Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3199 del 09/02/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 09/02/2018, (ud. 11/01/2018, dep.09/02/2018),  n. 3199

Fatto

FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE

p. 1. La GV Società Agricola srl propone cinque motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 70/18/12 del 12 novembre 2012 con la quale la commissione tributaria regionale del Veneto, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione notificatole dall’agenzia delle entrate, per imposta di registro ed ipotecaria, in revoca dell’agevolazione provvisoriamente fruita sull’atto 13 giugno 2005, con il quale essa aveva acquistato un terreno agricolo destinato a coltivazione (agevolazione riconosciuta all’imprenditore agricolo professionale in presenza dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 99 del 2004, artt. 1 e 2).

La commissione tributaria regionale, per quanto qui rileva, ha ritenuto che: – la società non avesse coltivato (se non in minima parte) il terreno nei cinque anni successivi all’acquisto, come attestato dall’ispettorato regionale dell’agricoltura con nota dell’11 novembre 2008; – il requisito della coltivazione diretta, in particolare, non potesse ravvisarsi (nemmeno quali atti inerenti L. n. 53 del 1956, ex art. 3) nelle opere di rimozione di manufatti, bonifica e miglioramento fondiario intraprese dalla società per rendere coltivabile il terreno, già adibito dal precedente proprietario ad allevamento di animali da pelliccia; – una volta revocata l’agevolazione in questione, dovesse all’atto applicarsi l’aliquota del 15% di cui alla L. n. 36 del 1977, non già quella dell’8% riconosciuta agli imprenditori agricoli professionali dall’articolo 1 della Tariffa, prima parte, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, non essendo stata quest’ultima richiesta al momento del trasferimento.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

p. 2.1 Con il primo ed il secondo motivo di ricorso la società deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1954, art. 7; nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Per avere la commissione tributaria regionale affermato la decadenza dalla agevolazione, nonostante che non fosse nella specie ravvisabile il presupposto della “cessazione” della coltivazione diretta del fondo nei cinque anni successivi all’acquisto ex art. 7 cit.. Ciò perchè la mancata coltivazione non era dipesa da sua inerzia, bensì dalla necessità di intraprendere opere di risanamento e conversione funzionali a rendere coltivabile il fondo. Come anche desumibile dal certificato dell’ispettorato regionale dell’agricoltura 9 novembre 2009 e dalla consulenza tecnica di parte (geom. V.) prodotti in giudizio; documenti, questi ultimi, che non erano stati adeguatamente vagliati dal giudice di appello.

p. 2.2 Con il terzo motivo di ricorso la società deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito da quanto attestato dal menzionato certificato dell’ispettorato regionale agrario 9 novembre 2009, secondo cui: – i lavori in questione concernevano “il miglioramento fondiario integrale per il recupero del terreno all’agricoltura”; – tali lavori risultavano “tecnicamente indispensabili per rendere l’area coltivabile”; – sussisteva, per il resto, “il requisito oggettivo della idoneità del fondo per i fini di cui alla normativa vigente sulla piccola proprietà contadina D.Lgs. n. 99 del 2004, ex art. 1, comma 4”.

p. 2.3 I tre motivi di ricorso – suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle questioni giuridiche dedotte – sono infondati.

Per quanto concerne l’asserita violazione normativa, si ritiene che la commissione tributaria regionale abbia fatto corretta applicazione della L. n. 604 del 1954, art. 7 secondo cui: “decade dalle agevolazioni tributarie l’acquirente, il permutante o l’enfiteuta il quale, prima che siano trascorsi cinque anni dagli acquisti fatti a norma della presente legge, aliena volontariamente il fondo o i diritti parziali su di esso acquistati, ovvero cessa dal coltivarlo direttamente”. In tal caso, soggiunge la legge (3^ co.), “l’acquirente, il permutante o l’enfiteuta è tenuto al pagamento dei tributi ordinari”.

Il giudice di merito – nell’ambito di una valutazione fattuale non sindacabile nella presente sede di legittimità – ha accertato che dell’intera superficie acquistata (circa 71.500 m2) la società coltivava unicamente a seminativo la nettamente minoritaria porzione di 9.000 m2; circostanza, questa, riferita dall’ispettorato regionale per l’agricoltura in esito a sopralluogo posto in essere, nel settembre 2008, oltre tre anni dopo l’acquisto del fondo. In particolare, ha appurato il giudice di appello – sulla scorta di circostanze non contestate, in quanto tali, dalla società contribuente – che la superficie acquistata (pur tenendo conto della porzione a bosco) risultava “incolta e per la maggior parte occupata dai manufatti e dai resti di manufatti costituenti un ex allevamento di animali da pelliccia i cui lavori di demolizione continuavano a protrarsi alla data dell’ultimo sopralluogo del 16 settembre 2008. Gli ex fabbricati aziendali (ricovero attrezzi e scorte, abitazione del custode, uffici ecc…) risultavano tuttora inutilizzati”.

La commissione tributaria regionale ha preso anche in esame l’argomento difensivo secondo cui la mancata coltivazione derivava in realtà dall’esecuzione di opere (di eliminazione dei manufatti e delle strutture del pregresso allevamento di animali da pelliccia, e dalla bonifica del fondo) tanto ingenti quanto funzionali all’esercizio dell’agricoltura.

Correttamente essa l’ha disatteso, dal momento che tali attività ancorchè prodromiche e funzionali alla coltivazione – non potevano oggettivamente equipararsi a quest’ultima; non sul piano della tipologia degli interventi e delle caratteristiche intrinseche dell’attività svolta sul fondo, e nemmeno sotto il profilo (anch’esso dedotto dalla società) della loro diretta conduzione e direzione da parte della società acquirente medesima (requisiti, questi ultimi, appunto rilevanti solo con riguardo allo svolgimento di un’attività agricola, e non di bonifica e mutamento di destinazione del terreno).

Sulla base di quanto appurato dalla commissione tributaria regionale, in definitiva, era dato qui riscontrare una situazione di effettivo contrasto con la ratio agevolativa; volta a subordinare il beneficio fiscale alla coltivazione del terreno nei cinque anni successivi al suo acquisto. Là dove, nel caso, quest’ultima condizione non poteva dirsi verificata, visto anche il notevole lasso temporale intercorso tra l’acquisto e l’accertamento in fatto compiuto (con esito di mancata coltivazione) dall’ispettorato agrario.

Si tratta di una affermazione che la commissione tributaria regionale ha argomentato anche nella possibile interrelazione dell’esecuzione delle opere con il disposto di cui alla L. n. 53 del 1956, art. 7 (sotto il profilo degli “atti inerenti alla formazione della piccola proprietà contadina”). Con conclusione basata sul fatto che le attività poste in essere dalla società contribuente non potevano rientrare in queste ultime, nemmeno attraverso un rapporto di inerenza alla coltivazione diretta propriamente detta.

Sul punto, la sentenza impugnata ha ritenuto quanto segue: “non pare proprio che possano rientrare tra i lavori agricoli di dissodamento del terreno quelli che lo stesso perito di parte V. individua: demolizione delle corsie in cemento, demolizione le vasche in cemento sottostanti alle corsie; ricerca e recupero di tutte le tubature sotterranee; dismissione delle gabbie, eliminazione delle tettoie”.

Va d’altra parte considerato che l’esecuzione di tali opere precludeva la coltivazione del fondo, nell’arco temporale assegnato dalla legge, all’esito non di una circostanza oggettiva, insuperabile e non imputabile alla sfera di controllo ed organizzazione della società contribuente – ma proprio di una scelta imprenditoriale ed organizzativa di quest’ultima.

Ricorre, in proposito, l’indirizzo di legittimità secondo cui: (Cass. n. 18849/07): “ai sensi della L. 6 agosto 1954, n. 604, art. 7, comma 1, la decadenza dalla agevolazioni fiscali relative all’acquisto della piccola proprietà contadina, nell’ipotesi di cessazione della coltivazione diretta del fondo da parte dell’acquirente, prima del decorso di cinque anni dall’acquisto, non opera qualora la mancata attivazione derivi da fatti obiettivi sopravvenuti non riconducibili all’acquirente sotto un profilo soggettivo, stante il principio di trasparenza e conoscibilità degli oneri fiscali, per il quale non possono essere poste a carico di un soggetto le conseguenze di fatti sopravvenuti a lui non imputabili”. Dal che si evince a contrario – la rilevanza, quale causa di decadenza dall’agevolazione provvisoriamente riconosciuta, di tutte quelle cause di mancata coltivazione comunque ascrivibili alla potestà del contribuente.

Da quanto si è finora osservato discende, poi, l’infondatezza altresì delle censure di natura motivazionale. Posto che la commissione tributaria regionale – lungi dall’aver dato corso ad omesso esame del fatto decisivo costituito dalla funzionalità delle opere all’esercizio dell’agricoltura – ha mostrato di farsi specificamente carico della centralità di questo problema; giungendo infine ad argomentare adeguatamente (ed anche all’esito della disamina della consulenza tecnica di parte) il proprio convincimento in merito.

Si è pertanto ben lontani dai limiti del sindacato di legittimità della motivazione del giudice di appello, così come rigorosamente delineati dalla nuova formulazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, ed altre successive); applicabile anche nel giudizio di cassazione avverso sentenze del giudice tributario.

p. 3.1 Con il quarto motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della tariffa, prima parte, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986. Per avere la commissione tributaria regionale erroneamente respinto la propria domanda subordinata di applicazione dell’aliquota dell’8%, così come prevista per i trasferimenti di terreni agricoli a favore di soggetti abitualmente dediti all’attività agricola, anzichè di quella del 15%; introdotta dalla L. n. 36 del 1977 per disincentivare l’acquisto di terreni agricoli da parte di soggetti non-agricoltori.

p. 3.2 Il motivo è infondato.

La disciplina dell’imposta di registro muove dalle condizioni di applicabilità emergenti al momento dell’atto; il che vale anche per la natura dell’agevolazione che, in tale momento, venga richiesta dal contribuente. Con la conseguenza che – decaduto quest’ultimo dalla agevolazione invocata – non può darsi successivamente ingresso ad un differente beneficio.

Ciò in base al principio, diverse volte affermato ed anche recentemente ribadito nell’orientamento di legittimità, secondo cui: “la sottoposizione di un atto ad una determinata tassazione, ai fini dell’imposta di registro, con il trattamento agevolato richiesto o comunque accettato dal contribuente, comporta, in caso di decadenza dal beneficio, l’impossibilità di invocare altra agevolazione, in quanto i poteri di accertamento e valutazione del tributo si esauriscono nel momento in cui l’atto viene sottoposto a tassazione e non possono rivivere, sicchè la decadenza dell’agevolazione concessa in quel momento (nella specie, in favore della piccola proprietà contadina) preclude qualsiasi altro accertamento sulla base di altri presupposti normativi o di fatto” (Cass. ord. 10099/17; in termini, Cass. 8409/13, nonchè la giurisprudenza menzionata nella stessa sentenza qui impugnata).

p. 4.1 Con il quinto motivo di ricorso la società deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – nullità della sentenza e del procedimento. Per avere la commissione tributaria regionale liquidato a suo carico le spese di entrambi i gradi del giudizio “nell’importo di Euro 7950,00 per ciascun grado”; senza però scorporare i diritti e gli onorari, così da permettere il controllo di rispondenza del liquidato alle tariffe professionali.

p. 4.2 I motivo non può trovare accoglimento, risultando finanche inammissibile in quanto del tutto generico e carente nella indicazione di fattori fondamentali di giudizio, rappresentati: – dalla qualifica professionale del difensore tecnico; – dall’essere stata la liquidazione in esame resa in presenza, ovvero in assenza, di nota spese di parte; – dai parametri tariffari di riferimento nella specie applicabili (tenuto anche conto della mancata contestazione della corretta individuazione, da parte del giudice di appello, dello scaglione di valore della lite preso a riferimento); dal concreto pregiudizio in ipotesi derivante alla parte dal mancato scorporo dei diritti dagli onorari.

Sicchè, in definitiva, pur restando fermo il principio secondo cui (da ultimo, Cass. 8824/17): “in tema di liquidazione delle spese processuali, il giudice, in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, giusta la L. n. 794 del 1942, art. 24”, osta tuttavia all’accoglimento della doglianza in esame l’indirizzo, esattamente in termini, in base al quale “in tema di spese processuali, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia della mancata distinzione, nella sentenza impugnata, tra diritti ed onorari secondo la disciplina delle tariffe professionali applicabili “ratione temporis” alla fattispecie, atteso che, in assenza di deduzioni sui concreti pregiudizi subiti dalla mancata applicazione di tale distinzione, la censura non dimostra l’esistenza di un interesse ad ottenere una riforma della decisione” (Cass. 15363/16; così Cass. 20128/15).

P.Q.M.

LA CORTE

– rigetta il ricorso;

– condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 10.000,00; oltre spese prenotate a debito;

– v.to il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione quinta civile, il 11 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2018

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