Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31990 del 11/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 11/12/2018, (ud. 13/09/2018, dep. 11/12/2018), n.31990

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 731-2015 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. BAIAMONTI 4,

presso lo studio dell’avvocato ROSARIA INTERNULLO, rappresentato e

difeso dagli avvocati ROSARIO PIZZINO, FEBO BATTAGLIA, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

C.R.I.A.S. – (Cassa Regionale per il Credito alle Imprese Artigiane

Siciliane), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BISAGNO 14, presso lo studio

dell’avvocato IVAN RANDAZZO, rappresentata e difesa dall’avvocato

ANTONINO RAVI’, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 580/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 25/06/2014 R.G.N. 1756/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/09/2018 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati FEBO BATTAGLIA e ROSARIO PIZZINO;

udito l’Avvocato ANTONINO RAVI’.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n.580/2014 la Corte d’appello di Catania ha accolto il gravame proposto dalla Cassa Regionale per il Credito alle Imprese Artigiane Siciliane – CRIAS – e riformando la sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di P.A. diretta a far accertare il diritto alla c.d. “indennità speciale Crias”, istituita con delibera del consiglio di amministrazione della società, poi ratificata da un accordo aziendale del luglio 1974, con condanna alla corresponsione sin dalla data di assunzione.

2. La Corte territoriale premesso che l’indennità Crias era stata istituita dal citato accordo aziendale del 3.7.74 in luogo del compenso forfettario per lavoro straordinario, ha ritenuto che, poichè tale accordo collettivo non aveva stabilito un termine di efficacia, avendo quindi natura a tempo indeterminato, non poteva escludersi la facoltà del datore di lavoro di recesso unilaterale, ove esercitato, come nel caso di specie, nel rispetto dei criteri di correttezza e buona fede, senza lesione dei diritti quesiti, come statuito dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 8360 del 1996 e n. 1694 del 1997.

3. La sentenza impugnata ha poi ritenuto che fosse legittima la disdetta unilaterale dell’accordo del 3.7.74, intervenuta con delibera del Commissario straordinario del 24.9.82, con riferimento ai lavoratori assunti dopo tale data, come il P.; detta delibera doveva invero intendersi quale disdetta, esprimendo in modo certo la volontà di sopprimere l’indennità in questione dal trattamento retributivo nei confronti di tutti i dipendenti. La sentenza impugnata escludeva poi che l’accordo collettivo aziendale del novembre 2001 potesse prevedere il riconoscimento dell’indennità Crias a tutti i dipendenti con effetto retroattivo, ciò in quanto la mancata indicazione di una data di efficacia della previsione di cui all’art. 7 di detto accordo, relativa all’impegno della società di riconoscere un trattamento omogeneo a tutti i dipendenti a prescindere dalla data di assunzione, ne confermava il valore meramente programmatico e non ricognitivo.

4. Con atto notificato il 4.12 2014 il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, a cui ha resistito con controricorso la Cassa Regionale per il Credito alle Imprese Artigiane Siciliane, atti poi illustrati da memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5) Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c. ed omessa o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio, per erroneità della ravvisata disdetta dell’accordo collettivo aziendale 3 luglio 1974 con la Delib. commissariale 24 settembre 1982, priva di una tale natura: nell’inesistenza di un diritto potestativo di recesso unilaterale datoriale in un contratto a prestazioni sinallagmatiche come quello di lavoro, in assenza di un accordo con le organizzazioni sindacali o i singoli lavoratori; piuttosto integrante inadempimento agli obblighi contrattuali assunti.

6) Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2909,1362 e 1366 c.c. e insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio, per travisamento e contraddittorietà di ragionamento nell’aver riconosciuto l’illegittimità della deliberazione commissariale 24 settembre 1982 (affermata anche in sede di legittimità con effetto di giudicato) nei confronti dei lavoratori in servizio, ma non di quelli assunti in epoca successiva, sull’erroneo discrimine (non emergente dalla volontà manifestata dalla Cassa) dell’esistenza o meno di diritti quesiti, inalienabili e configurabili soltanto per i primi, non per i secondi.

7) Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1367 c.c. ed omessa o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio, per erronea esclusione della natura ricognitiva della clausola sub 7) dell’accordo integrativo aziendale 26 novembre 2001 per la previsione di riconoscimento degli elementi retributivi fissi e continuativi (tra cui l’indennità Crias) “a tutti i dipendenti, a prescindere dalla data di assunzione”, in violazione del canone interpretativo gerarchicamente sovraordinato di letteralità, anche in sistematica correlazione con la clausola sub 8), di fissazione di puntuali decorrenze per tutte le indennità, ma non per quella Crias, con un’incoerente quanto inverosimile “dimenticanza”, senza alcuna considerazione infine per l’argomento interpretativo, a conferma, della clausola di rinuncia apposta al contratto di lavoro individuale poi impugnata.

8) Il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c. ed omessa o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio per erroneità della ravvisata natura di disdetta dell’accordo collettivo aziendale 3 luglio 1974 con la deliberazione commissariale 24 settembre 1982) può essere congiuntamente esaminato, per ragioni di stretta connessione, con il secondo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2909,1362 e 1366 c.c. e insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio per riconoscimento dell’illegittimità della Delib. commissariale 24 settembre 1982 nei confronti dei lavoratori in servizio ma non di quelli assunti in epoca successiva).

9) I motivi sono in parte infondati e in parte inammissibili.

In punto di diritto, deve essere esclusa la denunciata violazione dell’art. 1372 c.c., per la pretesa inesistenza di un diritto potestativo di recesso unilaterale datoriale in un contratto a prestazioni sinallagmatiche come quello di lavoro, in assenza di un accordo con le organizzazioni sindacali o i singoli lavoratori, senza altra specificazione.

E’ invero principio consolidato in sede di legittimità, esattamente applicato dalla Corte territoriale, quello secondo cui è riconosciuta al datore di lavoro la legittima facoltà di recesso da un contratto collettivo postcorporativo stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Esso non può, infatti, vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione; e sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio (Cass. 25 febbraio 1997, n. 1694; Cass. 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass. 20 settembre 2005, n. 18508; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27198; Cass. 20 agosto 2009, n. 18548; Cass. 28 ottobre 2013, n. 24268).

10) Entrambi i mezzi condividono poi il profilo di inammissibilità per genericità, nell’inosservanza del principio di specificità, sotto il profilo della violazione del principio di autosufficienza del ricorso, prescritto, a pena appunto di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6.

Pur censurando per i rispettivi vizi sopra illustrati la deliberazione commissariale 24 settembre 1982, i due motivi congiuntamente scrutinati ne omettono la specifica indicazione della sede di produzione (non assolta dalla generica allegazione di produzione “nel fascicolo di primo grado”: al terz’ultimo alinea di pg. 2 del ricorso) e comunque la trascrizione, così da precludere a questa Corte l’esame stesso delle doglianze (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915, con principio affermato ai sensi dell’art. 360bis, n. 1 c.p.c.; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 7 giugno 2017, n. 14107).

11) Analogo vizio di inammissibilità sconta la deduzione di violazione di un giudicato, esterno, in ordine all’accertamento di illegittimità della suddetta deliberazione commissariale (“ripetutamente confermata dalla stessa Corte Suprema”, secondo la mera asserzione ai primi due alinea di pg. 11 del ricorso), che ne presuppone la

trascrizione nel corpo del ricorso: essa pure omessa, con la conseguente preclusione per il giudice di legittimità dell’esercizio della propria attività nomofilattica, possibile solo se la sentenza da esaminare venga messa in tal guisa a disposizione (Cass. 13 dicembre 2006, n. 26627; Cass. 16 luglio 2014, n. 16227).

12) Tuttavia, anche a voler prescindere dalla rilevata ragione di inammissibilità, non sussiste alcuna formazione di giudicato in proposito (come infondatamente preteso dal lavoratore ricorrente sub p.to 1 di pgg. 2 e 3 della memoria comunicata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.), per effetto delle sentenze di questa Corte 25 settembre 2015, n. 19026; 28 settembre 20145, n. 19144; 7 ottobre 2015, n. 20074; 7 ottobre 2015, n. 20075. Ben lungi dal compiere alcun accertamento in ordine alla natura (di disdetta o meno dell’accordo sindacale del 3 luglio 1974) della delibera commissariale 24 settembre 1982, n. 729, le sentenze citate si sono arrestate alla mera statuizione di inammissibilità della censura, per inidoneità di denuncia dei canoni interpretativi, senza alcuna statuizione sulla questione, che sia impegnativa con valore di precedente. E ciò si trae agevolmente dalla semplice lettura dei pertinenti passaggi argomentativi (in particolare, per tutte, della n. 20075/2015, sub. 3.1., pgg. 7 e 8), secondo cui: “diviene necessario valutare se la delibera del Commissario straordinario n. 729 del 1982” abbia “costituito o meno disdetta dell’accordo aziendale” avendo “la Corte territoriale… escluso la valenza di disdetta dell’accordo sindacale del 1974”; orbene, la Corte di cassazione rileva che “la ricorrente, pur enunciando la violazione di canoni ermeneutici, non espone in qual modo la corte territoriale se ne sia discostata, prospettando, invece, una diversa lettura della portata dell’atto in questione, il che è inammissibile nel giudizio di legittimità, non potendosi ritenere idonea ad integrare valido motivo di ricorso per cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito… “; sicchè, soltanto per questa ragione, preclusiva di un esame diretto della questione interpretativa, che essa, di necessità, conclude sul punto dovere “dunque, ritenersi escluso che la datrice di lavoro avesse disdettato l’accordo aziendale del 1974”.

13) Infine, entrambi i motivi condividono l’inammissibilità dei denunciati vizi di omessa e/o insufficiente motivazione. Essi sono inconfigurabili, per la mancata indicazione del fatto asseritamente omesso nell’esame, tanto meno nel rispetto del paradigma deduttivo (dovendo il ricorrente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”) prescritto dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori, ostativi ad una valutazione della motivazione insufficiente o contraddittoria, salvo che essa non risulti apparente nè perplessa o obiettivamente incomprensibile (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439): ciò che non si verifica nel caso di specie.

14) Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1367 c.c. ed omessa o insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per erronea esclusione della natura ricognitiva della clausola sub 7) dell’accordo integrativo aziendale 26 novembre 2001, è inammissibile.

15) E ciò per inidoneità della censura sull’interpretazione della clausola, in assenza di una specifica e compiuta indicazione dei canoni ermeneutici asseritamente violati e dei principi in essi contenuti, oltre che della precisazione delle modalità e delle considerazioni con le quali il giudice del merito se ne sarebbe discostato (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536; Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 14 luglio 2016, n. 14355).

16) D’altro canto, l’interpretazione resa dalla Corte territoriale è pure adeguatamente argomentata, per la ragione (in particolare espressa al primo capoverso di pg. 11 della sentenza) di corretta esclusione di efficacia retroattiva dell’accordo sindacale in assenza di una specifica pattuizione in tale senso (arg. ex Cass. 7 dicembre 2000, n. 15530). Sicchè essa è insindacabile in sede di legittimità, anche per la sostanziale risoluzione della censura in un’interpretazione della parte in contrapposizione a quella del giudice di merito, cui essa è riservata in via esclusiva (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 maggio 2017, n. 10831). Nè la parte può criticarne la ricostruzione della volontà negoziale, così investendo il risultato interpretativo in sè sulla base di una diversa valutazione dei fatti esaminati (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891). Senza che neppure, infine, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto debba essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma soltanto una delle possibili e plausibili interpretazioni (Cass. 20 novembre 2009, n. 26539; Cass. 17 marzo 2014, n. 6125; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136).

17) La stessa ragione di inammissibilità, ritenuta per i due mezzi precedenti alla luce del testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vale anche qui per il vizio analogamente denunciato.

18). Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la compensazione delle spese del giudizio tra le parti: ravvisati i giusti motivi previsti dall’art. 92, comma 2 nel testo applicabile ratione temporis (essendo l’introduzione del giudizio anteriore al 4 luglio 2009), nell’esito alterno dei gradi di merito e nella mancanza allo stato di un univoco indirizzo della giurisprudenza di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio tra le parti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2018

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