Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32098 del 09/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 09/12/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 09/12/2019), n.32098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7374-2018 proposto da:

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA

VITTORIA 9, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARIA ANTONIO

ALMA, rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE INGRASSIA;

– ricorrente –

contro

CATANIA MULTISERVIZI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONINI,

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO ANDRONICO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1396/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 21/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 03/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCA

SPENA.

Fatto

RILEVATO

Che:

con sentenza in data 30 novembre- 21 dicembre 2017 n. 1396 la Corte d’Appello di Catania, giudice del reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 58 e ss., confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva respinto la domanda proposta da P.G. nei confronti del datore di lavoro CATANIA MULTISERVIZI S.p.A. per l’impugnazione del licenziamento del 28 aprile 2014;

che a fondamento della decisione la Corte territoriale reputava infondate le allegazioni del lavoratore circa l’avvenuto licenziamento; il lavoratore sosteneva che dopo il licenziamento già intimatogli nell’anno 2002 il rapporto di lavoro era stato ricostituito o che, comunque, era sorto un nuovo rapporto di lavoro.

Tali allegazioni erano basate sul fatto che nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento dell’anno 2002 il rapporto di lavoro era stato ripristinato dalla società in esecuzione della sentenza di primo grado (che aveva accolto la domanda del lavoratore) e che nonostante la riforma in appello della statuizione di prime cure (sentenza della Corte d’Appello di Catania del 27.10.2010) il rapporto era comunque proseguito, per ulteriori quattro anni.

Sul punto il giudice del reclamo osservava che- nonostante l’effetto di caducazione immediata dell’ordine di reintegra in servizio prodotto dalla riforma – doveva escludersi che il mantenimento in servizio del lavoratore integrasse per fatti concludenti una rinuncia al licenziamento ovvero agli effetti della sentenza di appello.

La costituzione della società datrice di lavoro nel giudizio di cassazione e la tempestiva estromissione del lavoratore all’esito della lite rendevano palese la volontà di non rinunciare nè al licenziamento nè agli effetti della sentenza di appello. Il comportamento della società trovava spiegazione, come già ritenuto dal giudice del primo grado, nella scelta di attendere l’esito del giudizio di cassazione e di evitare il rischio di dover provvedere, in caso di soccombenza, ad un nuovo ripristino del rapporto di lavoro ed al risarcimento dei danni.

Era evidente la differenza tra l’ipotesi considerata e quella in cui il datore di lavoro continuasse a mantenere il dipendente in servizio dopo la formazione del giudicato sulla legittimità del licenziamento; solo in tal caso la condotta del datore di lavoro era suscettibile di integrare rinuncia al licenziamento, salvo prova contraria.

Nella fattispecie di causa non era ravvisabile neppure questa eventualità: la società aveva provato di avere appreso dell’esito del giudizio di cassazione tramite mail del proprio difensore registrata in data 14 marzo 2014. Non rilevava accertare se tale mail avesse i requisiti di una scrittura privata; rilevava, piuttosto, la esistenza della comunicazione e la sua registrazione al protocollo il giorno successivo.

Era ragionevole, peraltro, che la conoscenza della pubblicazione della sentenza fosse avvenuta attraverso il difensore e con le modalità documentate.

Ne derivava la tempestività della lettera di estromissione del P., datata 31 marzo 2014, considerato che la data di spedizione della lettera (24 aprile 2014) era compatibile con la complessità della struttura organizzativa aziendale (società per azioni che occupava quasi 500 unità di personale);

che avverso la sentenza ha proposto ricorso P.G., articolato in cinque motivi, cui ha resistito con controricorso la società CATANIA MULTISERVIZI S.p.A.;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale- ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

che entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

la parte ricorrente ha dedotto:

– con il primo motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 -violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.- in relazione all’art. 336 c.p.c., comma 2 ed all’art. 1334 c.c.- nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c.- in relazione agli artt. 115,116 e 336 c.p.c., comma 2.

Si censura la sentenza per avere accertato, in assenza di prova, la volontà della datrice di lavoro di mantenerlo in servizio al solo fine di evitare il rischio derivante dall’eventuale soccombenza nel giudizio di cassazione; si assume che il suo mantenimento in servizio in mancanza di riserve costituiva rinuncia per fatti concludenti agli effetti della sentenza della Corte d’appello ovvero al recesso;

– con il secondo motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dei criteri di interpretazione del contratto di cui all’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, artt. 1364 e 1367 c.c.- in relazione all’art. 2094 c.c. e al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c.. Con il motivo si imputa alla Corte territoriale di non avere valutato il comportamento complessivo della CATANIA MULTISERVIZI, anche posteriore al licenziamento (il suo mantenimento in servizio dopo la riforma della pronuncia di reintegra).

Si ripropongono le considerazioni svolte nel primo motivo e si deduce che una eventuale riserva rispetto al ripristino del rapporto di lavoro avrebbe dovuto essere formalizzata con atto scritto ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, trattandosi della apposizione di un termine al contratto di lavoro.

Si imputa, altresì, alla Corte territoriale di non avere considerato che l’onore della prova gravava sul datore di lavoro, che eccepiva la provvisorietà del suo mantenimento in servizio. La resistenza nel giudizio di cassazione e la successiva estromissione non erano indici sufficienti a fornire la prova per presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c.; comunque, era stato violato il limite di cui al comma due dell’art. 2729 c.c.;

– con il terzo motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonchè degli artt. 370 e 373 c.p.c., in relazione all’art. 336 c.p.c., comma 2, per avere la Corte territoriale omesso di considerare che i precetti di buona fede e correttezza avrebbero imposto a ciascuna delle parti di comunicare all’altra l’eventuale esistenza di circostanze ostative alla definitiva ricostituzione del rapporto di lavoro.

Si espone che la CATANIA MULTISERVIZI non solo non aveva dato prova della notifica del controricorso ma che, comunque, occorreva valutare la sua condotta successivamente alla costituzione nel giudizio di cassazione.

Si imputa alla Corte territoriale la violazione dell’art. 373 c.p.c., per avere svilito il principio dell’immediata efficacia esecutiva della sentenza d’appello;

– con il quarto motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione dell’art. 336 c.p.c., comma 2, come vigente ratione temporis, in relazione all’art. 2909 c.c., per avere il giudice del reclamo distinto l’ipotesi della riforma della sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento da quella del passaggio in giudicato del rigetto della impugnazione, così disconoscendo l’immediato effetto della sentenza di riforma previsto dall’art. 336 c.p.c., comma 2;

– con il quinto motivo- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., comma 1, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c..

La sentenza viene impugnata nella parte in cui attribuiva data certa alla mail del difensore che comunicava l’esito del giudizio di cassazione in ragione della apposizione di un numero di protocollo interno, senza considerare che tale protocollo non aveva valenza di prova, perchè proveniva dalla stessa parte interessata.

La Corte di merito aveva dunque errato nel ritenere provato che la società avesse avuto notizia dell’esito del giudizio di cassazione soltanto in data 14 marzo 2014.

Si assume altresì:

– la assenza di prova della data di formazione della comunicazione di estromissione accertata in sentenza (31 marzo 2014), non potendosi attribuire efficacia probatoria alla data indicata sulla comunicazione dalla stessa parte interessata.

– la violazione dell’art. 2697 c.c., per non avere la Corte territoriale considerato che gravava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere avuto conoscenza della definizione del giudizio di cassazione solo in epoca successiva alla pubblicazione della sentenza e di avere reagito tempestivamente. Tale onere non era stato assolto e ciò anche a voler ammettere che la volontà del datore di lavoro potesse essere dimostrata per presunzioni senza incorrere nel divieto di cui all’art. 2729 c.c., comma due (la volontà di licenziamento non poteva essere provata per testi).

– il vizio del ragionamento presuntivo secondo cui il fatto che la comunicazione lettera datata 31 marzo 2014 fosse stata spedita dalla controparte ben 24 giorni dopo era compatibile con le dimensioni aziendali;

che in via preliminare deve essere superata la questione di tardività della impugnazione sollevata dalla società controricorrente. La tempestività del ricorso in cassazione deve essere verificata, infatti, per la parte ricorrente- per il principio di scissione del momento di perfezionamento della notifica per il notificante e per il destinatario- in ragione della data di consegna del ricorso all’ufficiale giudiziario per la notifica, nella specie avvenuta il 19.02.2018 (come da data apposta a stampa sul frontespizio del ricorso) e dunque nel rispetto del termine di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62 (la comunicazione della sentenza impugnata è avvenuta in data 21.12.2017);

che, venendo all’esame delle ragioni di censura, ritiene il Collegio si debba dichiarare inammissibile il ricorso;

che, invero, i cinque motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, pongono in discussione l’accertamento, compiuto dal giudice del reclamo, della volontà del datore di lavoro di portare ad esecuzione il licenziamento intimato nell’anno 2002. Trattasi di un tipico di accertamento di fatto, denunziabile davanti a questo giudice di legittimità nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione sicchè è in limine ostativo il rilievo che il giudizio conforme sul punto reso nei due gradi di merito impedisce di poter denunziare in questa sede il vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5.

Le violazioni di diritto dedotte non sono pertinenti al decisum.

Si rileva, infatti, che il primo ed il secondo motivo pongono in discussione, nonostante la formale qualificazione esposta nella rubrica, il concreto convincimento raggiunto dal giudice del reclamo all’esito della valutazione delle risultanze istruttorie. Non rileva in causa la disciplina del contratto a termine, evocata con il secondo motivo, essendo stata accertata dalla sentenza impugnata la volontà del datore di lavoro di dare esecuzione al licenziamento intervenuto nel rapporto di lavoro a

tempo indeterminato ed esclusa, invece, la costituzione di un nuovo

rapporto di lavoro a termine. Il giudice del reclamo, poi, non ha affatto posto in discussione l’effetto immediato della sentenza di riforma, contrariamente a quanto dedotto con il terzo ed il quarto motivo di ricorso, ma, piuttosto, ha ritenuto che tale effetto non potesse ex se sorreggere le allegazioni del ricorrente in punto di rinuncia del datore di lavoro agli effetti del recesso o della sentenza dichiarativa della sua legittimità.

Nè è stata dedotta in causa la violazione degli obblighi di buona fede della parte datoriale, che avrebbe potuto al più dare luogo ad una pretesa risarcitoria.

Del pari inconferente è la denuncia di violazione dell’art. 2697 c.c. La regola processuale viene in rilievo nelle sole fattispecie in cui il giudice del merito, in assenza della prova del fatto controverso, applichi la regola di giudizio basata sull’onere della prova, individuando come soccombente la parte onerata della prova; è in tale eventualità che il soccombente può dolersi della non corretta ripartizione del carico della prova.

Nell’ipotesi di causa la Corte territoriale ha ritenuto positivamente provata- sulla base dei fatti storici accertati e della loro cronologia- la volontà del datore di lavoro di coltivare il giudizio e di dare seguito al licenziamento sicchè non hanno influito sulla decisione la distribuzione dell’onere probatorio e le conseguenze del suo mancato assolvimento.

Errata è poi la prospettiva del ricorrente secondo cui sarebbe stata necessaria la prova scritta, in quanto non era in discussione la esistenza del licenziamento, richiedente la prova scritta, ma una pretesa rinuncia ad esso.

Anche le ulteriori violazioni dedotte con il quinto motivo non colgono alcun principio di diritto enunciato nella sentenza impugnata: la sentenza infatti ha accertato il fatto storico (data di conoscenza del giudicato da parte del datore di lavoro e data di comunicazione della estromissione) sulla base della libera valutazione degli elementi istruttori senza applicare le disposizioni sulla scrittura privata e sulla sua data certa;

che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.;

che le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, il ricorrente, ammesso al patrocinio a spese dello Stato con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del 20.02.2018, non è tenuto al versamento dell’ulteriore importo del contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, stante la prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 11 e 131 del medesimo decreto (ex plurimis: Cassazione civile, sez. VI, 12/04/2017, n. 9538).

PQM

La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 3.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2019

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