Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32074 del 12/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 12/12/2018, (ud. 13/04/2018, dep. 12/12/2018), n.32074

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n.14562/2011 R.G. proposto da

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

Ferlatta Centro di Servizi S.p.A., in persona del l.r.p.t.,

elettivamente domiciliata in Roma alla via Mazzini n.9, presso

l’avv. Livia Salvini, che la rappresenta e difende insieme con gli

avv.ti Elenio Bidoggia e Giovanna Oddo.

– controricorrente –

avverso la sentenza n.50/40/10 emessa il 3/12/2009 dalla Commissione

Tributaria Regionale della Lombardia, depositata il 9/4/2010 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13/4/2018 dal

Consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo accoglimento

del ricorso;

udito l’avvocato dello Stato Carlo Maria Pisana per l’Agenzia delle

Entrate e l’avv. Elenio Bidoggia per la società controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La FERLATTA CENTRO di SERVIZI SPA (in seguito: Ferlatta) impugnava dinanzi alla CTP di Milano l’avviso di accertamento n.(OMISSIS) relativo ad IRES ed IRAP per l’anno 2004, con il quale l’Agenzia delle Entrate di Magenta aveva rettificato il reddito d’impresa dichiarato dalla società, contestando maggiori ammortamenti su cespiti iscritti in bilancio.

Secondo l’Agenzia delle Entrate i maggiori ammortamenti erano stati generati dalla rivalutazione dei cespiti, attuata per effetto di una indebita utilizzazione fiscale del disavanzo derivante dal processo di fusione per incorporazione con la società controllata LITOBOX srl; l’utilizzazione fiscale del disavanzo era da ritenere indebita in quanto la delibera di approvazione del progetto di fusione (pubblicato in G.U. il 19-12-1994) era stata adottata il 20-12-1994, senza rispettare il termine di un mese (tra la pubblicazione e la delibera) previsto dall’art. 2501 bis cc.

L’Ufficio sosteneva che, se fosse stato rispettato il termine, la delibera di fusione avrebbe potuto essere approvata dall’assemblea solo in data 181-1995, nel vigore della legge 724/94, che, a partire dal 1-1-1995 (art. 47), aveva reso fiscalmente neutre le operazioni di fusione (art. 27); dal che, appunto, l’illegittimità dell’utilizzazione fiscale del disavanzo, non essendo consentito ai privati di interferire con il regime temporalmente previsto dal legislatore per regolare i fatti aventi rilevanza giuridica.

In motivazione la CTP di Milano rilevava che il termine dilatorio di un mese previsto dalla legge era esclusivamente nell’interesse dei soci e non dei terzi, sicchè i soci medesimi, trattandosi di un diritto disponibile, ben potevano rinunciarvi; l’Agenzia non aveva, invece, alcun interesse diretto all’operazione di fusione, sicchè l’inosservanza del termine non poteva comportare gli effetti sostenuti dall’Ufficio.

Avverso detta sentenza proponeva appello l’Agenzia delle Entrate, cui resisteva la Ferlatta.

Avverso la sentenza della CTR della Lombardia, che ha rigettato l’appello, l’Agenzia delle Entrate ricorre con cinque motivi; resiste la Ferlatta con controricorso.

La società controricorrente ha depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente Agenzia denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art.53, in relazione all’art. 360 c.p.c, comma 1, n.4.

Ed invero, la sentenza della C.T.R. ha ritenuto inammissibile l’appello dell’Agenzia delle Entrate, perchè meramente riproduttivo delle argomentazioni svolte in primo grado, senza specifiche censure alla sentenza impugnata.

Sostiene la ricorrente, invece, che dalla semplice lettura dell’atto di appello emergerebbe, oltre alla reiterazione delle originarie argomentazioni, la specificità dei motivi, con la puntuale critica delle statuizioni contenute nella pronuncia del giudice di primo grado.

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.3. Dopo aver brevemente illustrato la doglianza, la ricorrente, a pag.3 del ricorso, manifesta l’intenzione di trascrivere integralmente il ricorso in appello, al fine di consentire l’esame dei motivi di appello nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione.

In realtà, l’atto di appello non viene trascritto, nè integralmente, nè parzialmente nei limiti di rilevanza in questa sede.

Come è già stato detto da questa Corte, “l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità” (Cass. sent. n.20405/2006).

Alla luce del principio sopra esposto, deve ritenersi che, come correttamente dedotto dalla società controricorrente, il primo motivo di ricorso è inammissibile, perchè non riporta i motivi di appello, sui quali la Corte è chiamata a svolgere il proprio esame.

Nè a tal fine può ritenersi sufficiente l’elencazione sintetica delle doglianze dell’Ufficio, contenuta a pagina 5 del ricorso, poichè tale modalità di esposizione non è riproduttiva dei motivi di appello, ma costituisce una rielaborazione degli stessi e non consente, quindi, il dovuto controllo sulla formulazione dei motivi.

1.4. All’inammissibilità del primo motivo di ricorso consegue l’assorbimento dei successivi (tutti relativi a questioni di merito: omessa o apparente motivazione nel merito, violazione e falsa applicazione della L. n.724 del 1994, artt. 27 e 47 e art. 2501 bis c.c.), poichè viene confermata la statuizione dei giudici di secondo grado, pregiudiziale rispetto all’esame del merito, sull’inammissibilità del ricorso in appello.

1.5. Attesa la soccombenza, l’Agenzia ricorrente deve essere condannata al pagamento in favore della società controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, e condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento in favore della società controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00, oltre il 15% per spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

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