Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32075 del 12/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2018, (ud. 13/04/2018, dep. 12/12/2018), n.32075

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19242/2011 R.G. proposto da:

Giardini Accursio s.r.l., in persona del l.r.p.t., elettivamente

domiciliata in Roma alla via XX settembre n. 26, presso l’avv.

Gaetano Tasca, che la rappresenta e difende insieme con l’avv.

Alessandro Turchi e con l’avv. Massimo Turchi;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8/49/11 emessa dalla Commissione Tributaria

Regionale della Lombardia, depositata il 21 gennaio 2011 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 aprile 2018

dal Consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo l’accoglimento

del ricorso;

udito l’avv. Gaetano Tasca per la società ricorrente e l’avvocato

dello stato Pisana Carlo Maria per l’Agenzia delle entrate,

controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Giardini Accursio s.r.l. ricorre con cinque motivi avverso l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 8/49/11 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, depositata il 21 gennaio 2011 e non notificata, che, in controversia concernente l’impugnativa dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), relativo ad IRPEG ed IRAP per l’anno di imposta 2003, ha rigettato l’appello della società contribuente avverso la sentenza della C.T.P. di Milano che, a sua volta, aveva rigettato il ricorso introduttivo.

2. Espone la ricorrente che l’Ufficio aveva erroneamente disconosciuto gli effetti della rivalutazione su di un terreno, iscritto tra le immobilizzazioni materiali fin dal 1985, rivalutato nel 2001, ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 3, e ceduto a terzi nel giugno 2003.

3. Con ricorso alla C.T.P. di Milano, la società, quindi, ha chiesto l’annullamento dell’avviso di accertamento per la mancanza di motivazione sulla ripresa effettuata e per la correttezza dell’operazione di rivalutazione, ma la C.T.P. di Milano ha rigettato il ricorso sul presupposto che la normativa richiamata dalla contribuente (L. n. 342 del 2000 e L. n. 488 del 2001) non fosse applicabile ai beni che costituivano oggetto dell’attività di scambio dell’impresa (beni merce).

4. Con la sentenza impugnata, la C.T.R. della Lombardia, confermando la decisione dei primi giudici, ha ritenuto che i terreni rivalutati dalla società erano da ritenersi esclusi dalla possibilità di rivalutazione, ai sensi del L. n. 342 del 2000, art. 10, in quanto rientranti tra i beni alla cui produzione o al cui scambio era diretta l’attività imprenditoriale.

Inoltre, secondo la C.T.R. la società, che aveva rivalutato solo il 4,44% dei beni appartenenti alla categoria omogenea, non poteva procedere alla rivalutazione anche per l’ulteriore considerazione che, ai sensi della legge citata, art. 11, la rivalutazione “deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea”.

5. A seguito del ricorso della società contribuente, l’Agenzia delle Entrate si è costituita, resistendo con controricorso.

6. La società ricorrente ha depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente censura la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la decadenza dell’Amministrazione Finanziaria dal potere di accertamento.

Secondo la ricorrente, l’Amministrazione avrebbe dovuto disconoscere la rivalutazione dichiarata nel Modello Unico 2002 entro il 31 dicembre 2006, mentre l’avviso di accertamento le era stato notificato il 15 dicembre 2008; sostiene, inoltre, che la decadenza dell’Amministrazione dal potere di accertamento sarebbe rilevabile anche di ufficio, e che l’atto emesso oltre il termine sarebbe inesistente per carenza di potere, vizio insanabile, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, con conseguente inapplicabilità della disciplina della decadenza di cui all’art. 2969 c.c..

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.3. Invero, la ricorrente ha contestato la decadenza dell’Amministrazione, per averle notificato l’avviso di accertamento oltre i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per la prima volta con il ricorso in Cassazione, introducendo nel giudizio una domanda del tutto nuova.

Il collegio ritiene che non vi sia motivo di discostarsi dal consolidato orientamento, più volte ribadito ed ampiamente argomentato da questa Corte, secondo cui “il termine di decadenza stabilito, a carico dell’ufficio tributario ed in favore del contribuente, per l’esercizio del potere impositivo, ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del fisco, sicchè è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o meno della relativa eccezione, da ritenersi, pertanto, eccezione in senso proprio, non rilevabile d’ufficio nè proponibile per la prima volta in grado d’appello, ne discende, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, la validità della cartella di pagamento emessa sulla base di un avviso di accertamento notificato dopo la scadenza del termine di decadenza di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, qualora la decadenza dell’Amministrazione dalla pretesa fiscale non sia stata ritualmente dedotta dal contribuente” (Cass. sent. n. 14028/11; vedi anche n. 2552/03; n. 22015/04; n. 26361/06; n. 18019/07; n. 171/15).

Avendo la ricorrente eccepito la decadenza dell’Amministrazione per la prima volta con il presente motivo di ricorso, la doglianza è inammissibile.

2.1. Con il secondo motivo di ricorso, la società denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la motivazione dell’avviso di accertamento non era idonea a soddisfare i requisiti minimi in tema di obbligo motivazionale, imposti dalla legge.

In particolare, la ricorrente sostiene che la motivazione, seppur formalmente presente, sarebbe giuridicamente inesistente, non consentendo alla contribuente di comprendere le ragioni giuridiche sottese alla ripresa a tassazione.

2.2. Il motivo è infondato.

2.3. Come si evince dal quanto riportato dalla stessa ricorrente, l’avviso di accertamento contiene una motivazione sicuramente sufficiente relativamente all’indicazione degli elementi di fatto e di diritto posti a base della pretesa tributaria.

Con l’avviso di accertamento, infatti, l’Amministrazione “disconosce i nuovi valori conseguiti alla rivalutazione” perchè qualifica i “beni oggetto di rivalutazione” quali “beni – merce”, ” al cui scambio è diretta l’attività di impresa”.

La motivazione, quindi, indipendentemente dalla sua fondatezza, è effettiva, chiaramente comprensibile e logicamente coerente; nè può indurre in errore il riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 41 bis, senza il richiamo all’art. 40 sulla “rettifica delle dichiarazioni dei soggetti diversi dalle persone fisiche”, poichè dal tenore dell’avviso è assolutamente univoco il suo riferimento all’accertamento dei redditi societari.

Non si ravvisa, quindi, il dedotto vizio di carenza motivazionale dell’atto.

3.1. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione della sentenza di appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, su di un fatto decisivo e controverso, consistente nell’implicito rigetto, da parte dei giudici di secondo grado, dell’eccezione di carenza motivazionale dell’avviso di accertamento.

3.2. Il motivo deve ritenersi assorbito nel primo, poichè l’eventuale dedotta carenza motivazionale può essere superata con le argomentazioni espresse sub 2.3.

Ed invero, come chiarito nell’esame del precedente motivo di ricorso, si può escludere che l’avviso di accertamento sia stato emesso in violazione di legge, non ravvisando la carenza motivazionale denunciata dalla ricorrente.

4.1. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 3, del D.M. n. 162 del 2001 e dell’art. 2424 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce la società ricorrente che il bene oggetto di rivalutazione era ricompreso tra le immobilizzazioni materiali fin dal bilancio del 1985 e non rientrava tra quelli alla cui produzione o scambio era diretta l’attività di impresa; inoltre, la rivalutazione aveva riguardato l’intera categoria omogenea di beni (aree fabbricabili aventi la stessa destinazione urbanistica, secondo la classificazione di cui al D.M. n. 162 del 2001, art. 4, comma 5); pertanto la decisione della C.T.R., che aveva ritenuto legittima la ripresa a tassazione, violava le disposizioni di legge sopra menzionate.

4.2. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

4.3. La L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 10, delimita l’ambito di applicazione della rivalutazione dei beni delle imprese, disponendo che i soggetti indicati nel Tuir, art. 87, comma 1, lett. a) e b), (ovvero le società e gli enti commerciali residenti, attualmente indicati nel Testo unico riformato, art. 73, comma 1, lett. a) e b)), possono, anche in deroga all’art. 2426 c.c. e a ogni altra disposizione di legge vigente in materia, rivalutare i beni materiali e immateriali con esclusione di quelli alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa.

Il successivo art. 11 (rubricato “modalità di effettuazione della rivalutazione”) ha stabilito che la rivalutazione “deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea” (comma 1).

Il D. del Ministro delle finanze 13 aprile 2001, n. 162, infine, ha ribadito, all’art. 4 (rubricato “rivalutazione per categorie omogenee”), che “ai fini fiscali, la rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea” (comma 1), stabilendo al comma 5, per quanto interessa in questa sede, che “gli immobili vanno considerati separatamente dai beni mobili iscritti in pubblici registri e, ai fini della classificazione in categorie omogenee, si distinguono in aree fabbricabili aventi la stessa destinazione urbanistica, aree non fabbricabili, fabbricati non strumentali, nonchè fabbricati strumentali ai sensi del Testo Unico delle imposte sui redditi, art. 40, comma 2, primo periodo, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 fabbricati strumentali ai sensi del citato Testo Unico, art. 40, comma 2, secondo periodo”.

Ciò posto, dall’esame della normativa citata, deve essere condivisa la tesi della ricorrente, secondo la quale le norme suddette vanno interpretate nel senso che è possibile la rivalutazione dei beni cd. patrimoniali (destinati ad un uso durevole ed inseriti in bilancio nelle immobilizzazioni materiali) e che tale rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla medesima “categoria omogenea”.

La decisione della C.T.R. della Lombardia non si pone in contrasto con tali principi, ma, con accertamento in fatto, insindacabile in questa sede, ha ritenuto che fosse legittima la ripresa a tassazione da parte dell’Amministrazione, sul presupposto che i terreni rivalutati dalla società Giardini Accursio s.r.l. rientrassero tra quelli al cui scambio era diretta l’attività di impresa, rilevando che in tal senso deponeva la natura dell’attività esercitata dalla società.

Inoltre il giudice di appello ha ritenuto che la rivalutazione avesse riguardato solo una parte dei beni rientranti nella categoria omogenea, con la conseguenza del disconoscimento degli effetti fiscali della rivalutazione per tutti gli altri beni della stessa categoria.

Le conclusioni cui perviene la C.T.R. non si basano su di un’errata interpretazione giuridica delle norme che regolano la materia, bensì su di un giudizio di fatto insindacabile in questa sede, se non con la censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che la ricorrente non ha avanzato.

Il motivo, quindi, risulta infondato quanto alla censura della violazione di legge, mentre è inammissibile se volto ad estendere il sindacato di legittimità all’accertamento del fatto.

5.1. Con il quinto ed ultimo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, poichè i giudici di appello non avrebbero rilevato che l’assunto dell’Amministrazione era del tutto sfornito di supporto probatorio.

In particolare, l’Amministrazione avrebbe sostenuto che i beni oggetto di rivalutazione erano inseriti in bilancio tra le rimanenze e che la loro cessione aveva dato luogo a “ricavi”, senza produrre i bilanci e le dichiarazioni fiscali attribuibili alla società contribuente.

5.2. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

5.3. Ed invero, con la decisione impugnata la C.T.R. della Lombardia, correttamente applicando il principio di distribuzione dell’onere probatorio, ha ritenuto che la ripresa a tassazione fosse giustificata in relazione alla natura dell’attività imprenditoriale esercitata dalla società, che costituiva evidentemente per i giudici di appello un elemento indiziario determinante, e che il contribuente non avesse assolto all’onere di dimostrare la sussistenza dei requisiti di legge per una legittima rivalutazione del bene.

La censura, quindi, è infondata, poichè non vi è violazione del principio di corretta distribuzione dell’onere probatorio, nonchè inammissibile nella parte in cui, lamentando l’omessa produzione da parte dell’Agenzia delle Entrate dei bilanci, non coglie la “ratio” della decisione impugnata, che prescinde dalle risultanze documentali.

5.3. Atteso il rigetto del ricorso, la ricorrente deve essere condannata al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

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