diversa da quella ex art. 1102 c.c.

Del pari fondato era il secondo motivo dell’appello principale concernente la proprietà del lastrico solare.

Ed, invero, allorquando l’unica proprietaria aveva alienato i due appartamenti, nel titolo si precisava che il trasferimento ricomprendeva anche le zone scoperte, come visto, nonchè tutte le parti condominiali.

Ne discende che il lastrico solare, essendosi con tale atto venuto a costituire il condominio, è divenuto bene condominiale ex art. 1117 c.c..

Quando nel 1986 la G. ha acquistato l’appartamento al piano terra, in assenza di una limitazione, deve reputarsi che abbia acquistato i diritti condominiali anche sul lastrico, con la conseguenza che la successiva indicazione nell’atto di acquisto degli attori, del trasferimento della proprietà esclusiva del lastrico deve ritenersi inefficace, non avendo il loro dante causa la possibilità di disporre per intero di un bene che già era divenuto comune e che pro quota era stato acquistato dalla G..

Per l’effetto andava accolta la domanda di quest’ultima volta a far dichiarare l’inefficacia del successivo atto di acquisto dei C., limitatamente al trasferimento della proprietà esclusiva, e non anche pro quota del terrazzo di copertura, non potendo però accogliersi la richiesta di eliminazione delle opere ivi realizzate dagli attori, rientrando nell’ambito di quelle consentite dall’art. 1102 c.c. (pavimentazione del lastrico con apposizione di un parapetto, con collocazione di un forno e di un pergolato).

Il terzo motivo di appello principale, concernente la condanna della convenuta all’esecuzione degli interventi di rinforzo strutturale del fabbricato era rigettato, dovendo riservarsi analoga sorte anche al quarto motivo.

In merito al quinto motivo, con il quale ci si doleva della ridotta quantificazione dei danni al proprio appartamento, la Corte d’Appello rilevava che la CTU permetteva di affermare che le infiltrazioni avevano sì danneggiato il bene, ma senza comprometterne l’abitabilità, sicchè nulla poteva essere preteso a titolo di impossibilità di fruizione del cespite.

Infine il sesto motivo dell’appello principale ed il motivo di appello incidentale erano reputati assorbiti, posto che, a seguito della riforma della sentenza di primo grado, occorreva provvedere ad un’autonoma regolamentazione delle spese del doppio grado.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso C.M. e C.T. sulla base di quattro motivi. G.R.A. resiste con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria all’esito dell’udienza camerale del 27/2/2018 era ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti di M.S. entro il termine di giorni 60 dalla sua comunicazione.

Provvedutosi a tale adempimento, M.S. resisteva a sua volta con controricorso.

In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. le ricorrenti nonchè la controricorrente G.R.A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente occorre dare atto dell’inammissibilità della produzione documentale effettuata dalla controricorrente in occasione del deposito della memoria ex art. 378 c.p.c. (atto di compravendita per notar I. del 31/5/2017 intervenuto tra M.S. ed i ricorrenti), esulando l’atto prodotto da quelli la cui produzione è consentita in sede di legittimità ex art. 372 c.p.c.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. rilevando che nella comparsa di risposta in appello i C. avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, in quanto non rivelavano le ragioni delle doglianze dell’appellante.

Tuttavia tale eccezione non è stata esaminata dai giudici di appello che hanno deciso nel merito il gravame.

Il motivo va disatteso.

In primo luogo, non può trovare spazio la pur paventata omissione di pronuncia in ordine all’eccezione d’inammissibilità dell’appello, atteso che non è denunziabile ex art. 112 c.p.c. la pretesa omessa disamina di un’eccezione di carattere processuale, occorrendo a tal fine fare richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 321/2016) a mente della quale il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (conf. Cass. n. 22860/2004).

Peraltro la decisione nel merito dell’impugnazione implica una quanto meno implicita valutazione di infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’appello.

Va altresì evidenziato che il motivo risulta privo del carattere di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, così come chiarito dalle Sezioni Unite con la decisione n. 8077/2012, con specifico riferimento alla denuncia degli errores in procedendo, avendo la parte ricorrente del tutto omesso di richiamare in ricorso il contenuto dell’atto di appello al fine di consentire di rilevare dal suo esame l’effettiva sussistenza della censura mossa.

In ogni caso il motivo risulta infondato, in quanto, anche dall’accesso diretto agli atti, e precisamente all’atto di appello, emerge che, dopo un’inziale denuncia di erroneità della sentenza accusata di aver provveduto ad una frettolosa disamina delle emergenze processuali (pag. 9), nelle successive pagine ci si premura di chiarire per quali ragioni il titolo degli attori, quanto alla zonetta di terreno ed al lastrico solare, non poteva reputarsi idoneo ad assicurare il trasferimento della proprietà esclusiva, richiamando a tal fine la priorità cronologica del titolo degli appellanti (pag. 11), in contrasto con la diversa interpretazione invece offerta dal giudice di primo grado.

Trattasi di doglianze connotate, anche in rapporto al contenuto della sentenza di primo grado, di un adeguato livello di specificità in grado di soddisfare il requisito imposto dalla previsione di cui all’art. 342 c.p.c.

3. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 948 c.c. nonchè l’omessa disamina delle risultanze istruttorie.

Si sostiene che la Corte d’Appello nel ribaltare la decisione del Tribunale che aveva accolto la domanda di rivendica della proprietà esclusiva della particella n. (OMISSIS) ha omesso di valutare i numerosi elementi di fatto favorevoli alla tesi dei ricorrenti, come gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio, non potendo invece le prove addotte dai convenuti smentire la bontà della tesi di parte attrice.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

La sentenza di appello partendo dal condivisibile principio, per il quale in presenza del riconoscimento di un comune dante causa, la prova imposta al rivendicante si risolve nella dimostrazione della prevalenza del suo titolo e nella sua opponibilità alla controparte (cfr. ex multis Cass. n. 23818/2012), ha appunto fondato la propria decisione sulla approfondita lettura dei vari atti traslativi, ritenendo che in realtà, una volta intervenuta l’alienazione da parte dell’unico originario proprietario, la particella oggetto di causa era stata trasferita in pari quota ai due acquirenti, e che il dante causa dei convenuti, in data anteriore al successivo atto con il quale aveva alienato agli attori, aveva in realtà trasferito anche la sua quota di comproprietà sulla zonetta di terreno, dando prevalenza alla indicazione dei confini rispetto al solo dato ricavabile dalle indicazioni catastali (per l’affermazione della prevalenza dei confini rispetto alla descrizione del bene ed ai confini indicati nell’atto, si veda ex multis Cass. n. 9896/2010; Cass. n. 9857/2007).

A tali principi risulta essersi conformata la decisione gravata, che, sulla scorta di una, nemmeno adeguatamente contrastata, interpretazione dei vari titoli di provenienza, ha ritenuto che in realtà la G. avesse acquistato dallo S. anche la quota indivisa della particella n. (OMISSIS), non potendo quindi l’alienante successivamente trasferirla agli attori con atto opponibile alla prima avente causa.

Una volta quindi esclusa la sussistenza della dedotta violazione di legge, il motivo, nella parte in cui contesta l’omessa disamina di decisive risultanze istruttorie, in disparte l’evidente carenza del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, laddove omette di riprodurre sia pure per sintesi il contenuto dei titoli di provenienza, degli elaborati peritali e della dichiarazione che avrebbe reso S.W. in data 22 febbraio 1990 – e della quale non vi è peraltro nemmeno menzione in sentenza – si risolve nella surrettizia richiesta di pervenire ad una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, veicolando, e peraltro in maniera non ortodossa sotto la novellata formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, delle doglianze che non avrebbero potuto avere spazio nemmeno con la precedente e più permissiva lettera della legge.

Ed, invero ribadito che, in relazione al vecchio testo della norma questa Corte ha più volte sottolineato che compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Cass. n. 3267/2008), dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare, in relazione alla novellata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le Sezioni Unite (Cass. n. 8054/2014) hanno precisato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie.

Infine, attesa la corretta applicazione dei principi in tema di prova del diritto di proprietà in caso di azione ex art. 948 c.c., con la necessità di dover attribuire rilevanza esclusiva ai titoli di provenienza, anche le circostanze istruttorie di cui si assume l’omessa disamina difettano evidentemente del carattere della decisività, il che conferma, ove ve ne fosse ancora bisogno, l’infondatezza della censura.

4. Il terzo motivo denuncia l’omessa disamina di risultanze istruttorie decisive ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., nella parte in cui i giudici di appello, una volta riscontrata la comunione della particella n. (OMISSIS), in relazione alla domanda degli attori di rimozione di tutte le opere che i convenuti avevano ivi realizzato, ha escluso la possibilità di fare applicazione della previsione di cui all’art. 1102 c.c.

Il quarto motivo invece lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè, sempre in relazione alla domanda di cui al terzo motivo di ricorso, i giudici di appello hanno disatteso la richiesta assumendo che la domanda in oggetto fosse stata avanzata in citazione sul presupposto della proprietà esclusiva dell’area in capo agli attori, e dunque in base ad una causa petendi diversa da quella effettivamente ricorrente, alla luce dell’accertamento della comproprietà del terreno.

In particolare si deduce che gli attori avevano fondato tale richiesta non solo perchè proprietari esclusivi ma anche per la pretesa lesione dei diritti vantati sul fabbricato.

I due motivi vanno congiuntamente esaminati, attesa l’evidente connessione delle questioni che pongono, sebbene dal punto di vista logico abbia precedenza il quarto motivo.

Ed, infatti, avendo i giudici di appello ritenuto che la richiesta di tutela ex art. 1102 c.c. costituisse, a fronte della deduzione in citazione della qualità di proprietari esclusivi dell’area, una domanda fondata su di una causa petendi diversa da quella fatta valere ab origine, il terzo motivo, con il quale si ritiene che sia stata in realtà raggiunta la prova della violazione della norma de qua, presuppone a monte che venga superato il rilievo di carattere processuale che la sentenza gravata ha ritenuto ostativo alla disamina nel merito.

Va in primo luogo rilevato che la difesa di parte ricorrente, in realtà, non contesta che la domanda avanzata quale proprietari esclusivi sia diversa da quella proposta come comproprietari, ma si assume che invece la domanda era stata avanzata anche quali comproprietari. Tuttavia, la lettura dell’atto di citazione a pag. 4, unitamente alle premesse in fatto, permette di affermare che effettivamente la domanda era stata proposta nella qualità di proprietari esclusivi (e ciò anche a tacere anche qui del difetto di specificità in quanto non si riporta in ricorso il contenuto della citazione).

In ogni caso rileva il Collegio di dover condividere la soluzione alla quale sono pervenuti i giudici di appello, occorrendo ribadire che effettivamente la domanda di rivendica proposta da coloro che assumano di essere proprietari esclusivi del bene sia diversa da quella avanzata invece quali comproprietari e rivolta ad ottenere la eliminazione di presunte condotte illegittime poste in esser dal comproprietario.

Ed, invero, non coglie nel segno la deduzione dei ricorrenti che invocano la natura autodeterminata del diritto di proprietà al fine di giustificare la deduzione in grado di appello della qualità di comproprietari come idonea a giustificare l’adozione di quegli stessi provvedimenti ripristinatori che erano stati invece invocati) in citazione assumendo la proprietà esclusiva del bene.

Non ignora il Collegio che questa stessa Corte abbia affermato che (Cass. n. 4571/1997) poichè il diritto di comproprietà di un bene si esercita sull’interezza di questo, e non su una sua frazione, l’analogo diritto altrui ne costituisce il limite, che, se viene meno, determina la espansione di quel diritto, ossia la proprietà esclusiva. Perciò anche in secondo grado, e pur in comparsa conclusionale, può modificarsi l’originaria domanda di accertamento della comproprietà su di un bene in quella della proprietà esclusiva, senza incorrere nel divieto di “jus novorum” (art. 345 c.p.c.), ovvero il giudice può dichiarare l’inesistenza di limite al diritto di proprietà su di un bene, in base alle risultanze processuali, senza che ciò implichi vizio di “ultra petita” (art. 112 c.p.c.), ovvero che (cfr. Cass. n. 12953/2015) in tema di rivendicazione, il giudice può riconoscere l’esistenza di una proprietà “pro quota” pure laddove si assuma esistere una proprietà esclusiva, senza con ciò trasmodare dai limiti della domanda, ricorrendo il vizio di ultrapetizione soltanto allorchè dalla pronunzia derivino effetti giuridici più ampi di quelli richiesti dall’attore, ma trattasi di precedenti che non appaiono pertinenti rispetto all’ipotesi in esame.

Il principio dell’indifferenza tra accertamento della proprietà esclusiva ovvero della comproprietà deve reputarsi effettivamente operante nel caso in cui l’azione sia diretta verso il terzo estraneo, asseritamente autore della condotta lesiva del diritto di proprietà ovvero nei cui confronti sia richiesto il rilascio del bene, in quanto in tal caso l’assenza di diritti di comunione sul bene da parte del convenuto implica che l’accertamento circa la fondatezza della domanda non involga apprezzamenti anche in fatto differenti, atteso che in entrambe le ipotesi la fondatezza della domanda, presuppone l’assenza di un contrastante o concorrente diritto di proprietà del convenuto, posto che il mutamento della prospettazione della causa giustificativa della domanda si pone in un ambito solo quantitativo, investendo la misura del diritto di proprietà attribuito al richiedente.

Per la situazione che invece ricorre nella vicenda in esame, in cui a fronte di una domanda inizialmente avanzata verso un terzo sul presupposto della assenza di qualsivoglia diritto dominicale in capo al convenuto, deve invece qualificarsi come nuova la domanda che, fermo restando il petitum, assuma invece che la tutela sia richiesta nella qualità di comproprietario contro altro comproprietario.

In tal senso deve darsi continuità a quanto in passato affermato da questa Corte (Cass. n. 3409/1978) a mente della quale esorbita dai limiti di una consentita emendatio libelli il mutamento della causa petendi che consista in una vera e propria immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, in guisa tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo, perchè fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza. Pertanto è inammissibile la domanda formulata in comparsa conclusionale e fondata su una pretesa violazione del diritto di proprietà esclusiva, mentre nell’atto introduttivo del giudizio la domanda era stata basata su un uso della cosa comune non conforme al dettato dell’art. 1102 c.c..

In tale ipotesi deve invero ritenersi che la differenza tra la richiesta di tutela della proprietà esclusiva ex art. 949 c.c. e quella volta invece a riconoscere la violazione dell’art. 1102 c.c., come appunto accaduto nella fattispecie, non sia di carattere meramente quantitativo, ma investa un profilo anche ed evidentemente qualitativo, che si ripercuote quindi sulla possibilità di ravvisare o meno un’identità tra le due domande. Colui che invoca la tutela della proprietà esclusiva può infatti limitarsi ad allegare la compromissione del suo diritto con la lesione della sfera dominicale, senza la necessità di alcun altro apprezzamento circa la compatibilità dell’uso con il pari diritto del comproprietario, indagine che invece si impone nella diversa ipotesi di cui all’art. 1102 c.c., occorrendo verificare il mantenimento della destinazione e la non compromissione del pari uso degli altri comunisti.

Trattasi quindi di elementi che in quanto necessari da verificare ai fini della fondatezza della domanda, investono anche la causa petendi, e che depongono quindi per la diversità delle due domande.

I motivi vanno dunque rigettati.

5. Stante il rigetto del ricorso, le spese seguono la soccombenza, provvedendosi alla loro liquidazione come da dispositivo nei confronti della controricorrente, con distrazione in favore dell’avv. Silvio Garofalo dichiaratosene antistatario. Quanto invece ai rapporti con l’altro controricorrente, avendo questi mostrato sostanziale adesione alle difese dei ricorrenti, si ritiene che debba escludersi una sua soccombenza e che ricorrano invece i presupposti per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione principale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge, con attribuzione al difensore antistatario, avv. Silvio Garofalo;

Compensa le spese del giudizio tra i ricorrenti e M.S.;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

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