Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32016 del 09/12/2019

Cassazione civile sez. I, 09/12/2019, (ud. 27/06/2019, dep. 09/12/2019), n.32016

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29773/2015 R.G. proposto da:

DOMUS ICE IMPRESA COSTRUZIONI EDILI S.P.A., in liquidazione, in

persona del liquidatore p.t. F.R., rappresentata e difesa

dall’Avv. Marco B. Salomone, con domicilio eletto in Roma, corso

Vittorio Emanuele II, n. 326, presso lo studio dell’Avv. Prof.

Claudio Scognamiglio;

– ricorrente –

contro

CREDITO VALTELLINESE S.C., rappresentato da M.C.,

rappresentato e difeso dall’Avv. Prof. Franco Anelli e dagli Avv.

Adriana Cavigioli ed Ernesto Mocci, con domicilio eletto presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, via Germanico, n. 146;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 2100/15,

depositata il 14 maggio 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 giugno

2019 dal Consigliere MERCOLINO Guido.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Domus ICE Impresa Costruzioni Edili S.p.a. in liquidazione, già titolare di un conto corrente presso il Credito Artigiano S.p.a., convenne in giudizio la Banca, per sentir dichiarare la nullità delle clausole che prevedevano interessi ultralegali e la capitalizzazione trimestrale degl’interessi e per sentir rideterminare il rapporto contabile, anche ai fini della verifica in ordine all’eventuale superamento del tasso-soglia, con la condanna della convenuta alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate, ovvero, dato atto delle somme già versate in adempimento di una convenzione stipulata il 27 aprile 1998, con la dichiarazione che nessuna somma era più dovuta.

Si costituì il Credito Artigiano, e resistette alla domanda, della quale chiese il rigetto, eccependo in particolare la prescrizione del diritto azionato, e proponendo domanda riconvenzionale di condanna al pagamento della somma di Euro 3.924.876,94, oltre interessi.

1.1. Con sentenza del 18 marzo 2010, il Tribunale di Milano dichiarò la nullità della clausola che prevedeva la capitalizzazione degl’interessi, ma rigettò la domanda principale, dichiarando prescritta l’azione di ripetizione dell’indebito relativamente al decennio anteriore alla proposizione della domanda, ed accolse parzialmente la domanda riconvenzionale, condannando l’attrice al pagamento della somma di Euro 3.569.086,81, oltre interessi legali dal 17 novembre 2005.

2. L’impugnazione proposta dalla Domus ICE è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Milano, che con sentenza del 14 maggio 2015 ha accolto anche il gravame incidentale proposto dal Credito Artigiano, rideterminando la somma dovuta in Euro 5.352.581,40, oltre interessi legali.

Premesso che con la convenzione del 27 aprile 1998 l’attrice aveva raggiunto un accordo con una pluralità di banche creditrici, in virtù del quale s’impegnava a liquidare il proprio patrimonio immobiliare per destinare il ricavato alla soddisfazione delle banche, e rilevato che tale accordo si era risolto a seguito dell’avveramento della condizione risolutiva concordata tra le parti, consistente nel mancato versamento alle creditrici del capitale risultante al 31 dicembre 2000 entro il 31 dicembre 2002, la Corte ha ritenuto chiara la natura transattiva dell’atto, con cui le banche avevano rinunciato ad azioni individuali e agl’interessi maturati al 1 luglio 1997, osservando che per effetto della risoluzione si era verificata la prevista reviviscenza dei diritti di credito e della facoltà delle banche di agire per il recupero degli stessi. Pur precisando che il venir meno dell’efficacia negoziale della convenzione non impediva di ravvisarvi il minus proprio del riconoscimento del debito, ha ritenuto che ciò non escludesse l’ammissibilità della domanda di accertamento della nullità di alcune poste di credito.

Ciò posto, la Corte ha confermato la prescrizione del diritto alla restituzione delle somme versate, rilevando che nel corso del rapporto di conto corrente la debitrice aveva superato i limiti del finanziamento concesso, e richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di ripetizione delle rimesse indebitamente effettuate in conto corrente, in virtù del quale ha affermato che i versamenti eseguiti dalla Domus ICE non potevano definirsi ripristinatori, ma solutori, ed il termine di prescrizione non poteva essere fatto decorrere dalla chiusura del conto, ma dalla data di compimento delle singole operazioni.

In ordine alla domanda di pagamento della somma dovuta dalla debitrice all’Istituto San Paolo, riproposta dal Credito Artigiano con l’appello incidentale, e fondata sull’intervenuto acquisto del credito da parte della Banca, la Corte ha poi ritenuto che l’efficacia ricognitiva della convenzione dispensasse l’appellata dalla prova del credito, ponendo a carico dell’attrice l’onere di fornire la prova contraria, che nella specie non era stato adempiuto. Ha precisato comunque che sussistevano elementi di prova del credito, costituiti dagli estratti conto prodotti dalla Banca e non contestati dall’attrice.

Ai fini della determinazione della somma dovuta, la Corte ha ritenuto condivisibile l’esclusione della capitalizzazione, sia trimestrale che annuale, dal calcolo degl’interessi a debito della correntista, richiamando il divieto dell’anatocismo posto dall’art. 1283 c.c. e reputando quindi corretta la metodologia proposta dal c.t.u. in alternativa a quella prescelta dalla sentenza di primo grado. Ha ritenuto invece inammissibile, in quanto tardiva, la domanda di accertamento della nullità delle clausole di determinazione degl’interessi con rinvio agli usi su piazza e di conferimento alla Banca dello jus variandi, precisando comunque che la sentenza di primo grado aveva già escluso l’applicabilità di ogni criterio di calcolo degl’interessi diverso da quello legale. Ha dichiarato altresì inammissibile la domanda di accertamento della nullità dei contratti di conto corrente, in quanto proposta con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., mentre nell’atto di citazione la Domus ICE si era limitata a chiedere la rideterminazione del rapporto contabile, che presupponeva l’efficacia dei predetti contratti, con la sola deduzione della nullità della clausola che prevedeva la capitalizzazione degl’interessi.

La Corte ha ritenuto inoltre superata la questione di legittimità costituzionale della L. 26 febbraio 2011, n. 10, art. 2, comma 61, rilevando che tale disposizione non era più applicabile, in quanto dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 78 del 2012 della Corte costituzionale, ed affermandone comunque l’irrilevanza, dal momento che l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione non dipendeva dalla norma in questione, ma dalla funzione solutoria attribuita ai versamenti della correntista.

La Corte ha escluso infine la tardività della domanda di pagamento degl’interessi legali, in quanto fondata non già sulla convenzione, invocata soltanto come atto ricognitivo, ma sul rapporto di conto corrente intercorso tra le parti.

3. Avverso la predetta sentenza la Domus ICE ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. Ha resistito con controricorso, illustrato anch’esso con memoria, il Credito Valtellinese S.c., in qualità di società incorporante il Credito Artigiano.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata e l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel dichiarare prescritto il diritto alla restituzione delle somme versate sul conto corrente, in virtù del carattere solutorio delle rimesse, la Corte territoriale ha conferito rilievo all’intero svolgimento del rapporto, durato oltre cinquant’anni e caratterizzato da periodici e rilevanti sconfinamenti; a tal fine, tuttavia, essa si è avvalsa, contraddittoriamente, delle risultanze della c.t.u. espletata in primo grado, che aveva preso in considerazione soltanto l’ultimo decennio, con la conseguenza che, nonostante l’esistenza di un’apertura di credito, tutti i versamenti eseguiti da essa ricorrente sono risultati effettuati su un conto corrente scoperto.

1.1. Il motivo è infondato.

Il carattere solutorio attribuito ai versamenti effettuati sul conto corrente trova infatti giustificazione nell’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata, secondo cui, pur essendo il rapporto assistito da un’apertura di credito, la società debitrice aveva superato i limiti del fido accordatole, maturando una notevole esposizione: tale ragionamento non può ritenersi inficiato dalla limitazione dell’indagine al decennio anteriore alla proposizione della domanda di ripetizione dell’indebito, non risultando che all’inizio di tale periodo il conto presentasse un saldo creditore, ed avendo la stessa ricorrente ammesso che anche nel periodo precedente l’andamento del rapporto era stato caratterizzato da periodici e rilevanti sconfinamenti, i quali, impedendo di riconoscere alle rimesse effettuate dalla correntista la mera finalità di reintegrare l’importo messole a disposizione dalla Banca, in funzione di successive utilizzazioni, confortano le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata.

La predetta limitazione risulta d’altronde conforme all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti bancari in conto corrente, non essendo stato dedotto nè dimostrato che fosse stata acquisita la prova dell’andamento del conto nel periodo precedente o che fosse in altro modo emerso che al termine dello stesso il conto presentasse un saldo a credito della correntista, e restando quindi a carico di quest’ultima, secondo le regole generali, le conseguenze di tale lacuna probatoria. Questa Corte ha infatti affermato che, una volta esclusa la validità della pattuizione d’interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista, per difetto dei requisiti di legge, l’onere di fornire la prova del credito fatto valere in giudizio incombe in ogni caso all’attore, sia esso la banca che agisca per il recupero del saldo finale debitore del conto corrente (cfr. da ultimo, Cass.,. Sez. I, 27/09/2018, n. 23313; 16/04/2018, n. 9365) ovvero il correntista che agisca per la ripetizione degl’importi illegittimamente addebitati o corrisposti (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. VI, 23/10/2017, n. 24948; Cass., Sez. I, 13/10/2016, n. 20693). In linea di principio, tale prova dev’essere offerta documentando l’intero andamento del rapporto, attraverso la produzione degli estratti conto attestanti i singoli addebiti e le corrispondenti rimesse, in modo da consentire l’integrale ricostruzione delle partite di dare e avere (cfr. oltre alle precedenti, Cass., Sez. I, 28/11/2018, n. 30822): a tale risultato non può infatti pervenirsi nè attraverso la prova del saldo finale, in quanto lo stesso non consente di conoscere quali addebiti siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali al computo degl’interessi, nè attraverso la prova dei movimenti relativi a singoli periodi di contabilizzazione, i cui saldi iniziali e finali costituiscono a loro volta l’effetto di precedenti operazioni attive e passive, nonchè del calcolo degl’interessi e della relativa capitalizzazione. In riferimento all’ipotesi in cui, come nella specie, gli estratti conto prodotti in giudizio (o gli altri documenti o argomenti di prova acquisiti agli atti, non potendosi riconoscere agli estratti valore di prova legale esclusiva: cfr. Cass., Sez. I, 4/04/2019, n. 9526) non consentano di ricostruire per intero l’andamento del rapporto, riferendosi soltanto al periodo più recente, si è peraltro precisato che il parziale inadempimento dell’onere probatorio non comporta necessariamente il rigetto della domanda, trovando comunque applicazione la regola di giudizio dettata dall’art. 2697 c.c., la quale, ponendo a carico della parte onerata le conseguenze dell’inadempimento, impone di distinguere il caso in cui il correntista sia convenuto da quello in cui sia attore in giudizio. Nella prima ipotesi, l’accertamento del dare e dell’avere può infatti aver luogo sulla base di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete relativamente al saldo maturato all’inizio del periodo cui si riferiscono gli estratti conto prodotti; possono inoltre valorizzarsi altri elementi (quali ad esempio le ammissioni del correntista stesso) idonei a consentire quantomeno di escludere che, con riferimento al periodo non documentato, egli abbia maturato un credito di imprecisato ammontare (tale da rendere impossibile la ricostruzione del rapporto di dare e avere tra le parti per il periodo successivo), e quindi di rielaborare i conteggi considerando pari a zero il saldo iniziale del primo degli estratti conto prodotti; in mancanza di tali dati la domanda deve essere respinta. Nel caso di domanda proposta dal correntista, l’accertamento del dare e dell’avere può del pari attuarsi mediante l’utilizzazione di prove che forniscano indicazioni certe e complete idonee a giustificare il saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, nonchè di elementi che consentano di affermare che il debito, nell’intervallo temporale non documentato, sia inesistente o inferiore al saldo passivo iniziale del primo degli estratti conto prodotti, o che permettano addirittura di affermare che in quell’arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso; diversamente, si devono elaborare i conteggi partendo dal primo saldo debitore documentato (cfr. Cass., Sez. I, 2/05/2019, n. 11543).

2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1852 e ss. c.c., censurando la sentenza impugnata per aver considerato tutti gli addebiti effettuati sul conto corrente come sconfinamenti dal fido, senza distinguere tra atti di utilizzazione dell’apertura di credito e operazioni effettuate allo scoperto, e quindi tra rimesse ripristinatorie e rimesse solutorie. Aggiunge che tale distinzione non emergeva neppure dall’eccezione di prescrizione sollevata, la quale risultava pertanto vaga e generica, con inevitabili ricadute anche sull’onere di provare la natura delle rimesse, che incombeva alla Banca convenuta per la restituzione.

2.1. Il motivo è infondato.

A fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla Banca, incombeva infatti all’attrice l’onere di provare che le rimesse da lei effettuate nel periodo anteriore al decennio che aveva preceduto la proposizione della domanda avevano carattere ripristinatorio, essendo affluite su un conto corrente il cui saldo passivo non eccedeva i limiti dell’apertura di credito ad esso collegata: poichè, infatti, la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio dei versamenti effettuati dal cliente, essa decorre sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo superiore all’accreditamento (cfr. Cass., Sez. I, 30/01/2019, n. 2660; 30/10/2018, n. 27704).

In tal senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di legittimità, non senza contrasti (cfr. in proposito, Cass., Sez. VI, 7 settembre 2017, n. 20933; Cass., Sez. I, 26 febbraio 2014, n. 4518, invocate dalla difesa della ricorrente), superati peraltro da una recente pronuncia delle Sezioni Unite, la quale, nel ribadire il predetto principio, ha chiarito inoltre che l’onere di allegazione gravante sull’istituto bancario convenuto in giudizio che intenda opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esercitato l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito deve ritenersi soddisfatto con la sola affermazione dell’inerzia del titolare del diritto e la dichiarazione di volerne profittare, senza che risulti necessaria anche l’indicazione di specifiche rimesse solutorie (cfr. Cass., Sez. Un., 13/06/2019, n. 15895).

3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1193 e ss. c.c., sostenendo che, nel recepire le conclusioni del c.t.u. nominato nel giudizio di primo grado, che aveva applicato ai versamenti effettuati sul conto corrente i criteri d’imputazione previsti dall’art. 1194 c.c., la Corte territoriale non ha considerato che gli stessi non erano riferibili alla fattispecie in esame, presupponendo necessariamente l’esigibilità del credito, e quindi la chiusura del conto, laddove i versamenti in questione erano stati effettuati su un conto aperto ed operativo.

3.1. Il motivo è inammissibile.

La questione giuridica proposta dalla ricorrente non risulta trattata nella sentenza impugnata, e non può quindi essere sollevata in questa sede, implicando un accertamento di fatto in ordine all’incidenza dei criteri applicati dal c.t.u. nel ricalcolo del saldo finale del conto corrente, e non essendo stato precisato in quale fase del giudizio di merito ed in quale atto la questione sia stata sollevata: i motivi di ricorso devono infatti investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non esaminati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio (cfr. Cass., Sez. II, 24/01/2019, n. 2038; 9/08/2018, n. 20694; Cass., Sez. I, 13/ 06/2018, n. 15430).

4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza e violazione e la falsa applicazione degli artt. 1360,1458,1988 e 2697 c.c., osservando che, nell’includere nel credito azionato dalla Banca quello acquistato dall’Istituto San Paolo, ritenuto provato in virtù del riconoscimento del debito emergente dalla convenzione del 27 aprile 1998, la Corte d’appello ha posto a suo carico la prova di un fatto negativo, al quale essa ricorrente è rimasta estranea; nel rilevare che la risoluzione della convenzione, determinata peraltro da inadempimento anzichè dal verificarsi di una condizione risolutiva, ne aveva fatto venir meno l’efficacia negoziale, la sentenza impugnata non si è inoltre posta neppure il problema dell’operatività ex tunc della risoluzione, incidente anche sul riconoscimento del debito.

4.1. Il motivo è inammissibile.

Nel ritenere provato il credito dell’Istituto San Paolo acquistato dal Credito Artigiano ed incluso nell’importo del quale quest’ultimo aveva chiesto il pagamento, la sentenza impugnata ha fatto ricorso ad un duplice ordine di considerazioni, configurabili come autonome rationes decidendi, e fondate rispettivamente sul riconoscimento del debito contenuto nella convenzione stipulata dall’attrice con le banche creditrici e sull’avvenuta produzione degli estratti conto attestanti l’andamento del rapporto dal quale era scaturito il predetto credito. In quanto riguardanti esclusivamente l’efficacia ricognitiva della convenzione, asseritamente venuta meno a seguito della risoluzione, le censure proposte dalla ricorrente risultano insufficienti ad inficiare il predetto accertamento, idoneo a reggersi anche sulla base della sola prova costituita dagli estratti conto, il cui richiamo preclude quindi l’esame nel merito del motivo d’impugnazione. Qualora infatti, come nella specie, il provvedimento impugnato sia sorretto da una pluralità di ragioni distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di alcune di esse ne comporta il passaggio in giudicato, rendendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle altre, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre all’annullamento della sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. I, 27/07/2017, n. 18641; Cass., Sez. VI, 18/04/2017, n. 9752; Cass., Sez. lav., 4/03/2016, n. 4293).

5. Per analoghe ragioni, risulta inammissibile il quinto motivo, con cui la ricorrente lamenta, in via subordinata, la nullità della sentenza impugnata, rilevando che, nel rigettare la domanda di accertamento della nullità del contratto di conto corrente stipulato con l’Istituto San Paolo, la Corte di merito si è limitata ad escludere la rilevabilità d’ufficio del vizio, senza indicarne le ragioni, e a ritenere condivisibile la più onerosa tra le soluzioni al riguardo proposte dal c.t.u..

5.1. A fondamento della dichiarazione d’inammissibilità della domanda di accertamento della nullità delle clausole contrattuali che rinviavano agli usi su piazza per la determinazione del tasso d’interesse, che conferivano alla Banca uno ius variandi e che prevedevano lo spostamento delle valute, la Corte territoriale ha addotto due diverse ragioni, costituite rispettivamente dalla tardività della domanda, in quanto introdotta soltanto con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., ed il difetto d’interesse all’impugnazione, derivante dalla circostanza che la sentenza di primo grado aveva già escluso l’applicabilità di ogni criterio di calcolo diverso da quello legale. Nel censurare la predetta statuizione, la ricorrente contesta validamente soltanto la prima ratio decidendi, lamentando l’omessa considerazione della rilevabilità d’ufficio della nullità, che avrebbe reso irrilevante la tardiva denuncia del vizio da cui era affetto il contratto, limitandosi invece ad osservare, in ordine alla seconda, che la sentenza impugnata ha recepito la soluzione per lei più onerosa, tra quelle prospettate nella relazione del c.t.u., senza tuttavia precisare le ragioni per cui le altre soluzioni avrebbero dovuto essere considerate preferibili sotto il profilo sia giuridico che contabile, con la conseguenza che il motivo risulta, per tale aspetto, privo di specificità.

6. Con il sesto motivo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata nella parte riguardante il riconoscimento degl’interessi al tasso legale, osservando che la Corte d’appello non ha tenuto conto della novità della relativa richiesta, avente il proprio fondamento in un titolo diverso dalla convenzione, originariamente azionata dalla Banca.

6.1. Il motivo è infondato.

Correttamente, infatti, la Corte territoriale ha escluso la tardività della domanda riconvenzionale di condanna al pagamento degl’interessi legali sulla somma dovuta, avendo rilevato che la stessa non risultava fondata sulla convenzione, fatta valere esclusivamente come atto ricognitivo, ma sul rapporto di conto corrente intercorso tra le parti, nuovamente invocatile, per effetto della risoluzione dell’accordo transattivo raggiunto attraverso la stipulazione della convenzione. Peraltro, anche a voler ritenere che nella comparsa di costituzione in primo grado il Credito Artigiano avesse allegato la convenzione quale fonte del credito, la sostituzione della stessa con il rapporto di conto corrente sarebbe stata qualificabile come modificazione della domanda consentita ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, riguardando uno solo degli elementi costitutivi della pretesa azionata, e precisamente la causa petendi, e ricollegandosi comunque alla vicenda sostanziale originariamente dedotta in giudizio, con la conseguente esclusione di qualsiasi compromissione delle facoltà difensive della controparte o dell’allungamento dei tempi processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 15/06/2015, n. 12310; Cass., Sez. III, 14/02/2019, n. 4322; Cass., Sez. III, 25/05/ 2018, n. 13091).

7. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2019

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