Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32133 del 10/12/2019

Cassazione civile sez. III, 10/12/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 10/12/2019), n.32133

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8562-2018 proposto da:

T.A.I., S.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIALE G. MAZZINI 13, presso lo studio

dell’avvocato ANDREA PARLATORE, rappresentati e difesi dagli

avvocati GIOVANNI BONOTTO, EMANUELA BOTTEGA;

– ricorrenti –

contro

TR.MA., SA.RO., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

VENEZIA 15, presso lo studio dell’avvocato CARLO GRILLI,

rappresentati e difesi dall’avvocato ERICA CASAGRANDE;

e contro

TR.MA.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2458/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 02/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/09/2019 dal Consigliere Dott. PASQUALE GIANNITI;

Fatto

RILEVATO IN FATTO

I coniugi S.A. e T.A.I., originari convenuti, hanno proposto ricorso avverso la sentenza n. 2458/2017 della Corte di Appello di Venezia, che – accogliendo parzialmente l’impugnazione proposta dai coniugi M.C. e D.S.A., originari attori, e l’impugnazione proposta dai coniugi Sa.Ro. e Tr.Ma., chiamati in causa dai coniugi convenuti- ha parzialmente riformato la sentenza n. 174/2013 del Tribunale di Treviso; e per l’effetto, ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria, proposta dagli originari attori M.- D.S. in relazione a pretesi numerosi atti ingiuriosi, di molestia, intimidatori e ritorsivi subiti ad opera dei convenuti S.- T., ma ha respinto anche l’analoga domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale da questi ultimi nei confronti, oltre che dei coniugi attori M.- D.S., anche nei confronti dei coniugi chiamati in causa Sa.- Tr..

Hanno resistito con controricorso i coniugi Sa.- Tr..

In vista dell’odierna adunanza entrambe le parti hanno presentato memoria a sostegno delle rispettive ragioni.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

1. I coniugi S.- T. censurano la sentenza impugnata per due motivi.

1.1. Con il primo motivo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e/o 4, i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale, disattendendo la valutazione del primo giudice – che aveva ritenuto provato il clima intimidatorio, minatorio e minaccioso, esistente all’interno del condominio in conseguenza di comportamenti tenuti dai coniugi M.- D.S. (originari attori), nonchè dai coniugi Sa.- Tr. (terzi chiamati in causa) ai loro danni; e in particolare aveva ritenuto provata, sulla base delle dichiarazioni rese dal teste C.S., la condotta minacciosa tenuta dal Sa. (e dal di lui figlio G.) nei confronti dello S. in data (OMISSIS) – ha ritenuto non provati i suddetti comportamenti svalorizzando la deposizione del teste C. e travisando la condotta della Tr.. Deduce che la Corte territoriale è incorsa (non in una svista sussumibile nella figura dell’errore revocatorio), ma in una carente percezione dei fatti.

1.2. Con il secondo motivo, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti, anche per il caso di mancato accoglimento del primo motivo, denunciano violazione dell’art. 92 c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale, nonostante la reciproca soccombenza, li ha condannati alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio in favore dei coniugi Sa.- Tr., peraltro liquidando dette spese in misura eccessiva.

2. Il ricorso è inammissibile.

2.1. La Corte territoriale – in accoglimento del quarto motivo di appello (con il quale i coniugi M.- D.S. avevano lamentato che il giudice di primo grado erroneamente aveva accolto la domanda riconvenzionale proposta in primo grado dai coniugi convenuti S.- T.) – ha ritenuto non provati comportamenti offensivi e lesivi dell’altrui dignità e decoro o minacciosi, posti in essere ai danni dei coniugi S.- T. dai coniugi Sa.- Tr. (e, tanto meno, dai coniugi M.- D.S.); e conseguentemente – in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda di condanna al risarcimento danni proposta in via riconvenzionale dai coniugi convenuti nei confronti non soltanto dei coniugi originari attori ma anche dei coniugi chiamati in causa.

Queste le argomentazioni poste a base della decisione della corte di merito:

-il primo giudice, accogliendo la domanda riconvenzionale dei coniugi S.- T. (originari convenuti ed odierni ricorrenti), aveva ascritto ai condomini M.- D.S. (originari attori) ed ai condomini Sa.- Tr. (chiamati in causa dai coniugi convenuti) la responsabilità di avere creato all’interno del condominio, agendo “in complicità” tra loro, un “clima intimidatorio, minatorio, minaccioso”, evidentemente ai danni dei convenuti stessi. A fondamento di tale convincimento, il giudice di merito aveva valorizzato due episodi, entrambi avvenuti il (OMISSIS): in occasione del primo la Tr. aveva esposto su un finestrino della propria auto e su uno dei contenitori per rifiuti condominiali la querela 14/10/2008 con la quale la T. aveva accusato i coniugi Sa.- Tr. di avere più volte imbrattato con olio e sale grosso il portone del loro garage e la zona antistante; in occasione del secondo, Sa.Ro. e Gi. avevano minacciato S.A. nel garage condominiale;

– senonchè, quanto al primo fatto, non erano chiari gli effetti minatori, lesivi od offensivi ravvisabili nella condotta della Tr. nei confronti della T. per il solo fatto di voler portare in tal modo i condomini del palazzo a conoscenza di quell’accusa (contro la quale, peraltro, la Tr. doveva difendersi). Pur essendo insito in tale condotta anche l’effetto di creare un certo allarme fra gli altri condomini per la lite esistente tra quelle famiglie, e quindi un certo clima di tensione all’interno del condominio, di tale situazione avrebbero potuto dolersi tali altri condomini, ma non la T., che evidentemente era ben a conoscenza della querela da lei sporta, come pure verosimilmente lo era il di lei marito S.. D’altra parte nella querela era stato descritto un comportamento censurabile della stessa Tr., del quale erano vittime i coniugi S.- T., sicchè detta pubblicità non avrebbe potuto sortire alcun effetto diffamatorio o minatorio verso questi ultimi.

-quanto poi all’ulteriore episodio, dall’audizione del teste C.S. era emerso che questi, quel 30 marzo, scendendo le scale, aveva udito all’interno del garage condominiale Sa.Ro. ed il di lui figlio G. affermare nei confronti di S.A.: “ti tagliamo i coglioni”. Il teste non aveva precisato, peraltro, di avere assistito alla pronuncia di questa frase, ma di averla soltanto udita, e neppure aveva precisato la distanza a cui si trovava dai litiganti; pertanto, non si poteva escludere che egli abbia potuto soltanto udire la frase, scendendo dalle scale, ma da quella posizione non abbia potuto vedere i soggetti coinvolti. Non era chiaro, quindi, se destinatario della minaccia era stato proprio lo S. e nemmeno chi dei due Sa. (padre e figlio) l’avesse pronunciata, oppure se entrambi avessero rivolto contestualmente allo S. la minaccia. Se fosse stato solo il figlio, il padre non ne avrebbe potuto rispondere. Di questo episodio, dunque, non vi era prova certa, quanto meno sotto il profilo che l’episodio fosse imputabile sicuramente a Sa.Ro.;

– entrambi i comportamenti censurati non erano affatto imputabili ai consorti M.- D.S., non essendo risultato che costoro vi avessero partecipato o concorso in alcun modo.

2.2. Il primo motivo è inammissibile.

Invero, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640193 – 01), entrambe le norme richiamate sono state erroneamente denunciate.

Ciò in quanto la violazione dell’art. 115 c.p.c. non può essere dedotta come vizio di legittimità denunciando che il giudice di merito, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, come per l’appunto si verifica nel caso di specie; ma può essere dedotta come vizio di legittimità soltanto denunciando che il giudice di merito ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa al di fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, ipotesi queste che nella specie indubbiamente non ricorrono.

D’altra parte, la violazione dell’art. 116 c.p.c. è idonea ad integrare il vizio di violazione di legge, sostanziale o processuale, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime. Ma nessuna di dette due ipotesi ricorre all’evidenza nella specie.

D’altronde, può essere utile aggiungere che in via generale il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo a vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, e, in particolare, non è inquadrabile: nè nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 3, in quanto detta disposizione postula sempre l’esistenza di un problema interpretativo della norma denunciata; e neppure nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 4, in quanto detta disposizione – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).

Nella specie, il ricorrente – lungi dal denunciare il mancato rispetto, da parte del giudice a quo, del principio del libero apprezzamento delle prove (ovvero del vincolo di apprezzamento imposto da una fonte di prova legale) – denuncia inammissibilmente un (preteso) cattivo esercizio, da parte della corte territoriale, del potere di apprezzamento del fatto sulla base delle prove selezionate, spingendosi a prospettare una diversa lettura dei fatti di causa. Il tutto secondo un’operazione critica, che, come è noto, è inammissibile in questa sede di legittimità.

2.3. Inammissibile è anche il secondo motivo.

La Corte territoriale ha ritenuto che l’esito del giudizio aveva evidenziato nel complesso una soccombenza reciproca tra i coniugi M.- D.S. (originari attori) ed i coniugi S.- T. (originari convenuti), con la conseguenza che le spese di lite per entrambi i gradi andavano tra gli stessi interamente compensate. Al contrario, ha ritenuto che i coniugi S.- T. erano risultati soccombenti nei confronti dei coniugi Sa.- Tr., da essi chiamati in causa; e conseguentemente li ha condannati a rifondere le spese processuali sostenute da quest’ultimi, spese che sono state liquidate come da dispositivo ai valori medi (in base alle tariffe di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 per il primo grado ed al D.M. 10 marzo 2014, n. 55 per il secondo grado).

I ricorrenti si lamentano che la Corte territoriale, nonostante la reciproca soccombenza, li ha condannati alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio in favore dei coniugi Sa.- Tr. (peraltro liquidando dette spese in misura che del tutto genericamente -e, quindi, inammissibilmente – indicano come eccessiva). Ma, tanto affermando, dimenticano che erano stati loro a chiamare in causa i coniugi Sa.- Tr. (che non avevano introdotto alcuna domanda in giudizio) e mostrano di non considerare che, in tema di spese processuali, la decisione del giudice di merito è censurabile sotto il profilo della violazione di legge solo nel caso in cui – caso che non ricorre nella specie – le spese siano poste, in tutto o in parte, a carico della parte totalmente vittoriosa; ovvero allorquando sia stato violato il principio dell’inderogabilità della tariffa professionale ovvero vi sia stato il mancato riconoscimento di spese asseritamente documentate (Cass. 21-1-05, n. 1313; Cass. 23-8-03, n. 12413).

3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali, sostenute dalla controparte, nonchè la declaratoria di sussistenza di presupposti per il pagamento dell’importo, previsto per legge ed indicato in dispositivo.

PQM

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna parte ricorrente al pagamento in favore di parte resistente delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera di parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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